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60. Recensione a: Dario Antiseri, L’invenzione cristiana della laicità, Rubbettino, Catanzaro 2017, pp. 124. (Igor Tavilla)

In L’invenzione cristiana della laicità, edito da Rubbettino nella collana ‘Le nottole di minerva’, Dario Antiseri – docente di metodologia delle scienze sociali presso la Libera Università Internazionale degli Studi ‘Guido Carli’ di Roma – licenzia un’agile somma del pensiero cristiano-liberale il cui intento, però, non è riduttivamente antologico o retrospettivo, bensì programmatico. L’autore raccoglie testimonianze e offre ragioni a supporto di una posizione culturale e politica (nel senso più nobile del termine), che pur avendo contribuito a fondare l’identità del nostro paese e, più in generale, della civiltà occidentale, appare negletta e marginale nel dibattito attuale, compressa tra fondamentalismo neoliberista e statalismo conservatore bipartisan.
Il saggio è strutturato in tre parti. Nella prima, Per uno Stato “forte ma non affaccendato”, l’autore si propone di restituire alla concezione liberale della società il suo autentico significato, confutando l’opinione tendenziosa, ma largamente diffusa – la “grossolana fola” per usare le parole di Luigi Einaudi (p. 15) – secondo cui il liberalismo implicherebbe l’assenza dello Stato, uno sregolato laissez faire-laissez passer o addirittura il darwinismo sociale. Ispirandosi ai pensatori ‘ordo-liberali’ della Scuola di Friburgo, Antiseri sostiene che la libertà di mercato esige a propria garanzia uno Stato di diritto solido, uno stato forte “ma non affaccendato” (Wilhelm Röpke), capace di porre un argine alle tendenze monopoliste e garantire la protezione della proprietà, della libertà e della pace.
Il fallibilismo epistemologico è uno dei presupposti fondamentali della società aperta. Dietro ogni pretesa veritativa assoluta si cela sempre una tentazione totalitaria. La consapevolezza del carattere fallibile e congetturale della conoscenza umana – guadagno speculativo del liberale Karl Popper – si traduce nella vocazione democratica al dialogo e alla libera discussione. Con Friedrich A. von Hayek, Antiseri prende atto “che noi, oltre che fallibili, siamo anche ignoranti” (p. 25). Esiste, infatti, una quantità enorme di conoscenze contingenti – le cosiddette “conoscenze delle circostanze particolari di tempo e di luogo” – disperse tra milioni e milioni di individui, conoscenze non propriamente scientifiche, in quanto non formalizzabili in una legge, ma indispensabili alla soluzione di problemi concreti. Trattandosi di un sapere non centralizzabile e non pianificabile dall’alto, ad ogni individuo dev’essere riconosciuta la libertà “di agire in base alla sua particolare conoscenza, sempre unica, almeno in quanto si applica a circostanze particolari”, permettendogli “di utilizzare le sue capacità individuali e le sue occasioni entro i limiti  a lui noti e per uno scopo individuale” (p. 25).
Lo spirito d’iniziativa individuale può concorrere in campo sociale alla formazione di associazioni spontanee, altrimenti dette “corpi intermedi” o “sotto-società”, che operano – in nome del principio di sussidiarietà orizzontale – in vista del pubblico interesse. La libera competizione (dal latino cum-petere: cercare insieme, in modo agonistico, la soluzione migliore) tra idee, proposte politiche e merci è vista dal liberale come il fondamento di ogni progresso scientifico politico ed economico. Al contrario, l’assenza di concorrenza rallenta lo sviluppo e alimenta fenomeni socialmente dannosi come la corruzione e il clientelismo. La rivalutazione morale dell’imprenditore – che una vulgata inveterata e faziosa ha dipinto come uno sfruttatore che approfitta del lavoro altrui per accumulare ricchezza –, passa anzitutto dal riconoscimento dell’altruismo che anima lo spirito d’impresa. Con George Gilder, autore di Human Capital (1997), Antiseri ricorda che “il capitalismo non inizia con il prendere ma con il dare” (p. 37), con il libero dono che l’imprenditore fa delle proprie ‘virtù’, quali accortezza, abilità e ingegno, alla comunità.
Nella seconda parte, Perché il destino dell’Europa è legato al messaggio cristiano, Antiseri riflette sulla compatibilità tra laicità dello Stato e messaggio cristiano, rivendicando, in risposta a quanti dubitano di essa, la matrice cristiana dello Stato di diritto. Fu il cristianesimo a desacralizzare il potere politico, a sancire cioè che lo Stato non è l’Assoluto (“Kaysar non è Kyrios”), sottoponendo lo Stato allo stesso processo di demistificazione che portò, in seguito, alla desacralizzazione del mondo naturale e all’avvento della scienza moderna.
