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23. Recensione a: Francesco Ferrari, Religione e religiosità. Germanicità, ebraismo, mistica nell’opera predialogica di Martin Buber, Mimesis, Milano, 2014, pp. 364 (Daniele Nuccilli)

imageReligione e religiosità sono i termini di una polarità luminescente nell’eclettico – e a volte anche rapsodico – percorso di pensiero del Buber predialogico. Attorno ad esse ruotano le diverse coppie oppositive che scandiscono il procedere dicotomico della fase germinale della speculazione del filosofo viennese. Merito della monografia di Francesco Ferrari è quello di costruire una cartografia della pagina buberiana, di individuare nella coltre della sua complessa e diversificata produzione giovanile quei sentieri, anche interrotti, che ne strutturano il panorama teoretico e che possano guidarne la comprensione e la transizione verso la fase dialogica.
Il Leitfaden di questa dettagliata esposizione itinerante nelle vicende e nelle atmosfere che accompagnano il cammino filosofico buberiano nel clivio scosceso dei primi decenni del novecento mitteleuropeo, di cui questo testo è un affresco vivido e quasi tangibile, può essere individuato nella ricerca del proprio (das Eigen), di quel “proprio” che deve caratterizzare ogni rapporto dinamico e singolarizzato con la sfera del religioso (das Religiöse), vero discrimine tra la stasi di una vita sclerotizzata nella forma, nell’imposizione (religione), e la dinamicità di un’apertura vitalistica al possibile, all’incondizionato (religiosità). L’immagine del “proprio” utilizzata da Ferrari per difendere la figura del giovane Buber da una possibile sovrapponibilità con un musiliano Mann ohne Eigenschaften (p. 16), immerso nella fascinazione del baluginare sfocato di mondi possibili, nel culto dispersivo dell’istante, tipico della Vienna del declino dell’impero asburgico, mi sembra possa costituire l’idoneo angolo visuale dal quale cercare di carpire l’intricatissima trama espositiva nella quale l’autore cerca di inquadrare la “rizomatica” natura del filosofare buberiano.
La prima sezione dell’opera è un’antologia dei concetti e delle complessioni teoretiche, ascrivibili al panorama culturale tedesco, che influenzano lo sviluppo liceale e universitario del filosofo viennese. In essa spiccano i nomi di pensatori determinanti per la storia dell’intera filosofia contemporanea quali Nietzsche, Simmel e Dilthey (questi ultimi maestri diretti di Buber a Berlino e, indirettamente, di un’intera generazione di filosofi europei), ma anche quelli di letterati come von Hofmannstahl, Schnitzler, Altenberg, figure apicali della stagione dello Jung Wien, e di personaggi di spicco della società e dell’editoria del tempo. Determinanti in questo periodo saranno l’incontro con l’anarchico Gustav Landauer e l’esperienza di Neue Gemeinschaft.
Le vere pietre miliari di questa stagione del pensiero buberiano sono individuate dall’autore nell’ “l’identificazione tra vita e realtà” e nel “paradigma di un monismo dialettico, al cui interno l’uomo troverebbe un ruolo decisivo nella realizzazione della divinità e dell’unità” (p. 31). È all’interno e al fondo della necessità di superare ogni estrinsecazione del rapporto con il reale e con il divino che trovano un punto d’approdo gli influssi più erompenti del filosofare nietzschiano – cui secondo le parole di Buber (M. Buber, Ein Wort über Nietzsche und die Lebenswerte, in “Die Kunst, im Leben”, I/2, December 1900 p. 13) siamo debitori “per la chiamata all’unicità” e per l’esortazione a ridestare la propria forza e a “far uscire da ciascuno quanto vi sia di personale, di produttivo, i tesori più nascosti della sua individualità per trasformarli in energia motrice” (p. 33) – e gli insegnamenti di Dilthey e di Simmel. Perfettamete in assonanza con la Stimmung culturale del tempo, incentrata sul concetto di Leben, il cui più importante frutto teorico è la centralizzazione del ruolo dell’Er-leben rispetto a quello scientista di Erfahren, Dilthey inserisce la sua visione della religione nello svincolo nodale della teorizzazione di una Wirkungzusammenhang tra uomo e mondo, parlandone in termini di Liberalität, predisposizione innata ad accogliere la mediazione e l’ispirazione dello spirito divino. Il filosofo berlinese paragona l’esperienza