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100. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, pp. IX-157. (Daria Baglieri)

Se la filosofia come amore, desiderio ed esercizio della sapienza scaturisce dal misto di terrore e meraviglia dinanzi alla potenza della materia, la sua condizione ‒ come presupposto e come modo d’essere ‒ è la metafisica. Essa consiste, sin dalla grecità delle origini, nello sguardo che oltrepassa il dato fisico dei fenomeni e degli enti transeunti per volgersi all’eterna e stabile trasparenza che fa da fondamento al loro manifestarsi. Tale fondamento è l’essere come φύσις, non semplicemente come “natura” che la modernità concepiva in caratteri matematici ma come intero che non si contrappone né a un soggetto che ne ricerca le leggi universali né all’apparire come ingannevole parvenza. Al contrario, fenomeno per i greci era il manifestarsi di ciò che dall’essere proviene e verso l’essere tende infinitamente resistendo al nulla: questa dinamica di attaccamento della vita alla vita era la ζωή che si genera, muta, vive dentro l’intero nel gioco d’identità con gli enti a cui l’essere non si riduce e di differenza tra gli enti e degli enti dall’intero.
Se la struttura degli enti individuali e delle loro relazioni è l’esseredivenire, la δύναμις, energia, trasformazione, è chiaro che tempo è l’altro nome dell’essere e che filosofia è anzitutto comprensione del mondo come temporalità. La domanda radicale della metafisica ‒ perché l’essere e non il nulla? ‒ si traduce quindi nella domanda sull’esseretempo: «se il tempo è l’assoluto originario, in che modo esso si esplica e si manifesta?» (p. 126) e se l’essere è tale nodo indissolubile di tempo e materia, in cui ogni ente esiste come identità nella differenza, allora tentare una metafisica della materiatempo significa strutturare un metodo che «tiene ferme le differenze in quanto differenze e nello stesso tempo ne mostra le relazioni, senza le quali le differenze non sorgerebbero, non apparirebbero, non sarebbero» (p. 115).
Tornare alla materia stessa, seguendo le orme del motto husserliano, è il compito odierno della metafisica, forse controintuitivo per il senso comune ma indifferibile per la scienza: infatti, se da un lato le scienze cosiddette dure necessitano di una coscienza della parzialità delle loro acquisizioni, d’altro canto è pur vero che troppi sedicenti filosofi abbandonano la metafisica a favore dell’indagine di laboratorio, della raccolta e della quantificazione dei dati, credendo con ciò di operare più scientificamente. L’indagine di Biuso, in questo senso, presenta invece due rilevanti meriti che, se da un lato certamente affondano le loro radici nelle due anime filosofiche di questo testo ‒ l’ontologia platonica e il metodo fenomenologico ‒ dall’altro pervengono a una metafisica materialistica, esito del tutto originale che non trascura affatto questa e altre tradizioni ma si affranca ugualmente da ogni unilateralità proprio guardando all’intero.
Com’è noto, presupposti di ogni indagine scientifica sono l’esistenza dell’oggetto della ricerca ‒ non secondo l’unico criterio dell’esistenza chimico-fisico ma, sulla scorta della teoria dell’oggetto di Meinong, nella generalità dell’esistenza distinta dalla specificità della consistenza materiale ‒ e la sua comunicabilità tramite il linguaggio, nella chiarezza del pensiero e nel rigore della giustificazione. Una scienza senza questi presupposti nasce già paralitica e anzi non è scienza: se c’è in essa un’aspirazione non alla totalità ‒ irraggiungibile ‒ ma all’autenticità della conoscenza intorno al suo specifico oggetto, c’è anche la necessità di un monito metafisico che non indica l’astratto e l’invisibile ma costituisce anzi «l’opposto di ogni astrazione concettuale e […] la più integrale esperienza del mondo che un corpomente cosciente sia in grado di praticare» (p. 51). Quest’immersione nell’esperienza è esattamente la proposta di metodo che proviene dalla fenomenologia di Husserl, uno sforzo filosofico che nasce dal rifiuto dell’imposizione del dato e ritorna alla metafisica greca, e più specificamente platonica: tale è infatti l’intenzione del principio di tutti i principi – «ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza [e] tutto ciò che si dà originalmente nell’ “intuizione” [Intuition] (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro I, Einaudi, Torino 2002, § 24, pp. 52-53) – che riconduce al tempo come «prima percezione [e] ultimo apprendimento» (p. 143), riconoscendo in esso la realtà ultima, l’unica che si autocostituisce nel mutamento degli enti, nell’accadere degli eventi e nel fluire dei processi. Negare tale realtà, come accade a buona parte della fisica contemporanea che sostiene ancora la reversibilità del tempo nonostante la sua irreversibilità così come emerge a partire dalla formulazione del secondo principio della termodinamica, significa incorrere in eclatanti contraddizioni e in una generale confusione tra epistemologia e ontologia che, filosoficamente, è solo una pretesa tracotante e illegittima. Il metodo fenomenologico costituisce dunque un tentativo di risposta a uno storico problema non solo filosofico ‒ l’enigma della durata e la difficoltà di coniugarla con un’immobile stabilità ‒ che nei secoli della modernità è sfociato nell’eclatante dualismo tra mente e materia.