A conferma di ciò, Antiseri richiama l’esempio di alcuni illustri esponenti del pensiero liberale che hanno saputo coniugare la loro cattolicità con una piena laicità: Antonio Rosmini (1797-1855), per il quale la persona rappresentava un valore morale irriducibile, e la proprietà “una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nella qual sfera niun altro può entrare” (p. 65); Alessandro Manzoni (1785-1873), che a giusta ragione si definì “laico in tutti i sensi”, fautore, qual era, del primato della coscienza in materia religiosa, e avverso alla strumentalizzazione della religione in senso politico, come pure all’ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato; Lord Acton (1834-1902), il quale affermava la coscienza come legge di auto-governo, la libertà come fine e mai come mezzo, il primato dell’individuo sulla massa, degli interessi eterni dell’individuo su quelli temporali; Don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, di cui Gaetano Salvemini ebbe a scrivere: “è un liberale. Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale. Don Sturzo non è clericale. Ha fede nel metodo della libertà per tutti e sempre” (p. 83); Wilhelm Röpke, che riconosceva alla base dell’economia di mercato solide fondamenta etiche: “autodisciplina, senso di giustizia, onestà, fairness, cavalleria, moderazione, spirito di colleganza, rispetto della dignità umana, salde norme morali, sono tutte qualità che gli uomini debbono già possedere quando vanno al mercato e competono nella concorrenza” (p. 92).
Alla libertà d’insegnamento è dedicata la terza parte del saggio. Dati alla mano, questo diritto – sancito dalla risoluzione del 14 marzo 1984 della Comunità europea – viene di fatto disatteso nel nostro paese. Il primato educativo dello Stato vive di pregiudizi come quello secondo il quale soltanto la scuola statale sarebbe in grado di formare coscienze libere da preconcetti, mentre quella cattolica inibirebbe ogni spirito critico. Questo luogo comune, oltre ad essere verificabilmente falso – si pensi al fulgido esempio di Don Lorenzo Milani – tradisce l’aspirazione, caratteristica di ogni Stato etico, di plasmare le menti dei cittadini secondo i propri fini. Antiseri si esprime con inequivocabile durezza circa “i danni del monopolio statale dell’istruzione”. “Il monopolio dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà”, in quanto comprime alternative culturali e valoriali, oltre che appiattire l’insegnamento su una “squallida uniformità” (Bertrand Russell); “è in contrasto con la giustizia sociale”, in quanto penalizza tutti coloro – in primis i soggetti socialmente svantaggiati – i quali, intendendo avvalersi dell’insegnamento presso una scuola non statale, sono costretti a corrispondere oltre alle tasse dovute allo Stato, per un servizio di cui non usufruiscono, una retta per la scuola non statale; devasta l’efficienza della scuola”, in quanto l’assenza di competizione va a incidere sulla qualità del servizio erogato e favorisce, da ultimo “l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori” (p. 97).
Fatte salve l’obbligatorietà e la gratuità del servizio, il sistema scolastico, come il mercato, può trarre solo giovamento da un regime concorrenziale. “L’istruzione, come tutte le cose, – scriveva Alexis de Tocqueville – ha bisogno, per perfezionarsi, vivificarsi, rigenerarsi all’occorrenza, dello stimolo della concorrenza” (p. 100). La libertà d’insegnamento, a favore della quale si espressero anche pensatori di matrice socialista o comunista come Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, potrebbe essere garantita dal cosiddetto “buono-scuola”, un ‘voucher’ che le famiglie o gli studenti aventi diritto sarebbero abilitati a spendere presso l’istituzione scolastica in cui intendono formarsi.
La necessità di promuovere un’istruzione di qualità emerge oggi con forza ancor maggiore, in un frangente in cui la televisione sembra compromettere l’autonomia di giudizio degli individui – secondo quanto affermato Gadamer – e minare le fondamenta stesse della convivenza civile inducendo – come ha rilevato Popper – assuefazione alla violenza. Premesso che in uno Stato di diritto l’esistenza di molteplici emittenti private rappresenta un valore in sé, l’autore ritiene che il servizio pubblico radio-televisivo abbia il dovere di garantire il pluralismo, rendere trasparente il dibattito politico e sollecitare una sensibilità interculturale. Perché ciò possa accadere, Antiseri auspica che il servizio pubblico venga sottratto alla lottizzazione partitica e alla bieca logica commerciale che insegue l’audience ad ogni costo. Ciò potrebbe stimolare le stesse emittenti private a fornire un servizio di qualità migliore ai loro telespettatori.
Con una prosa appassionata e vibrante di una forte carica ideale, che trae alimento da una nobile tradizione di pensiero e azione, l’autore sollecita la riflessione su temi di attualità da cui dipende il futuro politico, economico e sociale della nostra democrazia. C’è da augurarsi che le obiezioni alla proposta di Antiseri, che certamente non mancheranno, siano formulate con la stessa chiarezza e lo stesso rigore. Il dibattito pubblico ne trarrebbe grande giovamento.

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