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36. Recensione a: Martin Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, trad. it. di Antonello D’Angelo, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp. 261. (Alberto G. Biuso)

volti-heidegger-dottrina-categorie-significato-duns-scoto cNella tesi di abilitazione di Martin Heidegger (1915) sono presenti alcuni dei nuclei teoretici dell’intero percorso del filosofo, senza che questo sottragga nulla al problema specifico che vi viene affrontato in modo anche assai tecnico e con riferimenti costanti a filosofi contemporanei come Rickert e Husserl (di quest’ultimo vengono citate di frequente le Logische Untersuchungen).
Heidegger riconosce pienamente la ricchezza del pensiero medioevale e la peculiarità del posto che Duns Scoto (1265-1308) vi occupa: «È determinante, in generale, l’intera sua individualità di pensatore, con i suoi tratti indiscutibilmente moderni. Egli ha rinvenuto, rispetto agli Scolastici precedenti, una vicinanza (haecceitas) più accurata e più grande alla vita reale, alla varietà e possibilità di tensione della vita stessa. Al tempo stesso egli sa però anche volgersi, con uguale facilità, dalla pienezza della vita verso il mondo astratto della matematica. A lui sono familiari le ‘forme della vita’ (per quanto questo sia un caso riscontrabile nel Medioevo), così come il ‘grigio su grigio’ della filosofia» (p. 20).
In generale, l’analisi heideggeriana dell’opera di Scoto è una dimostrazione di come un’autentica storia della filosofia debba farsi filosofia essa stessa e di come quest’ultima debba essere sempre legata allo spessore profondo della vita. La storia della filosofia, infatti, «ha nei confronti della filosofia un rapporto diverso da quello che si pone, per esempio, fra la storia della matematica e la matematica. E ciò non dipende dalla storia della filosofia, bensì dalla storia della filosofia», il cui patrimonio di pensiero «è più che una materia oggetto di scienza, materia della quale ci si occupi in base a preferenze personali e in base al fatto che si voglia promuovere e contribuire a strutturare la cultura. La filosofia vive in tensione insieme con la personalità di chi vive; essa è creatrice in base alle sue profondità, alla sua pienezza vitale e alla sua esigenza di offrire contenuto (Gehalt) e valori. Per lo più alla base di ogni concezione filosofica sta dunque una presa di posizione personale del filosofo» (13). La storia della filosofia non è dunque storia pura, non è un sapere di dati di fatto ma costituisce parte di un sistema teoretico. Da ciò consegue, nello specifico, un approccio all’opera di Scoto particolarmente stimolante e fecondo.
È opportuno infatti chiedersi perché proprio Duns Scoto sia oggetto dell’interesse del giovane Heidegger. La ragione è duplice e unitaria. Essa consiste nel fatto che in questo logico medioevale lo psicologismo è oltrepassato con argomentazioni di grande finezza, le quali mostrano la profonda relazione che logica e ontologia reciprocamente intrattengono.
Per Heidegger il pensiero della tarda Scolastica mostra «una maturità da non misconoscere né da sottovalutare quanto all’attenzione rivolta alla peculiarità e alla valenza autentica dell’ambito logico. […] Non sarà privo d’interesse verificare come già Duns Scoto tenti, con fatica, di pervenire a una delimitazione nei confronti della realtà psichica» (106). La dottrina scotista del significato partecipa pienamente della problematica logica, escludendo in ogni sua espressione questioni di psicologia. Categorie e significati non hanno a che vedere con strutture soggettive, siano esse di tipo psicologico o neurologico, ma riguardano il modo d’essere delle cose e il loro modo di venire intese. Categorie e significati discendono tutti dall’ontologia, dalla «sfera che comprende gli oggetti in generale, ovvero dal momento che permane nella sfera dell’oggettuale»; l’essere «è la categoria delle categorie. L’ens rimane conservato (salvatur) in ogni oggetto, in qualunque modo questo possa essere differenziato nella pienezza del suo contenuto» (33-34, trad. adattata).