Se, infatti, è vero che «accanto alle strutture sensibili e alle forme universali trovano posto le relazioni matematiche e logico-semantiche» (p. 2), tale metodo non è volto ad assegnare un primato alle une o alle altre, ma a ricomporre la frattura che ha separato il mondo degli enti logici dalla Lebenswelt, dal mondo della vita, dove tutti gli enti si manifestano sempre in una precisa modalità (noema) e sono conoscibili (noesi) a una precisa intenzionalità. Proprio l’intenzionalità è il carattere della coscienza che coglie gli enti come manifestazioni parziali di una struttura universale, cioè un’εἶδος come universale forma temporale in cui gli enti appaiono e come «carattere che necessariamente precede ogni altro nella possibilità di un’unità intuitiva» (E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 2007, § 38, p. 393). Anche gli enti logico-matematici, infatti, appartengono al tempo nella forma di una temporalità stabile, e la loro conoscenza avviene in ogni caso nel tempo.
L’intera tetralogia da lui dedicata al tempo, per non dire l’intero percorso filosofico di Biuso, persegue l’obiettivo di ricomporre la frattura tra io e mondo, partendo dal ripensare la posizione e il limite dell’umano nel cosmo e approdando a un pensiero della differenza che accetta e accoglie la pluralità del mondo della vita, delle menti, delle intelligenze e delle intenzionalità come specifici modi di percepire e stare nel mondo. Se è vero che «l’intelligenza è in primo luogo la capacità di sopravvivere in un ambiente dato ed è dunque presente per definizione in tutte le specie che sono ancora vive» (p. 47), la vita come universo di significatività è il modo dell’umano, certo, ma dell’animalità tutta come possibilità di esserci solo con e nello scambio metabolico con la Umwelt, con il mondo-ambiente. Una metafisica dell’inquietudine e della differenza che si pone sotto il segno della materia, dunque, deve tenere conto soprattutto dei corpi come legami della temporalità umana al tutto e assumere anche la forma di una somatica del tempo che coniughi «monismo ontologico e pluralismo fenomenologico» (p. 148). La prospettiva metodologica che recentemente ha ottenuto più risultati in questo senso è la neurofenomenologia: coniugare le due discipline da cui essa prende nome, infatti, significa ripensare i confini della mente e del corpo nel mondo e così mirare a una comprensione olistica, relazionale e integrale di strutture ancora considerate discontinue, mentre invece la res cogitans e la res extensa, il soggetto e la natura, lo spirito e la materia sono cooriginari e costituiti reciprocamente: «se non fosse coerente con l’ambiente nel quale è immerso, un sistema nervoso neppure esisterebbe» (p. 55). A dispetto di ogni critica alla naturalizzazione della fenomenologia, basata sull’opinione che essa nasca come corrente filosofica di natura prettamente ed esclusivamente teoretica ‒ opinione errata e alquanto assurda, se fu il suo stesso fondatore a proporla come un metodo che apre sentieri di ricerca e non come un sistema di pensiero finito, chiuso ‒ questa prospettiva risulta feconda a livello interdisciplinare. È il corpo isotropo, infatti, a esperire lo spaziotempo della fisica, l’evoluzione della biologia, le patologie della medicina, le trasformazioni della chimica, tutte nel tempo e dunque, se davvero queste scienze aspirano a un’oggettività che vada oltre i filtri del sistema cognitivo umano, il loro avanzare non può prescindere dall’esperienza della temporalità vissuta né da un concetto comprensivo dell’umano e del suo mondo, cioè da una metafisica.
