La filosofia ha sempre il suo coraggio. Sempre. Anche nei momenti – e sono numerosi – nei quali altre potenze, altre pratiche e altre interpretazioni sembrano volerla sostituire, irridere, ignorare. L’uomo che deve rimanere esprime il coraggio teoretico e la pietas etica che, convergendo, dicono del mondo quel che accade, ne sondano a fondo le radici, ne prefigurano sviluppi e vie d’uscita. Tra un precedente libro di Eugenio Mazzarella che portava tale titolo (Il melangolo, 2004) e questo nuovo volume la continuità è profonda e indica un itinerario sempre più sobrio, che punta all’essenziale e l’essenziale insegna.
Libro che intende essere, sin dal suo incipit, «una pratica di resistenza [che] prova a raccogliere alcune idee che perorano una causa. Quella dell’uomo che siamo stati fino ad ora, l’uomo che deve rimanere» (p. 7). Rimanere «quella fragile cosa che è un uomo» (p. 173), rispetto ad alcune evoluzioni le quali partono tutte da una vera e propria «fallacia artificialista» assai più preoccupante della fallacia naturalista denunciata da Hume. Fallacia che consiste nel dedurre «da ciò che si può fare quel che si deve fare» (p. 11) e che «in nome delle possibilità dell’artificio, sembra sempre più vivere dell’opposizione di principio di natura e cultura» (p. 25), come se l’umano non fosse anche bios e zoé, e non soltanto autopoiesi e sapere. Affermare con ripetuta chiarezza l’unità inscindibile di natura e cultura, «l’innesto biosociale della cultura nella natura» (p. 10) è uno dei più importanti risultati della riflessione che Mazzarella conduce da molti anni.
Al fragile calore dell’umano, alla sua identità biologica e culturale, alla comunità dalla quale germina e senza il cui sostegno non può vivere, si oppone la miopia di un pensare e agire fondati su quella che potrebbe esser definita la malattia individualistica. Malattia mortale prima di tutto per l’individuo stesso, apparentemente sciolto da legami naturali ma proprio per questo consegnato alla solitudine di un mercato – economico e interiore – che ne fa l’infima parte di uno sconfinato formicaio senza relazioni, trasformandolo in «un’unità di forza lavoro socialmente ed esistenzialmente mobile, necessitata a sganciarsi, per realizzare ‘la propria vita’, da ogni strutturale legame/condizionamento sociale» (p. 18).
Una malattia che sembra ignorare l’evidenza del fatto che «i costumi sono sempre al plurale, e il costume, l’ethos è un nome collettivo, che non può essere declinato come somma inorganica – senza vita propria, pura meccanica associativa – di costumi individuali atomizzati. Non esiste, in una parola, ‘il costume dell’individuo’» (p. 29). Siamo con-essere sin nei gangli più fondi e profondi del bios consapevole che vivendo diventiamo. Siamo persona comunitaria in quel «testo e non solo contesto» (p. 76) che è la natura di cui siamo fatti, siamo intrisi, siamo dall’inizio alla fine attraversati.
Uno dei sintomi più chiari di tale malattia avversa alla natura, di questo estremismo culturalista, è la questione del genere, sulla quale Mazzarella ha il grande merito di dire parole che in nulla cedono all’onda dominante di una concezione che ritiene davvero possibile un abito sessuale in tutto costruito dalla mente, indossato sempre e soltanto a propria scelta e desiderio, quando invece è strutturale che del genere sessuale gli individui «in una certa misura nascano già ‘vestiti’, sia pure affidato al genio personale del loro ‘portamento’» (p. 28).
La questione del gender è uno degli esempi più chiari di che cosa sia la smoralizzazione presente sin dal titolo del libro. È qualcosa di assai più e assai diverso rispetto a ogni «banale immoralismo», costituendo invece la pretesa di rimoralizzare l’umano «su nuove basi, tecnicamente e socialmente ‘escogitate’» (p. 48), in una «tecnogenesi sociale di sé e del proprio mondo» (p. 10), che si fa «work in Progress della reingegnerizzazione sociale in atto della sociogenesi ‘naturale’ fin qui attestata dalla ‘tradizione’» (p. 43).
