È stata finalmente pubblicata la prima monografia in italiano dedicata all’opera di Giorgio Agamben: Studi su Agamben, a cura di Lucia Dell’Aia (Ledizioni, Milano, 2012). Sino ad ora erano apparsi in Italia solo rapsodici interventi su aspetti specifici e circostanziali della sua riflessione. Ben diversa è la situazione all’estero, dove già da qualche anno circolano alcune introduzioni generali: per esempio E. Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Junius, Hamburg, 2005; oppure L. de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford University Press, Stanford, 2009; A. Murray, Giorgio Agamben, Routledge, London-New York, 2010; e infine A. Pucheu, Giorgio Agamben: Poesia, Filosofia, Critica, Beco do Azouge, Rio de Janeiro, 2010. Non si contano invece le pubblicazioni dedicate alla sua filosofia politica, come nel caso di Th. Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and the Uses of Criticism, Routledge, London-New York, 2010; M. Calarco e S. DeCaroli, Giorgio Agamben. Sovereignty and Life, Stanford University Press, Stanford, 2007; A.G. Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Biblioteca nueva, Madrid, 2005); e D. Loick (a cura di), Der Nomos der Moderne: Die politische Philosophie Giorgio Agambens, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 2011. Di una certa diffusione sono anche studi dedicati ai suoi scritti di critica letteraria: W. Watkin, Literary Agamben: Adventures in Logopoiesis, Continuum, London-New York, 2010; J. Clemens, N. Heron e A. Murray, The Work of Giorgio Agamben. Law, Literature, Life, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2008; G. Asselin e J.-F. Bourgeault (a cura di), La littérature en puissance autour de Giorgio Agamben, VLB, Montréal, 2006. Altrettanto importanti sono alcuni studi sui punti di riferimento filosofici di Agamben: V. Borsò et al. (a cura di), Benjamin – Agamben, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2010; E. Geulen, K. Kauffmann, G. Mein, Hannah Arendt und Giorgio Agamben: Parallelen, Perspektiven, Kontroversen, Fink, München, 2007; J. Thumfart, Ist das Zoon Politikon ein Oxymoron? Zur Dekonstruktion des Begriffs von Biopolitik bei Giorgio Agamben auf der Grundlage einer Wiederlektüre des Aristoteles, VDM Verlag Dr. Müller, Saarbrücken, 2008. Non si può infine non segnalare la pubblicazione di un vocabolario critico e ragionato dell’opera di Agamben: A. Murray, J. Whyte, The Agamben Dictionary, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2011.
Nel volume qui recensito, oltre a L. Dell’Aia, che firma l’Introduzione al volume e il secondo saggio, dal titolo Parodia e profanazione, compaiono contributi di R. Talamo e E. Miranda, autori rispettivamente del primo e del quinto intervento. Seguono poi le traduzioni di due saggi pubblicati nel sopracitato Benjamin – Agamben a cura di V. Borsò. Il primo è di B. Witte, Di alcuni motivi di Giorgio Agamben. Il secondo di V. Liska, Il Messia davanti alla Legge. La raccolta si chiude con Agamben e la Shoah di F.R. Recchia Luciani.
Il primo contributo – quello di Talamo – ha un titolo degno di nota: Nel mezzo della voce. La Voce è infatti il concetto chiave di alcuni importanti scritti agambeniani dei primi anni Ottanta, il più completo e noto dei quali è Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività (1982). La filosofia contemporanea (in particolare Heidegger, Derrida e Gadamer) sarebbe la propaggine estrema di quella tradizione – la metafisica – che ha pensato il linguaggio attraversato da alcune scissioni, come quelle fra suono e senso, langue e parole, natura e cultura, ecc. In questa fase – chiamata “nichilismo” – viene alla luce l’essenza stessa della metafisica: la fondazione del linguaggio su una negatività che sfugge costantemente all’umano. “Voce” è appunto il nome che Agamben dà a questo fondamento negativo.