religiosa a una Entstehung, al sorgere di un sentimento che istituisce un rapporto tra l’anima umana e la divinità vivente (p. 42). Lo scarto vigente tra la rivelazione del divino all’interno della coscienza dell’individuo e la trasfigurazione dell’esperienza religiosa in simbolismi metafisici conduce Dilthey a una caratterizzazione della religione come fenomeno storico, cui va posta a fondamento l’inalienabile storicità dell’individuo. Lungi dall’avere risvolti riduzionistici, una tale consapevolezza libera l’individuo dalla pesantezza del dogma e lo prepara all’assunzione “in proprio” della sua storicità e di una religiosità als Gegenwart, presente saturo di vissuto. Questa impostazione, seguendo la nitidissima ricostruzione di Ferrari, influenzerà durevolmente l’opera giovanile buberiana, preparando il terreno per una felice ricezione degli insegnamenti di Simmel. Proprio al sociologo berlinese Buber deve la dicotomia tra religione e religiosità, situabile al centro del rapporto insaturo tra vita e forma, lemma centrale dell’opera simmeliana, ove la prima si impone come fluido inesauribile, cangiante tensione alla creazione dello spirito soggettivo, e la seconda ne costituisce il portato fenomenico, lo spirito oggettivo, il grumo di contenuto che ne eredita eternamente l’impronta senza restituirne la dinamica spirituale. La fisionomia di questo rapporto dialettico viene tratteggiata in poche efficaci righe dall’autore della monografia: “Le religioni storiche, le mode, le configurazioni politiche, le norme etiche elaborate dall’umanità nel corso della storia costituiscono forme che, generate dal fluido inesauribile della vita, impregnano un’intera cultura, venendo ipostatizzate ed assurgendo ad autorità. Con questo, si ritorcono contro quella medesima vita da cui hanno avuto origine, fino a soffocare ogni principio sorgivo di religiosità, percezione sensibile, eticità e così via” (p. 49).
In questo scorcio della formazione buberiana si fanno spazio esperienze contrastanti: se a fronte del frastagliamento dell’esperienza estetica dei personaggi e degli stessi autori dello Jung Wien egli maturerà l’esigenza di un principio armonizzatore, un perno attorno al quale l’infinita mutevolezza del possibile si possa incardinare nell’effettuale, nel “proprio” di un’esperienza individuale veramente creatrice, grazie alla collaborazione con Neue Gemeinschaft verranno prendendo forma nel suo giovane pensiero quegli elementi unificatori – sfocianti in questa fase in una forma di comunitarismo – che apriranno il campo a una ricezione personale e controstorica dell’ebraismo e all’incontro determinante con il chassidismo. L’apporto di Buber alla causa di “Nuova comunità” è contrassegnato da una proiezione di tutti gli impulsi teorici riguardanti il singolo sull’orizzonte della sfera pubblica. La comunità viene vista dal filosofo viennese come una sorta di organismo vivente nel quale il molteplice, l’individuo particolare, trova il suo luogo naturale d’espressione, “la foce e la sorgente della vita”. Essa d’altronde non è altro che il macrocosmo dell’individuo stesso, il quale, in quanto armonizzatore della molteplicità dell’empireo, è in se stesso una comunità. Queste istanze teoriche sono, nel pensiero buberiano, il portato della maturazione di “un’immagine fortemente mistica del mondo” e di una visione dell’uomo come creatore, come essere in grado di “partecipare al movimento del mondo stesso” (p. 87). Proprio in questa partecipazione, cui Buber ascrive un che di divino, Ferrari trova il punto d’aggancio dell’elemento germanico con la lettura dei testi chassidico-cabbalistici nella formazione del giovane Buber, fase questa caratterizzata da una reciproca influenza (Wechselwirkung) con il pensiero landaueriano.
Nella seconda sezione della monografia vengono descritti i momenti fondamentali della maturazione di una coscienza ebraica nel Buber predialogico e del suo successivo attivismo teorico e politico per la causa sionista e per una ridefinizione dell’essenza dell’ebraismo. Articolata in due momenti, il primo riguardante il Kulturzionismus e il secondo lo Judentum, essa intende mostrare come la polarità tra religione e religiosità attraversi nell’opera buberiana il confronto con la religione storica d’appartenenza del filosofo: l’ebraismo.
