In Identità e differenza Heidegger espone, in linee essenziali, la relazione originaria di convergenza e divergenza tra l’essere e l’ente – nello specifico l’essere umano, l’esserci – alla base della manifestazione e della comprensione, rispettivamente, dell’identità e della differenza. La convergenza tra l’essere e l’ente è l’evento che dà a entrambi un’identità, ovvero una forma secondo cui è progettato – o compreso secondo una determinata prospettiva – l’essere dell’ente. La divergenza è il processo, o l’eventuarsi, implicito nella comprensione dell’ente essente e quindi nella sua identità: è la distensione temporale dell’essere, che nell’ente progettato si rende manifesta, e da qui la loro differenza. Nella definizione dell’identità e della differenza il rimando alla temporalità è inevitabile.
Il valore ontologico, fondamentale, del tempo è dimostrato chiaramente da Alberto Giovanni Biuso in Temporalità e Differenza. Biuso dimostra come la comprensione del tempo e del legame d’identità e differenza debba tradursi in consapevolezza e conoscenza della molteplicità unitaria del reale, in tempo vissuto e saputo come materia dinamica, plurale e onnicomprensiva. L’autore riconosce, dunque, la validità di un’ontologia fenomenologico-temporale che fondi se stessa su questa comprensione, mentre vengono criticati quegli approcci scientifici basati su una visione riduzionistica o dualistica della realtà, che implicano una comprensione parziale o erronea – quando non del tutto assente – del tempo. “Ogni monoteismo ermeneutico, ogni interpretazione e analisi che pretendano di essere esclusive – sia sul versante della coscienza del tempo sia su quello del tempo fisico – si precludono la comprensione della differenza che il tempo è. Nel politeismo del tempo si dispiega non soltanto il suo enigma ma anche e soprattutto la soluzione” (p. 1).
Non c’è regione dell’essere che non trovi nel tempo la sua spiegazione. Il tempo è il ripetersi del moto circolare dei corpi celesti, ma anche l’irreversibilità di ciò che muta e non torna mai uguale, come ad esempio il livello di entropia dei fenomeni, l’accumulazione dei ricordi, la successione di causa ed effetto e l’aumento di complessità di determinati sistemi. Il tempo è lo spazio inteso come presenza ordinata e sensata degli enti con cui un corpo vivente entra in relazione, come “forma nella quale il tempo concreta e rende immagine se stesso in ogni cosa e soprattutto nel corpo che abita i luoghi” (p. 61). È il corpo, infatti, a presentare gli oggetti coesistenti dello spazio sulla base dello scopo perseguito dalle sue differenti azioni. Azioni che hanno la loro condizione di possibilità nell’estensione temporale del corpo stesso, nel perdurare delle sue strutture/funzioni. È quindi il “corpotempo” a dare agli enti una forma spaziale sensata; la stessa forma che la fisica classica indaga come dimensione esclusivamente quantitativa, omogenea e divisibile, perché esclude da essa le qualità incommensurabili del corpo umano che la crea, attraversa e comprende: ovvero la percezione della durata dei luoghi-istanti vissuti e l’attribuzione a questi luoghi-istanti di determinati significati. Il tempo della fisica è concepito, allo stesso modo dello spazio, come il risultato di una “pura geometrizzazione quantitativa dei fenomeni, indifferente al fluire irreversibile della vita e dunque alla tragicità delle esistenze consapevoli di sé” (p. 17). Anche il tempo dei calendari, degli orologi e di altri sistemi di misura è tempo quantificato: con esso si adotta infatti un parametro fisso cui fare riferimento per calcolare quanto durano gli eventi. Perché possano adottarsi questi strumenti di misura è necessario però che gli eventi continuino ad accadere, identici ma anche differenti: per ogni anno che passa il mese di gennaio comprende eventi diversi, ma ciò non toglie che sia sempre possibile prevedere il ripetersi annuale di gennaio e del suo clima invernale. Il tempo è anche la storia, considerata come un’accumulazione di avvenimenti irripetibili e una riproduzione di strutture significative con cui gli umani ordinano la propria esistenza. È il linguaggio: ciò che viene detto o scritto è compreso, infatti, ritenendo e aspettando la successione delle parole, quindi delle relazioni tra gli enti cui si riferiscono, scandite secondo il prima, l’adesso e il poi. È allora la struttura temporale di ciò