lunedì , 20 Gennaio 2025
Ultime notizie

Ultimo numero

XXXIV, 2, 2024: Filosofia e antropologia, l’attualità di un incontro. A cura di Roberto Brigati e Maririta Guerbo

Buy the electronic version

copertina-2016-1-fronteL’opportunità di un dialogo tra antropologia e filosofia non sembra poter suscitare dubbi. Al contrario, a minacciare tale incontro è l’impalpabilità della frontiera disciplinare che le separa. Tra le due c’è, in primo luogo, una contiguità storica: l’antropologia è divenuta una disciplina autonoma emancipandosi dalla filosofia, e molti grandi antropologi hanno avuto una forma-zione filosofica. Ma vi è stato anche uno scambio incessante di metodi e contenuti, che perdura nella misura in cui l’antropologia sembra raccogliere per la filosofia un bacino empirico di particolare interesse e la filosofia presentare dei concetti con i quali l’antropologia non può fare a meno di confrontarsi, fosse pure per negarli nella loro definizione, deformarli o più semplicemente per prenderli in prestito. La domanda circa l’attualità di questo incontro si innesta su una storia relativamente recente di incontri e scontri passati: una storia prettamente occidentale, che si intreccia con l’opposizione artificiale ma funzionale tra due diversi divenire della filosofia, quello continentale e quello analitico. Gran parte dei contributi qui raccolti percorre questa storia complessa, rivangando e recuperando, rivalutando e aprendo nuove vie.
Per un verso, la filosofia continentale più attenta a processi e strutture, a scapito di soggetto e storia, inquadra l’incontro con l’antropologia in forme altamente specifiche, legate al lascito strutturalista di Claude Lévi-Strauss (1908-2009). È su questo lascito che ritorna Philippe Descola nel saggio che apre questo volume, indagando le diverse strategie di simmetrizzazione te-state dall’antropologia nel corso della sua breve storia e volte a creare concetti capaci di cogliere circostanze etnografiche sempre particolari per generalizzarle all’interno di un dibattito scientifico altrimenti situato. Il debito con lo strutturalismo di Lévi-Strauss permette allora di invocare un formalismo teorico di ascendenza goethiana. La stessa ascendenza che, in altro ambito culturale, ha reclamato Wittgenstein (1889-1951), a partire dal quale è da tempo avviato un dialogo fecondo tra antropologi culturali e filosofi: la filosofia del linguaggio, la filosofia sociale e il pragmatismo avvicinano le due discipline. È su questo altro debito che ritorna Luigi Quarta, inserendosi dapprima nel dibattito sulla nozione di Lebensform. L’interesse antropologico per questo concetto ha conosciuto, osserva Quarta, almeno due ondate, l’ultima delle quali, all’inizio di questo secolo, ha scavato con strumenti wittgensteiniani nelle dimensioni della violenza, dell’eticità delle microinterazioni e dell’ordinario. Ma il recupero di Wittgenstein non ha ancora compiutamente identificato un concetto che si faccia portatore dell’elemento culturale: la proposta di Quarta, sulla scorta di un’altra nozione wittgensteiniana, quella di Weltbild, si spinge a un ambizioso livello trascendentale nella lettura della forma di vita umana.
Un’esigenza non dissimile muove la riflessione di Carlo Severi, che, ingaggiando un confronto con la «svolta ontologica» da una parte e il cognitivismo antropologico dall’altra, mira a ritagliare uno spazio propriamente antropologico per l’indagine della cultura. Partendo dal saggio di Kant sull’orientarsi nel pensiero (1786), Severi mette in luce come lo spazio in cui il pensiero si propaga e si fa condiviso non sia separabile dai modi in cui culture diverse coltivano la memoria e l’immaginazione. Attraverso un’analisi pragmatica basata sulle condizioni di trasmissione della conoscenza, l’ipotesi di ricerca a cui infine Severi giunge è quella di incorporare in questo spazio non solo i giochi linguistici ma anche le interazioni con le immagini.
La volontà di rimettere in discussione alcuni postulati (rappresentazionalismo e relativismo culturale) caratterizza oggi una nuova fase dell’antropologia, particolarmente interessata a quella stessa filosofia che aveva precedentemente scartato la questione dell’anthropos. La prossimità prende allora nuove forme di compromesso, con il recupero di alcuni concetti isolati dalla produzione teorica dei loro autori (la soggettivazione e le tecniche del sé di Michel Foucault (1926-1984) o la chair di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) che diventano «parole chiave» nell’elaborazione teorica del materiale etnografico, oppure l’incontro assume prospettive più dirompenti e totalizzanti, come nell’impresa di rifondazione disciplinare dell’antropologo-filosofo Eduardo Viveiros de Castro (1951).