Le coordinate concettuali del relazionarsi simbiotico del germanismo e dell’ebraismo all’interno del farsi programmatico della teoresi buberiana sono sussumibili nel termine cultur-sionismo, vero Stichwort di questa sua fase. Nel giro ristretto degli anni universitari Buber si fa dapprima osservatore interessato del sorgente movimento sionista guidato da Herzl e, nel seguito immediato, partecipe attivo e teoreta di una versione più democratica di esso. Quello che Buber porta avanti è il progetto di un sionismo culturale che abbia come scopo un Rinascimento ebraico, un processo di elevazione spirituale e di liberazione del popolo ebraico da quella diaspora interiore che ne caratterizza lo stato di remissione nella pur cogente condizione esteriore di subalternità e di accettazione delle convenzioni dei popoli ospitanti. Le forze motrici del ridestarsi del soggetto ad una forma interiorizzata e vitale dell’ebraismo vanno ricercate in un progetto di educazione culturale che abbia come scopo “la promozione della vita a partire dalla legge individuale” (p. 124). È solo attraverso il richiamarsi dell’individuo ad una forma di religiosità vissuta come “percezione vivente della natura e degli uomini” che il popolo ebraico può elevarsi oltre l’imposizione della Legge e ritrovare, nella dispersione della mera osservazione del rito e delle tradizioni, la “Sion dell’anima”. Per il perseguimento di un simile scopo l’arte assume un ruolo centrale. Nell’esperienza estetica partecipiamo del fatto che “tutto è relazione”, che il particolare si rende visibile solo all’interno di un tessuto relazionale. Grazie alla sua capacità di cogliere l’individuo nell’estasi di un rapporto intimo con il mondo e di richiamarlo dall’alienazione della rigida tradizione, l’arte, come ben evidenziato da Ferrari, trova punti di contatto con il chassidismo poiché ne condivide la sacralizzazione dell’intramondano: “Il chassidismo è la nascita del nuovo ebraismo. Il corpo umano diventa la meraviglia del mondo; la bellezza un prodotto di Dio; guardare un’unificazione con Dio […] la meta dell’essere umano è diventare una legge egli stesso. La creazione continua ancora oggi; l’essere umano partecipa alla creazione” (p. 144).
L’aspetto poietico dell’elemento religioso, il farsi vissuto di un Dio che diviene nel sentire “proprio” dell’individuo e che si fonde con il mondo in un processo continuo di redenzione, tema centrale dei racconti chassidici, e l’anelito all’Uno, al convergere degli aspetti molteplici della tradizione religiosa nella centralità dell’uomo che si apre all’incondizionato, liberandosi del dissidio tra esteriorità ed interiorità, costituiscono gli assiomi della definizione buberiana di un ebraismo personale e sotterraneo di contro a quello storico e ufficiale. In questa fase la cinetica della polarità tra religione e religiosità viene messa a disposizione della domanda sul senso che l’ebraismo ha per gli ebrei. L’occasione è offerta da uno scambio epistolare con Leo Hermann – presidente dell’associazione degli studenti universitari ebrei praghesi Bar Kochba – risalente al 1908, il quale conduce Buber alla stesura dei cosiddetti “Discorsi sull’ebraismo”. Il primo di essi (L’ebraismo e gli ebrei) si pone la questione se possa esistere una “religiosità ebraica in sé reale”. Nella risposta, articolata affermativamente dal filosofo, le peculiarità di un’“immediata religiosità ebraica” vengono individuate nella “relazione vissuta dell’uomo con l’incondizionato” e in un “elementare Gottgefühl che si concretizza nella dimensione della comunità” (p. 150). Il secondo discorso (L’ebraismo e l’umanità) verte sull’imporsi di un’esigenza unitaria nell’animo dell’ebreo che sorge dalla dualità originaria (Urzweiheit) che lo caratterizza, interiormente nell’asservimento all’insegnamento rabbinico ed esteriormente nello stato diasporico. Il compito di un’autentica religiosità ebraica viene ricondotto in questo luogo all’ethos individuale, al farsi carico da parte della coscienza della duplicità originaria per portare a compimento il mondo dell’Unità, un mondo in cui Dio si realizza nel singolo e nella sua vita in comune (p. 158). Il terzo discorso (Il rinnovamento dell’ebraismo) è un richiamo alla dimensione profetica dell’ebraismo, a “una vita eroica e incondizionata” incentrata sulla “santità dell’azione”; esso culmina con le tre idee fondamentali che essenziano il carattere ebraico: “Il processo spirituale dell’ebraismo si compie nella storia come la tensione ad attuare in modo sempre più perfetto le tre idee legate tra loro: l’idea dell’unità, l’idea dell’azione e l’idea del futuro” (p. 161).
