Il tema dell’animalità – l’indagine su ciò che contraddistingue l’essere animale – sta acquisendo un ampio spazio nella filosofia contemporanea. In particolare, accanto agli studi esclusivamente etici che a partire dagli anni ’70 si interrogano su quali diritti estendere e a quali animali, si assiste a un crescente numero di approcci che s’installano su un campo eminentemente teoretico e che, attraverso svariate modalità e influenze filosofiche, si indirizzano verso una disamina profonda dell’essere-animali e, specularmente, dell’essere-umani.
L’ultimo lavoro di Roberto Marchesini, Etologia Filosofica. Alla ricerca della soggettività animale, si inserisce senza dubbio all’interno della seconda categoria. Preceduto da numerose pubblicazioni che spaziano dal post-umano alla narrativa, passando per ricerche tecniche di zooantropologia, Etologia Filosofica trova la sua sistemazione sugli scaffali della ‘vera’ filosofia: «Il mio intento in questo saggio è eminentemente filosofico, teso a indagare l’ontologia animale», spiega l’autore nell’Introduzione (p. 10). Il tema centrale – da decostruire e ricostruire – è quello della soggettività nella sua particolare declinazione dell’essere animale; l’obiettivo polemico resta il «tranello ontologico» del dualismo cartesiano, in tutte le sue successive, spesso inconsapevoli, applicazioni. L’argomentazione di Marchesini è tesa innanzitutto a mettere in scacco il paradigma ontologico cartesiano della res extensa, responsabile di aver relegato la soggettività alla dimensione interiore della coscienza (l’autore cita la celebre espressione Ghost in the machine di Gilbert Ryle) e, quindi, di aver ridotto l’essere animale a una macchina o a un automatismo. Ma il paradigma ontologico cartesiano – Marchesini ne è profondamente consapevole – non si esprime soltanto nella classica distinzione tra res cogitans e res extensa. Al contrario, esso si annida anche negli approcci più recenti sia sul fronte etico sia su quello, apparentemente neutrale rispetto ai paradigmi filosofici, dell’etologia, tanto nella sua declinazione classica o behaviourista quanto nell’etologia cognitiva contemporanea. In questi approcci, e in larga parte anche nel modo comune di concepire la soggettività umana e animale, persistono gli stessi pregiudizi: il bias antropometrico, ovvero il porre l’essere umano – mi permetto di aggiungere: bianco, sano e adulto – come metro di giudizio; il bias disgiuntivo, ovvero la tendenza a enfatizzare le distanze nei confronti dell’eterospecifico, piuttosto che i punti in comune; il bias categoriale, che, al contrario, tende a inglobare in un’unica categoria – quella di animale – esseri viventi di specie differenti, ciascuno caratterizzato da una profonda specificità biologica e comportamentale (p. 40). Del resto, riconoscere e scardinare il pregiudizio categoriale è proprio una delle lezioni più importanti che possiamo trarre da L’Animal que donc je suis di Jacques Derrida e dalla celebre nozione di animot.
In altre parole, ciò su cui è necessario riflettere non è la dimensione dei predicati che, a partire dai nostri parametri interamente umani, attribuiamo agli animali (intelligenza, sensibilità, empatia, simpatia etc.), ma ciò che Marchesini definisce “condizione meta-predicativa”: «Quando parlo di condizione meta-predicativa intendo dire che, al di là, dei connotati che in un certo momento l’individuo manifesta, esiste un sostrato comune ossia condiviso che caratterizza la condizione animale» (p. 69). Si tratta di comprendere – ed è tutt’altro che scontato – che l’essere animale ci riguarda, ovvero che il discorso sull’animalità deve essere ontologico perché possa condurre realmente a un cambio di paradigma. Si tratta di un’intuizione importante, sfuggita alla maggior parte dei pensieri animalisti, che solitamente pongono in primo piano il discorso etico rispetto a quello ontologico, ma colta da altri, in primis – paradossalmente, se consideriamo le sue conclusioni – da Martin Heidegger e successivamente da Hans Jonas. E ha ragione Marchesini a sottolinearlo: «Semplificando molto potremmo dire che Martin Heidegger ha visto giusto nel tratteggiare le dimensionalità meta-predicativa dell’esistenzialità, ma ha sbagliato nel momento in cui l’ha resa, in modo preconcetto e pregiudizievole, termine di distinzione tra l’uomo e le altre specie» (p. 70).