La coscienza che del tempo ha la particella materica consapevole della sua finitudine è anche «schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile» (p. 9) e poiché tale finitudine è indice dell’irreversibilità del tempo, solo partendo da qui è possibile una progressiva e autentica comprensione dell’intero attraverso la relazione con le altre parti. Metafisica, dunque, è anche l’indagine intorno a queste relazioni, indagine che non astrae ma estrae l’umano da ogni «solitudine ontologica» (p. 21) per pervenire alla più alta comprensione disponibile alla mente umana, l’irriducibilità della materiatempo all’interiorità spirituale. Se, infatti, il tempo è l’assoluto cooriginario della materia che sempre era, è e sarà, è evidente anche che non può scaturire da qualcosa che è già nel tempo come suo segmento: «il tempo non scaturisce da nulla, il tempo non ha bisogno di essere costituito da qualcosa di esterno a esso ‒ tanto meno da una soggettività umana o in qualunque modo consapevole ‒ proprio perché è una realtà originaria» (p. 18).
Tutto ciò spiega con chiarezza la centralità del termine materiatempo nell’intero percorso dell’autore: se la materia e il tempo fossero due, si darebbe una contraddizione nella pretesa di ammettere due interi indipendenti, oppure si dovrebbe in qualche modo comprendere la derivazione dell’uno dall’altra o viceversa; mentre le religioni si interrogano su questo, la filosofia comprende che essi sono uno: «il tempo non è una quarta dimensione che si aggiunge alle tre o alle tante della materia ma è la materia stessa» (p. 143).
Il problema della scaturigine, della costituzione e dell’estensione del tempo trova il suo nocciolo duro nel problema dell’istante-ora, nucleo tematico e fulcro del pensiero fenomenologico: il punto del presente vivente da cui origina la temporalità della vita cosciente di sé è per Husserl il primordium, «il fondo dell’essere» (p. 73). Nei C-Manuskripte, in particolare, non gli viene attribuito il carattere della puntualità ma quello del flusso, dunque l’impressione originaria non sarebbe un’intuizione del tempo-istante ma l’unitaria costituzione di passato, presente e futuro come orizzonte della vita di coscienza. In altre parole, l’istante è il legame profondo tra passato e futuro che dà forma e vita al presente grazie alla naturale capacità unificatrice e semantica del corpomente che l’umano è e non semplicemente che ha: è ciò che Heidegger ha sintetizzato nell’espressione gewesend-gegenwärtigende Zukunft, avvenire essente-stato-presentante. Il flusso, quindi, ha tre forme, aspetti, significati: il flusso vivente pre-temporalizzante, cioè il tempo come apriori ontologico, e non logico, di ogni realtà; il flusso dei vissuti immanenti alla coscienza, cioè il tempo della coscienza che coglie le realtà nel tempo; il tempo del mondo come divenire di tutte le cose, cioè il tempo della costante trasformazione della vita nella vita e dunque come dinamica degli enti che scaturiscono dalla e ritornano alla materia. L’insieme di queste tre forme è la temporalizzazione della coscienza-mondo, che non è tutto il mondo ma è la costruzione del mondo nell’esperienza del tempo.
In un’ontologia fenomenologica strutturata secondo le tre forme del flusso, inoltre, niente è fuori dal tempo, e ogni ente è di per sé un oggetto temporale, la cui unità è strutturata dal mutamento che lo intesse e la cui identità si estende nel tempo. Da ciò consegue una gnoseologia costruzionista in cui un ruolo cardine spetta alla memoria: sia la percezione del passato come ricordo sia la tensione al futuro come prospettiva sono strutture volte a conservare la significanza temporale della coscienza, cioè le ragioni del suo stare al mondo. Non a caso, quando si perde la memoria non si dà più percezione del flusso del tempo, la coscienza si ferma e il mondo, la vita, il tempo perdono di senso. I ricordi, infatti, sono la materia prima che la coscienza presente recupera e rielabora per aprire una prospettiva sull’avvenire, sul futuro, anche nel senso più strettamente evolutivo: essi «non sono volti a ricordare il passato, ma a comprendere meglio le forme del presente e a prevedere le condizioni verso le quali situazioni ed eventi si indirizzano» (p. 53).