Molti dei saggi contenuti nel volume si confrontano criticamente con la proposta del pluralismo ontologico, mostrando così tutta la sua centralità ad oramai una ventina d’anni di distanza dalla pubblicazione del magnum opus di Descola, Par-delà nature et culture (2005). Felice Cimatti riscopre così che l’Italia, oltre ad avere un’Amazzonia interna nelle profondità della Calabria, ha anche una tradizione filosofica che rappresenta un’alternativa ante litteram a quella cartesiana: una tradizione che affonda le radici proprio nel Sud e che dall’Umanesimo in poi non cessa d’interrogare la separazione tra interiorità e esteriorità. Come Severi scavava nel rapporto con l’immaginazione, per Cimatti è attraverso la materia e la sensibilità dei corpi, non (soltanto) la mente e il linguaggio che si può costruire una «svolta animista» in grado di rimettere in questione l’antropocene e l’antropocentrismo insieme.
Dal testo critico e programmatico di Mohamed Amer Meziane alla disamina storica e teorica di Paolo Pecere, ad essere messa in questione è la validità ma anche il significato e le conseguenze politiche della moltiplicazione delle ontologie. Come insegnava Ernesto De Martino, l’opportunità di un incontro teorico non può non dipendere dalle forme della sua attualità storica, ovvero dai bisogni etico-politici delle società di appartenenza dei teorici. A tal proposito, sia Pecere che Amer Meziane si interrogano sul senso del ritorno d’interesse, scientifico e no, per l’animismo in Europa, dando due risposte differenti ma sottilmente dialoganti. Per Amer Meziane, la necessità di una nuova teoria della secolarizzazione si impone oggi per rendere conto della storia dell’antropologia e dei suoi effetti sulle società occidentali. Perché siamo più pronti a relativizzare la natura piuttosto che la religione? Traendo tutte le conseguenze della vocazione missionaria dell’antropologia, Amer Meziane propone di sostituire la metafisica all’ontologia per farla definitivamente finita con le nostre pretese di verità relative a ciò che è reale e ciò che non lo è. Seguendo la diagnosi proposta da Ernesto De Martino, Pecere interpreta il ritorno dell’animismo come il segno di una crisi epocale profonda. A partire da questa diagnosi, Pecere propone una nuova figura dell’animismo, capace di costituire un’alternativa alle rigide separazioni ontologiche, in dialogo con la storia della filosofia, l’etnografia e le scienze dure. Percorrendo una via per certi versi parallela a quella di Pecere, il filosofo Filippo Batisti e l’antropologa Roberta Raffaetà presentano l’attuale dibattito sulla cognizione delle piante, tra antropologia e filosofia, accordando un nuovo significato alle indagini pragmatiste, e in qualche modo aprendo un nuovo spazio per reinventare, ancora una volta, l’animismo.
Malgrado le critiche che sembrano da più parti squalificarla, la svolta ontologica in antropologia ha richiamato l’attenzione su una questione a nostro avviso essenziale, passata troppo spesso sotto silenzio, quella dell’invenzione concettuale alla frontiera tra filosofia e antropologia. Il fatto stesso di porre l’interrogativo permette di superare un’immagine alquanto macchiettistica del confronto tra un sapere fortemente induttivo, ben ancorato nell’esperienza, e una pratica interamente deduttiva, il cui rigore sembra dipendere dalla sua capacità di ritrarsi dall’esperienza. Potremmo avanzare una tesi quasi banale: è proprio il suo supposto isolamento dal concreto che permette al filosofo di cogliere il procedimento teorico in tutta la sua concretezza. È questo ciò che mostrano i contributi maggiormente storicizzanti del volume, in particolare i saggi dei filosofi Claude Imbert e Frédéric Fruteau de Laclos.
Presentando una vera e propria archeologia dell’incontro tra filosofia e scienze umane in Francia, Imbert e Fruteau de Laclos ci invitano a ripensarlo oggi. Come Pecere nel suo dialogo con De Martino, anche Imbert ci riporta al cuore di un’Europa sul baratro del collasso. Lungi dal rappresentare in forza la scienza dei fondamenti, la filosofia francese in bilico tra le due guerre appare come esitante, esangue. L’incontro inaspettato con l’etnografia saprà portare un vento di novità, quel «po’ di possibile» al quale agognava Gilles Deleuze. Ciò che Imbert ci dice sulla filosofia della prima metà del Novecento sembra ancora più valido oggi. Anche per Frédéric Fruteau de Laclos la storicizzazione di un momento in parte dimenticato dell’incontro tra antropologia e filosofia, quello degli anni Trenta del Novecento, consente di riformulare il progetto di una «filosofia sul campo» diversamente da come essa si sta affermando negli Stati Uniti. Ridando spazio alle voci meno udibili del campo intellettuale francese, Fruteau de Laclos sconvolge e rinnova delle partizioni disciplinari divenute oramai canoniche. L’incontro del filosofo con l’antropologia permette allora di ridefinire ciò che filosofare vuol dire, assumendone tutto lo spessore concreto ed esistenziale.