La pars construens proposta e abbozzata da Roberto Marchesini in questo lavoro parte proprio da qui, dalla constatazione di un Dasein animale: lungi dal poter essere definita come un macchinista calcolatore, la soggettività animale è nel mondo e nel mondo si trova incerta, approssimativa, creatrice. La soggettività risiede propriamente nell’approssimazione creativa. Di fronte all’animale si dispiega non una Umwelt chiusa come una bolla di sapone ma, al contrario, un campo di possibilità. In questo senso ci pare che Marchesini si avvicini più alla lettura merleau-pontyana delle ricerche di Jakob von Uexküll rispetto a quella heideggeriana: «Con il vivente, appare un ambito d’evento che apre un campo spaziale e temporale. […] Il vivente opera solo con elementi fisico-chimici, ma queste forze subordinate allacciano fra loro relazioni inedite. Si può, in quel momento, parlare di un animale» afferma Merleau-Ponty commentando la nozione di Umwelt nei corsi dedicati alla natura (M. Merleau-Ponty, La Natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, trad. it. di M. Mazzocut-Mis e F. Sossi, a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 260).
Il modello di riferimento, allora, non sarà più la classica implicazione 1:1 tra struttura e funzione ma si accederà a un modello di «virtualità funzionale», a uno schema funzionale «dove il rapporto struttura/funzione sia 1:infinito, come la mappa di una città (struttura) che non implica necessariamente un itinerario (funzione), bensì infiniti possibili tragitti» (p. 66). I tragitti possibili del comportamento animale, in realtà, non sono infiniti, in quanto vincolati alla storia filogenetica. Tuttavia, se interpretati come “cause remote”, secondo la definizione di Ernst Mayr, sono propriamente ciò che concede all’animale uno spazio di libertà. La rielaborazione del rapporto tra filogenesi e ontogenesi in quest’ottica è tra gli spunti più interessanti di questo lavoro: sarebbe un errore relegare la soggettività al suo aspetto fenomenico (al qui-e-ora) perché essa si manifesta facendosi, realizzandosi in un dialogo tra anticipazioni filogenetiche, manifestazioni ontogenetiche e informatività bidirezionale con l’ambiente. In questo senso, dunque, il comportamento di un animale si realizza come uno stile (prendiamo in prestito questa nozione da autori come Kurt Goldstein, Viktor von Weizsäcker, Maurice Merleau-Ponty e Georges Canguilhem) che coniuga eredità e creatività, genetica e biografia. In realtà, è proprio grazie alle anticipazioni filogenetiche che è possibile scardinare il paradigma dell’animale-macchina. Marchesini definisce in questi termini il paradosso della soggettività: «Non si sceglie di essere cani, delfini, uomini e galline, si porta sulle proprie spalle una storia di cui non si ha elettività e responsabilità perché ci precede. E tuttavia, proprio grazie a questi codici d’interpretazione, il qui-e-ora non impone una fisica comportamentale, quale può essere la caduta di un grave, ma si trasforma in uno spazio di protagonismo che svincola l’individuo dalle causalità presenti» (p. 90). L’animale è protagonista della sua soggettività proprio in quanto non è svincolato dalla sua storia filo-ontogenetica, da un passato che ne fa un essere rivolto al presente e al futuro. In questa nuova ottica, i bisogni, che rinchiudevano l’agire animale all’interno di una gabbia di stimoli e risposte, diventano desideri. Desideri a priori – «la libertà non si sceglie, non si è causa della propria libertà» (p. 89) – che però non determinano in maniera assoluta l’agire soggettivo ma, al contrario, lo rendono instabile e dunque creatore proprio di quel mondo che Heidegger gli negava. È il desiderio il dono di Epimeteo, ci dice Marchesini, un dono che non allontana né disgiunge gli umani, figli di Prometeo, ma che al contrario getta le basi per un’ontologia comune.
La proposta di Marchesini situa la soggettività all’interno di un discorso senza dubbio originale, che rintraccia nel cuore stesso dell’essere animale un’intenzionalità come stato tensionale, precedente tanto alla percezione quanto alla coscienza. Tuttavia sarebbe stata utile una definizione più rigorosa della nozione di desiderio, in modo da salvaguardare la tesi da eventuali critiche di antropomorfismo. Se da una parte si comprende che il desiderio, com’è qui inteso, non rimanda alla sfera del simbolico ma si rifà esclusivamente a un’eccedenza tensionale dell’animale che gli permette un’interazione dialogica con l’ambiente non riducibile a una spiegazione meccanicistica, d’altra parte resta il rischio di un’ambiguità semantica.
La lettura del saggio si conclude con la ricca e suggestiva postfazione di Felice Cimatti, tra i primi in Italia, con il suo Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013), a porre le basi per un serio dibattito teoretico e ontologico sull’animalità.