L’ethos teoretico di Eugenio Mazzarella rappresenta una prospettiva ampia e profonda con la quale guardare il cuore della vita contemporanea. Una prospettiva che affonda anche nello sguardo religioso di questo pensatore. Le sue pagine sono infatti un esempio di filosofia cristiana, se mai può essercene una.
Una filosofia che riconosce la differenza tra l’atteggiamento di credulità insito in ogni fede – «il testimone religioso è un testimone senza garanzie di credito; chiede di essere creduto senza poter addurre prove, senza richiamarsi ad alcuna autorità riconosciuta ma solo alla credenza, alla fede dell’altro; e in definitiva alla credulità» (p. 154) – e le strutture della razionalità che indaga il mondo senza altre certezze che la varietà dei propri metodi.
Ed è nello stesso tempo una filosofia che cerca il comune denominatore tra ogni fede e ogni razionalità e trova tale identità nella fiducia, nell’affidarsi a qualcosa che viene dato e inteso come presupposto senza il quale non sarebbe possibile iniziare alcun discorso e alcuna vita.
Coerentemente con questa dinamica di differenza e identità, la riflessione di Mazzarella rivendica una semantica dell’esistenza nella quale «la sfida non è tra fede e ragione, ma tra fede e sfiducia, anche nei suoi travestimenti “razionali”. Tra il venir meno di quella trama di rapporti fiduciali a cui siamo, finché siamo, ancorati – la cui entropia, tra resistenza e resa, è il tema della vita –, e il tener fede ad essi» (p. 156).
Per lo «strano animale» che siamo, per «quest’animale che si estrania» (p. 140), risulta vitale trovare da qualche parte una Heimat, un terreno, una dimora, un luogo nel quale stare con fiducia, appunto. Potremmo chiederci da dove nasca tale bisogno, questo sentirsi estraneo ed esserlo. Forse anche dal fatto che il nostro corpomente è in grado di intuire il sempre rimanendo tuttavia intriso di ora. Non è dunque un caso che Mazzarella si soffermi sull’esperienza temporale, poiché il tempo è l’Heimat della quale siamo da sempre abitatori e la cui comprensione è il senso stesso di una filosofia che nutra fiducia nel proprio dimorare dentro il mondo: «Nel momento in cui un animale si stacca dal flusso del presente, dal piolo dell’istante […] l’istante – la pura, irriflessiva presenza a sé di ciò che è presente – si frantuma: nasce, nel tempo, la coscienza del tempo; o meglio, nasce, vede la luce ciò che è già sempre in grembo di sé stesso, il tempo e la sua coscienza, il numero del prima e del poi, che si applica a sé stesso, che si fa distensio animi» (p. 119).
Del tempo possiamo fidarci, ci dice il filosofo. Essere suoi amici è la condizione di ogni abbraccio. Negare il tempo, la sua potenza, è invece segno certo di insipienza teoretica e pragmatica, la quale può arrivare agli esiti estremi e onirici «del transumanismo, che immagina di portare su questa terra un mondo che non muore» (p. 129) e che per questo disprezza «il calore umido del cuore, la corruttibilità – svilita a wetware, a sostanza putrida e vischiosa dalla quale bisogna liberarsi» (p. 175).
L’accettazione piena e profonda della finitudine che ci costituisce è invece parte essenziale del lavoro filosofico, di quella filosofia che, nell’ultima e densa sezione del libro, Mazzarella definisce come «un’attività dell’uomo in vista dell’uomo; anzi è l’attività dell’uomo in vista dell’uomo, in vista di se stesso» (p. 204).
Il filosofo conosce l’«impotenza di sapere che c’è in tutto l’universo, l’errore che s’insinua nell’opera del demiurgo e il male di cui il creatore fatica a rendere ragione» (p. 8). L’accento gnostico di queste parole si conferma, si stempera e si apre in una delle immagini più belle del testo: «Certo è che il mondo che gli si apre davanti non è senza costi per l’animale uomo. Non c’è solo cielo e prato, ma anche baratro e foresta. E il giorno che si abbuia, e poi ritorna» (pp. 119-120). L’ethos teoretico si fa poesia. Cifra costante dell’intera opera di Eugenio Mazzarella.