L’intento di Talamo è quello di ricostruire il pensiero di Agamben dal 1970 al 1995 perché ritiene che solo dagli scritti precedenti il 1995 – anno di pubblicazione di Homo sacer, che lo ha consacrato a livello internazionale – si possa comprendere appieno la sua filosofia politica. Talamo mette in luce come il primo problema di Agamben sia stato quello di risolvere le scissioni che la tradizione occidentale ha inscritto nel cuore del linguaggio e dell’uomo. Di conseguenza, viene individuata nell’aver-luogo del linguaggio, cioè nell’esperienza autentica della parola, la dimensione in cui si dà la massima frizione fra le varie dicotomie, la più decisiva delle quali è quella fra “cosa da trasmettere” e “atto della trasmissione”. Talamo, tuttavia, fa un passo ulteriore e riduce l’intera impresa filosofica di Agamben a un’«ontologia poetica» che rimane preda del negativo, sostenendo che l’aver-luogo del linguaggio sia per Agamben «nulla». Quest’interpretazione non collima, però, con quanto scrisse Agamben a proposito dell’in-fanzia. In un testo di pochi anni precedente a Il linguaggio e la morte dal titolo Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell’esperienza (1978), Agamben definì l’in–fanzia «l’esperienza trascendentale dell’aver-luogo del linguaggio» che si situa nel cuore delle scissioni e che le supera rivelando la «dimora abituale dell’uomo» (ethos). Di conseguenza in Il linguaggio e la morte Agamben sostiene l’equivalenza fra Voce e negatività e ne trae la conclusione che la dimora infantile è «senza Voce», cioè senza negatività. Non si può quindi affermare, come fa invece Talamo, che la Voce sia per Agamben l’aver-luogo del linguaggio. Tutt’al più è il modo in cui l’Occidente lo ha pensato, soprattutto nella sua fase estrema. Questa serie di considerazioni porta Talamo a identificare «il mezzo puro» di cui parla Agamben, dalla fine degli anni Ottanta in poi, con la Voce anziché con il linguaggio che dice sé.
Segue lo scritto di L. Dell’Aia dal titolo Parodia e Profanazione. L’intento di pensare uno dei concetti fondamentali della filosofia di Agamben – ossia la “profanazione” a partire da un modello linguistico, quello della parodia – è una delle osservazione più profonde di questo saggio. Viene così messo in luce l’intimo legame fra la riflessione sul linguaggio e quella politica. La profanazione assume infatti – com’è evidente in Il regno e la gloria (2008), in Altissima povertà (2011), in Opus dei (2012) e ovviamente in Profanazioni (2005) – il valore politico di resistenza e di svolta, restituendo il linguaggio ed il pensiero a un uso comune. Tuttavia, si deve anche ricordare il ruolo giocato dallo shabbat ebraico – che Dell’Aia sembra tralasciare e a cui è dedicato il primo saggio di Profanazioni – nella formulazione filosofica dell’inoperosità, cioè del quadro teorico in cui la stessa profanazione s’inscrive. Importante è anche la lettura, offerta da Dell’Aia, del concetto di “potenza”. È interrogandosi sul linguaggio come possibilità che può mantenersi sospesa ed essere esperita in quanto pura comunicatività che Agamben formulò, nel corso degli anni ’80, la sua peculiare concezione della potenza. Vengono così messi in luce, attraverso tale nozione, alcuni aspetti cruciali del pensiero di Agamben, quali la riflessione sull’atto linguistico performativo che stabilirebbe una diversa relazione fra linguaggio e mondo al di là della denotazione, oppure la ricerca di uno stato d’eccezione diverso da quello del biopotere, rintracciato nel “paradigma” e nell’“esempio”. Non solo, quindi, L. Dell’Aia rimarca con molta efficacia la continuità di temi ed argomentazioni in cui il linguaggio funge da filo conduttore, ma soprattutto individua nella profanazione – soprattutto linguistica – il superamento della tradizione in vista di una svolta etico-politica. Questo potrebbe essere il primo passo per un definitivo riconoscimento in Italia del valore della filosofia del linguaggio di Giorgio Agamben.
Il saggio successivo della raccolta, quello di B. Witte, si concentra sul metodo argomentativo di Agamben, individuandone in Heiddeger il modello filosofico. L’etimologia non è la ricostruzione dello sviluppo storico della parola, bensì il coglimento del suo nucleo archetipico e a-storico (questo è anche il senso dell’archeologia così come è descritta da Agamben in Signatura rerum nel 2009). Ciò genera dei problemi filologici che Witte non rinuncia a contestare ad Agamben, per esempio la generalizzazione della “macchina del sacrificio” nel mondo antico e cristiano. Oltre all’etimologia, il discorso agambeniano si avvale, secondo Witte, del «commento analitico o narrativo di determinati testi» il cui punto di riferimento è il «metodo micrologico» di Walter Benjamin. Simile modalità è consustanziale a una filosofia che, come quella di Agamben, si vuole porre «dopo la fine della filosofia sistemica». Agamben interpreterebbe i testi della tradizione da una posizione molto peculiare, quella cioè di chi è l’ultimo filosofo della tradizione. Ma proprio in quanto ultimo – un aspetto che Witte omette – Agamben si propone anche come primo esponente di quella “filosofia che viene” che si pone al di là del nichilismo e della metafisica.