che accade “a garantire la continuità olistica della lingua nel suo continuo mutare, a produrre le differenze lessicali e semantiche all’interno delle identità sintattiche” (p. 9). Il tempo è il corpo umano, è presente nei ritmi circadiani, nelle frequenze del respiro, nelle pulsazioni del cuore, nell’attenzione per le cose presenti guidata dal ricordo di ciò che è stato e dall’attesa di ciò che ha da venire. È la corporeità nella sua totalità: “Il corpo non è nel passato ma è il passato della memoria; il corpo non è nel futuro ma è la protenzione verso il tempo che ha da essere; il corpo non è nel presente ma è la pienezza dell’essere qui e ora” (p. 5). Corpo isotropo, cioè centro mobile da cui si aprono differenti prospettive spazio-temporali e semantiche. Prospettive spazio-temporali in quanto la struttura intenzionale di attenzione-ritenzione-protenzione, che guida ogni atto del corpo, è rivolta a enti che appartengono a luoghi-istanti sempre diversi, nel senso che ciò che oggi possiamo ricordare, una volta poteva essere solo immaginato, poiché incontrarsi con una persona di cui si è stati innamorati in passato non implica il ripetersi degli stessi sentimenti: infatti visitando a distanza di anni un luogo familiare si provano sensazioni nuove, spesso venate di nostalgia. Ma al tempo stesso si dischiudono anche prospettive semantiche, in quanto il “corpomente” unifica le singole porzioni spaziali e temporali degli enti percepiti e i diversi luoghi-istanti che a questi appartengono, facendo riferimento a un costrutto significativo, relativo alle opportunità teoriche o pratiche proprie dell’ente esperito – costrutto che lo stesso corpomente elabora e conserva in memoria. Il tempo è il mondo inteso come insieme delle relazioni significative che un corpo cosciente del proprio transitare intesse tra gli enti con cui entra in contatto, una totalità rispetto alla quale risulta sensato il corso della vita degli individui. Resta implicito che “se la mente umana può rispecchiare, organizzare e costituire il mondo – sta qui il nucleo di verità di ogni idealismo, frainteso dall’idealismo stesso – è perché essa non è qualcosa di diverso dalle strutture temporali della materia ma ne costituisce l’autocomprensione” (p. 50). La materia che si autocomprende è il mondo strutturato e dotato di senso dell’essere umano. Usando la terminologia heideggeriana, è l’essere-nel-mondo dell’esserci, l’unità differente di sé e mondo, in cui sé e mondo acquisiscono senso grazie alla relazione di reciproca appartenenza che li contraddistingue: grazie alla temporalità estatico-orizzontale (dell’esserci) in cui l’immanenza coscienziale degli enti e la trascendenza del mondo rispetto alla coscienza costituiscono un unico processo. Il tempo “è la struttura coniugante la materia cosciente di se stessa e la materia conosciuta da tale coscienza” (p. 39). È la realtà che si dispiega e spiega a se stessa, dove enti, eventi e processi non sussistono né accadono sullo sfondo – uno sfondo impossibile da concepire senza assumere una posizione dualistica o riduzionistica sul tempo –, ma costituiscono continuamente il suo stesso divenire e la comprensione di questo divenire da parte del corpomente, che è realtà cosciente di se stessa. Il tempo è temporalità: consapevolezza del corpo umano di essere tempo incarnato, di essere tempo vissuto e pensato.Ogni manifestazione ontica dell’essere, che sia di tipo fisico-chimico, storico sociale, linguistico, coscienziale, qualitativo o quantitativo, o che rientri in un’altra definizione ancora, trova nel tempo la sua spiegazione. L’essere degli enti non è qualcosa di statico e di omogeneo, ma diviene, e presenta le qualità intrinseche di ciò che diviene: l’identità e la differenza. Se l’essere degli enti non divenisse risulterebbe impossibile pensare e riconoscere gli enti: verrebbe meno la loro identità, correlata alla differenza del divenire. Come scrive Biuso: “Il procedere del tempo è fondamento dell’identità degli enti, i quali se pensati fuori dall’irreversibilità temporale non potrebbero più essere conosciuti proprio perché elemento essenziale di ogni conoscenza è la possibilità di distinguere l’oggetto definito nei diversi momenti della sua storia temporale. L’essere e la conoscenza sono identità e differenza. Senza una reale differenza del divenire non sarebbe dunque possibile l’identità dell’essere” (p. 106).