La forma delle cose individuali, l’haecceitas, indica la struttura irriducibile alla quale categorie e significati vanno sempre ricondotti. Ciò che definiamo reale si articola in una serie assai complessa di dimensioni e di questioni. La prima di esse è la distinzione – elaborata in modo radicale da Meinong – tra esistenza empirica e sussistenza (Bestand) ontologica. La designazione di res non può secondo Scoto rimanere delimitata alla realtà fisico-chimica ma indica più in generale ciò che non è nulla. Ens reale ed ens rationis sono entrambi modi della realtà, forme di ciò che c’è, al di là delle diverse maniere in cui le cose sono. E questo in una maniera ancora una volta lontana da ogni psicologismo: «L’unità di dieci oggetti numerati non è una realtà che si aggiunga agli oggetti, bensì un ens rationis, ovvero una forma del pensiero, con la quale la coscienza raccoglie insieme gli oggetti dati. Gli oggetti dati, in quanto tali, non sono nella condizione di costituire una unità del numero; sono questo e questo, cioè, in quanto oggetti, l’uno e l’altro. La loro somma ha unità solo grazie alla coscienza. Il numero ha la sua pura e vera ‘esistenza’ solo in quanto oggetto non sensibile e in quanto tale viene poi adattato agli oggetti da numerare. Come esistono relazioni reali e non sensibili, così esiste anche una quantità reale e non sensibile» (70-71). Accanto alle strutture sensibili e sovrasensibili trovano dunque posto le relazioni matematiche e logiche, nelle quali si radicano sia le categorie sia i significati.
Questi ultimi non sono riducibili né al significante – allo specifico suono o forma verbale – né all’aspetto fisiologico/psichico e neppure all’esistenza di fatto. Una delle più importanti tesi di Duns Scoto è «che l’ambito dei significati è affrancato dall’esistenza» (139); il linguaggio arricchisce la realtà fisica stratificando su di essa la molteplicità delle prospettive, delle relazioni, delle aperture di senso.
Ciò che chiamiamo realtà, essere, mondo è dunque una struttura semantica asintotica. Nel coglimento dell’individuale in quanto individuale resta infatti sempre «un residuo indicibile, al quale ci si può semmai avvicinare senza tuttavia mai poterlo esaurire» (197). È evidente la continuità tra questa struttura mai compiuta e tutto ciò che Heidegger ha poi pensato come Differenza ontologica, come Lichtung ed Ereignis.
Sin da queste ricerche la filosofia appare come «universale phänomenologische Ontologie», ‘ontologia universale e fenomenologica’ (Essere e tempo, §§ 7 e 83); non si tratta cioè di una scienza empirica nella quale la dottrina del significato verta su oggetti particolari e singolarità individuali, bensì di un sapere che affonda in «ciò che funge da principio, ossia nell’elemento categoriale, il valore che spetta alla forma» (226, trad. adattata). Di tale forma è parte la dinamica incessante d’identità e differenza. Il significato di ogni ente consiste infatti nell’essere ciò che è perché non è altro. Scoto scrive che «idem et diversum sunt contraria immediata circa ens et convertibilia»; l’identico e il diverso sono dunque i contrari immediati nell’ente e con esso convertibili (Quaest. super metaph. lib. V, q. 14]. Heidegger commenta in modo icastico ed esatto che «la heterothesis è la vera origine del pensiero in quanto si impossessa dell’oggetto» (37). Una delle ragioni di tale struttura ontologica ed epistemologica è che l’essere e il nulla sono tra loro opposti, pur non essendo diversi. La differenza, infatti, si dà nell’ambito di ciò che è, si dà nella molteplicità di ciò che è. Che ogni ente possa essere diverso da un altro ente è reso infatti possibile solo dall’identità di fondo che accomuna tutti gli enti tra loro. Chiamiamo essere tale identità nella differenza.
Di tutto questo si occupa la metafisica, «che è incontestabile sia una scienza reale» (107). La realtà di tale scienza è anche la realtà del suo oggetto. Una realtà non soltanto empirica, una realtà non soltanto logica, una realtà, appunto, metafisica. Ed è assolutamente certo ciò che il giovane Heidegger scriveva con chiarezza, vale a dire come non sia «possibile che la filosofia faccia a meno della sua propria ottica, cioè della metafisica» (253).

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