La parte conclusiva di questa sezione è caratterizzata da pagine dense nelle quali Ferrari tira le fila del suo discorso e coglie uno degli aspetti storicamente più rilevanti della dimensione ebraica: la mitopoiesi. L’attitudine mitopoietica, intesa come “trasposizione dei fatti sensibili nell’assoluto” è la vera fonte alimentatrice di ogni religiosità, l’elemento vivificatore di ogni monoteismo e, in quanto agitatrice di ogni fissità, nemica di ogni religione (cfr. p. 164). Dimensione profetica e mitopoiesi come forme attuative della religiosità, di quell’assoluto “sito aldilà di ogni dogma e prescrizione”, decisione quale “atto fondamentale”, “realizzazione sulla terra della libertà del divino e dell’assoluto” sono le diverse forme nelle quali viene espressa l’importanza dell’azione umana per la rivelazione del divino. Paradigmatico delle diverse istanze chiamate in causa, ma anche dell’intero studio e del periodo in esso indagato, è il brano selezionato da Religiosità ebraica che Ferrari riporta nelle ultime pagine del capitolo. In esso si legge: “La religiosità è dunque il principio creativo, la religione quello ordinatorio; […] religiosità significa attività – un modo elementare di porsi in relazione con l’assoluto; religione vuole dire passività – un assoggettarsi alla legge tradizionale; religiosità non ha che la sua meta finale, religione ha scopi pratici; per la religiosità i figli si levano contro i padri onde trovare il proprio Dio; per la religione i padri condannano i figli perché questi non si lasciano imporre il loro Dio; religione significa conservazione; religiosità significa rinnovamento” (pp. 173-174).
La terza sezione dell’opera rappresenta un’accurata descrizione dei pellegrinaggi intellettuali di Buber da Oriente a Occidente attraverso le varie forme di vita religiosa: dalla mistica tedesca al chassidismo, dal Tao alle lezioni di Buddha. Lo scopo dell’autore è quello di indagare questi diversi momenti seguendo le coordinate della tracciata polarità tra religione e religiosità e di identificare la mistica come luogo d’affermazione della libertà religiosa. I sentieri affrontati dal Buber “mistico” vengono sapientemente seguiti da Ferrari nel loro convergere verso la prima opera compiuta del Buber predialogico: Daniel; opera alla quale viene attribuita un’importanza fondamentale di transizione verso la svolta dialogica.
L’attenzione rivolta alla mistica da Buber risponde all’esigenza di “ricercare il conseguimento di quell’interezza, di quell’Uno, che egli più volte afferma come necessario per redimere un’esistenza stritolata dalle maglie di un ingranaggio operante tanto nel mondo dell’orientamento, quanto in un soggetto senza mondo, allorché si pone nei riguardi dell’esistente con separazione” (p. 181). Nelle stringenti parole di Ferrari viene espressa l’importanza della mistica per il conseguimento di una libertà religiosa al di sopra della dispersione nella forma, oltre la dicotomia tra sacro e profano. La discontinuità dell’esperienza vissuta dall’uomo religioso – per il quale il mondo è disomogeneo, caratterizzato da spazi qualitativamente diversi – è individuabile in quella frattura che nei tempi moderni si è risolta nella conquista da parte del profano degli spazi sacrali, vale a dire di quelle isole che esprimevano massimamente la cristallizzazione in forma del fenomeno religioso, e che vengono ora risucchiate nelle sabbie mobili della Waste Land di T. S. Elliot. È nel mezzo di un tale inaridimento che può risuonare il messaggio chassidico con il suo fondamento in un Dio che dimora nel mondo. Fondamentale nell’interpretazione di Buber, per la ricucitura della distanza tra sacro e profano come per la riformulazione del concetto di sacralità, è la dottrina chassidica delle scintille divine. Le scintille divine dimorano in tutte le cose e in tutti gli esseri, ogni ente del mondo è uno spazio di sacralità, ogni contatto dell’uomo con il mondo è un’apertura all’assoluto, un luogo di congiunzione con un Dio che diviene (werdende Gott). Secondo il chassidismo non esiste nessuna frattura nella creazione, nessun luogo dove Dio non possa dimorare. Buber individua nella nozione di Ychud il luogo fondamentale del mostrarsi di quell’Uno tanto perseguito lungo tutto il dipanarsi degli scritti giovanili. Ychud esprime innanzitutto l’unità dell’uomo con se stesso, “tale unità è il presupposto operante dell’unità cosmica che proprio l’uomo divenuto uno in se stesso ha, nel chassidismo, facoltà di portare a compimento” (p. 234).