La differenza è la molteplicità dei modi in cui l’essere si dà: l’essere che accade oggi non è lo stesso che è accaduto ieri e che accadrà domani; l’accadere o eventuarsi in cui consiste l’essere è un continuo divenire differente di enti – o della materia nella molteplicità dei suoi strati, che vanno dalla sussistenza fisico-chimica all’esistenza cosciente degli umani – i quali trovano fondamento nell’essere. Essa serve a specificare ed evidenziare l’interpretazione temporale: l’essere presente muta in essere stato in rapporto al continuo presentarsi dell’essere a venire, per cui il continuo presentarsi dell’essere a venire fa dell’attualità una realtà sempre diversa o differente. La differenza allora è “alterità temporale”: possibilità di ciò che è in atto di diventare altro, garantita dal darsi dell’essere a venire. L’identità è la totalità dei differenti modi dell’essere. È l’ente essente compreso come costante luogo di convergenza delle estasi ontologico-temporali, come continuo risultato dell’avvenire che è stato o è uguale, del permanere della struttura circolare, finita, di avvenire-essente stato-presentante. L’identità si rivela radicalmente nel kαιρός: l’attimo in cui il divenire differente è riconosciuto e benedetto nella sua necessità e totalità, perché è il tempo che è stato e continua ad essere, a rendere possibile e sensato il proprio presente.
In sintesi, la differenza intrinseca al mutamento appartiene a una struttura – la struttura temporale dell’ente – che permane, risultando pertanto identificabile come costante mutamento. L’essere dell’ente è l’eterno ritorno di un’identità differente: “Ogni ente rimane nel tempo ciò che è ma nel tempo muta a ogni istante. Passato, presente e futuro non sono tre né uno ma costituiscono l’unitaria pluralità del divenire naturale e della sua misurazione da parte di una coscienza: ora, già, non ancora. In ogni istante ciascun ente è se stesso e già non è più. Non va però verso il non essere, in direzione del ni-ente ma si dirige verso il non ancora implicito nell’essere stato […] Ogni variazione nasce dentro la continuità temporale dell’ente e ogni continuità è in divenire. Differenza e identità si rimandano reciprocamente e dipendono l’una dall’altra. Il tempo è questa identità differente” (p. 107).
Il moto circolare dei corpi celesti; l’irreversibilità della materia; l’accumulazione di eventi e di strutture significative che caratterizza la storia; l’ordine temporale e sintattico del linguaggio; lo spazio come forma del tempo presente; la struttura isotropa, intenzionale e semantica del corpo; il senso delle relazioni mondane; l’essere stesso – o la realtà – compreso come darsi continuo e costante di eventi secondo la struttura temporale di avvenire-essente stato-presentante, secondo la finitudine di ciò che avviene perché può ancora divenire altro; oppure il tempo, visto come orizzonte di comprensione dell’essere, cioè come temporalità: sono tutte affermazioni di un’identità a partire dalla comprensione della differenza ad essa essenziale.