La mente è temporalità, tempo vivo che da un lato, ancora una volta platonicamente, conosce perché riconosce, e dall’altro comprende perché abbandona all’oblio gli originari legami sequenziali tra differenti “adesso” e costruisce nuovi nessi, aprendosi così a ciò che ancora ha da essere. Inoltre, come sostiene Husserl nei Bernauer Manuskripte, la stessa ritenzione non è solo forma del passato ma è inestricabilmente legata alla protenzione come immediata consapevolezza del suo accadere in una coscienza, dunque «il presente è […] il futuro che è appena stato; la coscienza è la struttura che mantiene in sé il futuro diventato passato» (p. 127), che ritiene, cioè trattiene, per mutare. Ciò vuol dire che non si danno, nella coscienza, fenomeni isolati, e che l’esperienza è estesa e continuativa, mai puntuale e discreta ma sempre flussica, costituita a partire da un mondo dato ma rielaborata con i criteri di costanza e coerenza, che sono strutture cognitive e non mondane.
L’identità dell’umano, dunque, non risiede in nessun privilegio ontologico, ma solo nel suo essere parte cosciente di un intero razionale e relazionale: l’unica possibilità della parte umana di porsi dal punto di vista dell’intero, del dio, di esperire una prospettiva non illimitata e infinita ma dell’illimitato e dell’infinito e al contempo di porsi nietzscheanamente al di là del bene e del male è una teologia come pensiero della sacralità del tempo. Esso ha tre nomi, tre forme: αἰών come eterno divenire degli enti, καιρός come tempo della pienezza dell’essere degli enti, χρόνος come tempo scandito dai ritmi del nascere e del morire e come abisso dell’irreversibilità. Nella comprensione e accettazione di questo fondamento e della sua indisponibilità al dominio, alla stringente causalità, al risultato, all’utile, abita la risposta ad alcune tradizionali domande teologiche, prima che religiose o filosofiche, sul destino degli enti: si Deus est, unde malum? Allora, se sacro è l’intero materico e il limite delle sue parti, e divina è l’immanenza e la permanenza nelle trasformazioni che in esso avvengono, il “male” non può riguardare l’intero, nel quale non c’è perdita né dolore ma solo un’«indistruttibile pace» (p. 153); “male” altro non è che l’ignoranza delle origini e della direzione degli enti, del loro provenire e del loro andare verso la materia nella costanza della differenza del nulla. Per converso, se una soteriologia metafisica si dà, essa consiste nella conoscenza di queste universali strutture di senso che costituiscono per la miserrima umanità «non una speranza ma un’esperienza completa, sofferta e gloriosa dello stare al mondo» (p. 92), una conoscenza che resta l’unico «barlume di fasto» (p. 99) per accettare e abitare il limite.
Tempo e Materia non è un trattato di metafisica, ma un percorso e un’esperienza nella metafisica come ricerca di un senso dello stare al mondo, per non fuggire dalla sofferenza dell’esserci prima che il naturale destino di dissoluzione dei corpi richiami ‒ anzi, ritrasformi ‒ le parti dentro l’intero materico. In una metafisica materialistica, infatti, nascere e morire non sono opposti, ma sono solo due fasi di un più grande processo che è il costante sfolgorio della materia tempo che diviene. Questo è il significato e l’eredità della sapienza greca delle origini e di Eraclito in particolare: la filosofia come specchio per fissare Medusa senza essere pietrificati dal suo sguardo, per non riposare nella stasi ma danzare nella prassi, per decifrare con occhi curiosi, attenti e disincantati l’ordine del cosmo nascosto dentro quello che, per degli epifenomeni come gli umani, è il disordine spietato della pura energia in movimento, l’irreversibile incremento dell’entropia non come concetto puramente fisico ma come costante dinamica intrinseca alla materia. E sacro è anche il compito del saggio, del metafisico, di chi esercitando la filosofia aspira alla conoscenza dell’intero: «salvare […] la differenza rispetto a ogni identità assoluta, salvare i politeismi rispetto alla tracotanza dei monoteismi, salvare le spiegazioni difficili rispetto a quelle semplici, salvare la polifonia rispetto al canto solitario e monocorde dell’umano» (p. 145).

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