L’interpretazione dei chassidim è, nell’opera buberiana del primo decennio del Novecento, il veicolo e il collante tra la mistica tedesca e gli sguardi indagatori sull’estremo oriente. Nella sua tesi di dottorato Buber aveva attribuito a Cusano il merito di aver riportato, al centro del problema dell’individuazione, l’unicità dell’individuo, la cui essenza consiste nell’essere contenitore di tutte le cose e dunque luogo privilegiato della rivelazione di Dio. La tesi di un individuo che sia punto medio di un infinito processo del mondo veniva posta, nello studio del filosofo viennese, alla base del “monismo panteistico” di Böhme e della sua concezione dell’individuazione come forza operante, all’interno del divino, di ogni movimento e di ogni realtà. Questa fase apporta secondo Ferrari una sorta di contromovimento concettuale nel pensiero buberiano, che, dalla possibilità dell’uomo di accogliere Dio attraverso l’individuazione, conduce a quella di Dio di individuarsi nell’uomo, in un’irriducibile commistione di uno e molteplice che avviene attraverso “l’identificazione divina”.
Gettando lo sguardo ad Oriente Buber, come ben esplicitato dall’autore, vuole dimostrare l’orientalità dell’ebraismo, “l’istinto di unità orientale” che esso avrebbe ereditato dalla forza creatrice delle altre civiltà asiatiche. Ebraismo dunque come ponte tra Oriente e Occidente, un ponte costruito da Buber sulla via dell’Uno e nell’orizzonte di una “religiosità” comune alle grandi religioni mondiali. Fondamentali in questa poderosa fase creativa sono gli studi sul Tao e sulla “lezione” di Buddha. Tao è il sentiero che è in se stesso, unità incondizionata, principio armonizzatore e luogo di manifestazione dell’alternarsi del molteplice. Questo grandioso principio non può essere carpito né in sé conosciuto “ma può essere attestato nell’unità del cammino di colui che Buber chiama l’unificato (der Geeinte) colui, cioè, che sa ritrovare all’interno del mondo l’unità di ogni cosa” (p. 254). Vivere nel Tao significa essere in cammino, nell’accoglimento attivo dell’eterna trasformazione. L’azione è, secondo Buber, al centro anche dell’insegnamento del Buddha, il quale viene definito come colui che conosce la suprema unità, colui che rifiutando ogni precetto, ogni affermazione metafisica, liberandosi dall’ingranaggio del mondo, s’incammina sulla via del compimento: “Buddha osserva le cose, è le cose; osserva il mondo, è il mondo. Il suo negare, il suo rifiuto non sono nient’altro che l’essere compiuto e perfetto. Si tratta dell’azione portata a compimento” (p. 245).
Ciò che caratterizza i diversi insegnamenti religiosi descritti da Buber nei suoi “pellegrinaggi” mistici è la centralità dell’azione dell’individuo per inverare la presenza di Dio nelle cose, per mediarne la realizzazione nel mondo. È in una simile realizzazione che l’uomo permane nell’Uno ed è in questo che consiste la sua religiosità. Quando la spinta creativa dell’azione si trasforma in fede, in esigenza di incatenare l’anelito all’Uno nel rito o nel dogma, la religiosità si declina in religione, si avvizzisce e l’uomo si disarmonizza con le cose del mondo e con il Dio che in esse diviene, cadendo fuori dall’Uno. È questo, come Ferrari acutamente ci fa notare, lo spartito teorico alla base del Daniel.
Come ben detto da Leiner nella sua prestigiosa introduzione all’opera, questo è “Il libro che si deve leggere sul giovane Buber”. In questa monografia Ferrari cerca di cogliere, al di là delle coloriture che le diverse proiezioni luminose hanno assunto all’interno del prisma dell’opera buberiana, il fascio di luce, l’istanza teoretica che ne è scaturigine. Nella conclusione l’autore, per descrivere il percorso di Buber attraverso le turbolenze dell’alba del ventesimo secolo, usa la metafora di un mare aperto sovrastato da diverse costellazioni: la forza di quest’opera è proprio quella di farci vivere l’incanto di quel cielo stellato.

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