Negare la realtà del tempo significa disconoscere il modo in cui l’essere si dà in quella sua stessa parte che è in grado di comprenderlo. Significa non poter affermare ciò che qualcosa è: ogni determinazione si basa infatti sulla constatazione di ciò che permane, e qualcosa permane solo in riferimento al verificarsi di un mutamento: “Anche per stabilire che non c’è stato alcun cambiamento bisogna confrontare due momenti diversi. E se a ciò che muta possiamo attribuire il medesimo nome/identità, è perché mentre il mutamento accade qualcosa rimane. Questo qualcosa è appunto la struttura temporale dell’ente” (p. 109). Negare il divenire come correlato necessario dell’identità degli enti significa negare la relazione di divergenza tra l’essere e l’ente – il modo in cui l’ente si differenzia grazie all’essere che lo costituisce; significa pensare indistintamente l’essere o l’ente come un’entità indifferenziata, e ridurre l’identità da struttura dinamica della divergenza a sostanza o attributo di questa entità, a un “che cosa” eterno e immutabile. Così concepita, l’identità dell’ente non può comprendere in sé alcun significato. Basti pensare ai ricordi. Un ricordo non ha alcun senso se viene ridotto a un’immagine statica e sempre uguale, elaborata e riflessa dal cervello come il frame di un film, ma diventa sensato come risultato di un processo costruttivo e narrativo: esso nasce infatti da uno specifico rapporto dell’individuo con il suo ambiente attuale e fa riferimento a un particolare ordine di eventi passati. Ogni volta che questo stesso momento passato viene ricordato, il ricordo cambia e assume un significato più o meno diverso: una parte sarà stata dimenticata, un’altra diventerà più chiara, provando che la situazione attuale dell’individuo (o della sua identità) – da cui dipende la ricostruzione del ricordo – muta costantemente. In generale, ogni ente è in costante relazione con altri enti rispetto ai quali si definisce lo specifico potenziale in vista di cui esso può essere atteso, usato, ricordato, essenzialmente compreso da un essere umano. Il potenziale è sempre significato: via via che l’essere umano svela le relazioni che un ente intesse con gli altri enti attribuisce ad esse un significato che le racchiuda. Ricordiamo qui quanto risulta della descrizione introduttiva del tempo: il divenire è sia l’irreversibilità della materia, sia la ripetizione ciclica degli astri, sia la materia dotata di senso del mondo umano. La sua negazione comporta anche, ma non esclusivamente, la negazione dei significati che il corpo umano attribuisce all’identità differente degli enti incontrati e di se stesso.
La perdita dei significati degli enti equivale all’annichilimento del potenziale semantico degli umani, cioè del loro tempo specifico. L’esserci svela le relazioni ontiche e significative attraversando diverse distanze spaziali e sottoponendo le sue azioni all’ordine del tempo. Il presente è l’unica dimensione effettuale in cui il corpo vive: quanto è accaduto resta infatti in memoria e non può essere rinnegato se non in uno stato di squilibrio psicosomatico o di malattia, né rivissuto, ipotizzando un ritorno indietro nel tempo. Quanto è da venire non può essere evitato finché si è in vita: anche riducendo al minimo le nostre azioni vediamo che il corpo invecchia; né può essere predeterminato, giacché in questo caso non sarebbe necessario esercitare alcuna volontà d’azione. Il corpomente può soltanto mutare la propria situazione attuale attraverso il conseguimento di determinati effetti, scegliendo le azioni da perseguire sulla base di ciò che sa e ricorda. Esso dà quindi senso alla sua identità attraverso la costante considerazione e distinzione di ciò che può avvenire e di ciò che è già stato. Detto diversamente, il passato e il futuro si danno alla coscienza attraverso il modo loro peculiare della ritenzione e protenzione, da cui risulta il senso della cura per gli enti presenti. Considerato che il divenire della struttura isotropa, intenzionale e semantica del corpo, ovvero la sua permanente identità, è incessante, e che nuovi enti, eventi e processi risultano continuamente dalla realizzazione di determinate possibilità e s’inscrivono in memoria determinando il modo in cui ci si proietta verso il futuro, il senso del nostro presente muta continuamente. “Il presente non si dispiega come uno spettacolo dinanzi all’io ma come una forma del mio rapporto con il mondo, come una certa posizione e postura del mio corpo sia materiale sia sociale” (p. 86).
Il rifiuto o il rimpianto di ciò che è stato, la chiusura nei confronti di ciò che ha da venire o il differimento costante dei propri obiettivi, la negazione del presente come luogo esclusivo in cui quanto è accaduto e quanto accadrà può continuamente estendersi e mutare e, in generale, della struttura differenziata del nostro essere, mortifica l’identità svuotandola del senso che proviene dal tempo, e che si fa tempo solo nella realizzazione del proprio potenziale. In questa negazione l’esserci attuale si lascia circondare dal nulla, con cui in nessun modo, per definizione, esso può entrare in relazione se non amalgamandosi, vale a dire annichilendo ogni possibilità d’azione, che è apertura verso ciò che è diverso e non verso il nulla. “L’assolutizzazione dell’identità, separata dalla dimensione dinamica che la rende sensata, è una forma di necrofilia teoretica. Essendo il tempo l’essere stesso, ogni sua negazione è puro nichilismo” (p. 58).