Il confronto con l’antropologia si snoda attraverso la rimessa in gioco di riflessioni che stanno all’origine del moderno e che nello stesso tempo ne rappresentano lo scarto. Se è il caso di Telesio e Bruno rivitalizzati da Cimatti, è anche, quasi esemplarmente, quello di Montaigne, il cui controverso «relativismo» nel saggio sui cannibali è sottoposto da Marco Piazza a un attento studio, nel tentativo di testarne la rilevanza per il dibattito antropologico attuale. Se non è una «rivoluzione relativista», anzi proprio per questo, la mossa di Montaigne conserva intatto il potenziale critico nei confronti della razionalità europea, ritrovando nella «ingegnosa mescolanza» dell’equilibrio naturale un modo per reinventare il rapporto con l’altro. Un naturalismo alternativo, in fondo un animismo sui generis, è anche l’eredità profonda che ci lascia il vitalismo filosofico-biologico di Canguilhem, a cui Giulia Gandolfi dedica un esame innervato dallo studio dei materiali canguilhemiani inediti. Il risultato della ricerca di Gandolfi è da considerarsi definitivo nel mostrare non solo l’irriducibilità di Canguilhem al paradigma della cosiddetta antropologia filosofica tedesca storica (da Scheler a Plessner), ma soprattutto la sua assoluta rilevanza per il progetto – che percorre molti dei saggi qui raccolti – di operare oggi uno scarto vitalistico nel cuore del progetto antropocentrico/antropocenico della modernità. Su un corpus diverso, ma animati da un’identica esigenza di rigore nella ridefinizione dei rapporti tra orizzonti filosofici e antropologici, si muovono i contributi di Piero Carreras e Martino Simonetti. Entrambi affrontano senza pregiudizi uno degli ultimi, più spesso evocati e nello stesso tempo meno compresi tra gli incontri/scontri delle due discipline: quello tra antropologia e fenomenologia. Mentre Simonetti trasporta Merleau-Ponty in Melanesia mettendolo alla prova del vasto repertorio di ricerche etnografiche ivi condotte, da Leenhardt a Strathern, Carreras riparte da Husserl e dalla sua controversa relazione con l’«altro» antropologico, stretta tra la condanna dell’«antropologismo» e la necessità di incarnare la coscienza per sfuggire alla riduzione della fenomenologia a egologia. Entrambi i lavori contribuiscono, in maniera diversa, a stabilire alcuni punti fermi – e chi lavora all’incrocio delle due discipline sa quanto ce ne fosse bisogno – nella valutazione dei ripetuti appelli alla fenomenologia negli ultimi decenni di riflessione antropologica.
L’incontro con l’antropologia stimola la filosofia a elaborare nuovi strumenti metodologici, da aggiungere a quelli più tipici della sua attrezzatura disciplinare. Lo studio di un’opera e di un corpus diventa allora l’occasione per ritrovare e stravolgere domande massive sulla parte di etnocentrismo che siamo disposti ad ammettere per continuare a fare filosofia. È quello che cerca di fare Maririta Guerbo nel suo saggio su De Martino. Alla luce dell’attuale dibattito, l’autrice esamina e distingue le differenti opzioni ontologiche e metafisiche adottate da uno dei testi fondativi dell’antropologia in Italia, Il mondo magico (1948), per saggiarne la tenuta e il potenziale ancora dirompente. A contatto col materiale etnografico, la filosofia non ritrova nessun realismo ingenuo ma delle opzioni teoriche altrimenti confinate ai dibattiti più vetusti della storia della filosofia: il multinaturalismo, il naturalismo storico, l’idealismo. L’irritazione nei confronti del relativismo culturale, e dell’implicita esclusione di una prospettiva teorica unitaria, riavvicina infine filosofia e antropologia: un avvicinamento vissuto da molti antropologi come pericoloso per l’autonomia della disciplina ma necessario oggi, in un momento in cui separare l’umanità in diversi ethnos sembra un gesto sempre più artificioso. Grazie alla filosofia l’antropologia saprà diventare post-culturale? E la filosofia riuscirà a tirar profitto da questa arte della descrizione? Quali divenire ci attendono? Questo numero di Discipline filosofiche ha l’ambizione di presentare al lettore la cartografia mobile all’interno della quale il dibattito si snoda e si innova.