Con Il Messia davanti alla Legge, V. Liska affronta il tema del messianico nel pensiero di Agamben individuando in Walter Benjamin la fonte a cui fa costante riferimento. Infatti, non solo l’attenzione e l’ansia di riscatto dei vinti trovano espressione nel discorso filosofico di Agamben, ma anche la costante lettura dei testi benjaminiani ai fini della pubblicazione italiana della sua Opera Omnia, a cui si dedicò dal 1981, ha segnato in profondità il suo pensiero. Liska mette in luce come l’interpretazione che Agamben fornisce di Benjamin, e di conseguenza di Kafka, sia connotata – com’è evidente ne Il tempo che resta (2000) – in senso paolino, e per questo piuttosto discutibile. Tuttavia, non si dovrebbe sostenere, come invece fa Liska, che non è nel linguaggio che si realizzerebbe, per Agamben, la giustizia. Basti a questo proposito leggere quanto Agamben scrisse nel capitolo Idea di giustizia, contenuto in Idea della prosa (1985): la “giustizia” è proprio la conservazione, nel linguaggio, della condizione di possibilità del linguaggio stesso. Molto interessanti sono inoltre le ricostruzioni che Liska offre della lettura agambeniana di alcune pagine kafkiane. Secondo lo studioso, infatti, la teoria del messianico in Agamben, oltre che dalla fusione di temi benjaminiani e paolini, sarebbe il prodotto di una particolare lettura di Kafka.
In Comicus noster, E. Miranda ricostruisce il pensiero di Agamben sullo sfondo della categoria di “tragico”. Sicuramente – basti pensare a L’uomo senza contenuto (1970) – uno dei problemi filosofici che per primi sono stati affrontati da Agamben è quello della scissione. Ma ciò che manca del tutto è la sua irreparabilità e per questo la categoria di “tragico”, proposta da Miranda per descrivere il cuore della filosofia di Agamben, è inadeguata. Finché non si comprenderà che la scissione e la presupposizione sono il modo in cui, secondo Agamben, la tradizione metafisica ha pensato il linguaggio, non si riuscirà a ricostruire adeguatamente la specificità del suo pensiero. La dimora dell’uomo – come egli dice in L’idea del linguaggio (1984), in La comunità che viene (1990) e ne Il sacramento del linguaggio (2008) – è ciò che si situa nelle scissioni, che le ricompone nell’uso abituale del linguaggio e arresta il nichilismo. Per questo non si può sostenere, come fa Miranda, che Agamben metta in opera «una ripetizione, sia pure inedita ed originale, dello stesso gesto e della medesima strategia» della filosofia contemporanea, cioè «rimandare indefinitamente un confronto con la realtà […] nell’esercitare la propria, esautorata, funzione intellettuale nella forma di un “infinito intrattenimento”». Interessante è invece l’interpretazione proposta da Miranda dell’inoperosità (pratica che sospende i dispositivi del biopotere e che rivendica il carattere potenziale dell’umano) in quanto «estetizzazione senza residui dell’esistenza». Questo è quanto avviene anche nel linguaggio, il cui uso libero e profanatorio è assimilato alla poesia in Il regno e la gloria.
Nello studio conclusivo di F.R. Recchia Luciani, Agamben e la Shoah. Fenomenologia della testimonianza e potere dell’immaginazione, si tenta di inserire la riflessione agambeniana sulla bio-politica nel più ampio contesto del dibattito filosofico sulla Shoah che vede intervenire pensatori di primo piano come Didi-Huberman, Hannah Arendt, Primo Levi e Levinas. L’esigenza di strappare questo tremendo evento al silenzio dell’inenarrabile muove le argomentazioni che Agamben presentò in Quel che resta di Auschwitz (1998). Recchia Luciani mette correttamente in luce come la Shoah, e più in particolare la gestione dei campi e l’esperienza del deportato, siano per Agamben il paradigma della quotidianità bio-politica. Ciò che forse manca è una riflessione sul ruolo che la filosofia del linguaggio di Agamben gioca nella costruzione di quel paradigma. Allo stesso modo della Voce, fondamento indicibile e inaccessibile, così anche Auschwitz – scrive in più luoghi Agamben – dev’essere strappato al silenzio e detto in un linguaggio che denunci la produzione di nuda vita che divide l’uomo dalla sua potenza di parlare. Questa è forse la conseguenza etico-politica più importante che egli ha tratto dalla sua filosofia del linguaggio.