Indice
(cliccando sul titolo si può leggere l’abstract)

Roberto Brigati, Maririta Guerbo, Premessa
Philippe Descola, Antropologia e filosofia: come simmetrizzare le ontologie?
Mohamed Amer Meziane, Decolonizzare l’invisibile? Prolegomeni a un’antropologia metafisica
Carlo Severi, Lo spazio antropologico del pensiero. Alcune ipotesi sulla relazione tra antropologia e filosofia
Luigigiovanni Quarta, Il riccio e la volpe. Alcune riflessioni sui rapporti tra antropologia e filosofia
Filippo Batisti, Roberta Raffaetà, Scienza sradicata. Filosofia e antropologia alla prova dell’ampliamento della cognizione alle piante
Claude Imbert, Sur le désarroi des après-guerres. Les philosophes ont douté de leur parole, l’ethnographie y a trouvé la sienne
Frédéric Fruteau de Laclos, Extension du domaine de la théorie. Quand la philosophie se confronte au terrain
Paolo Pecere, L’animismo oggi: un’ipotesi tra filosofia e antropologia
Felice Cimatti, Ontologie sudiste. La vita delle cose da Telesio (via Campanella) a Bruno
Marco Piazza, Montaigne e la coutume: una rivoluzione relativistica?
Maririta Guerbo, Rivedere i termini dell’alleanza. La filosofia dopo la svolta ontologica in antropologia, a partire da De Martino
Piero Carreras, Exceedance and E-duction. Remarks on Phenomenology and Cultural Anthropology
Martino Simonetti, La fenomenologia culturale applicata al caso melanesiano
Giulia Gandolfi, The Living and Its Norm: Is There an Anthropological Claim in Georges Canguilhem’s Biological Philosophy?

dawgz.ai/it