sabato , 23 Novembre 2024
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93. Recensione a: Andrea Staiti, Etica naturalistica e fenomenologia, il Mulino, Bologna 2020, pp. 158. (Bianca Bellini)

Fin dove può spingersi la pretesa scientifica di esaurire la comprensibilità del mondo? Una simile domanda pare già preannunciare un pregiudizio che serpeggia in ambito scientifico tale per cui ogni possibile avvicinamento di tesi filosofiche a tematiche scientifiche viene visto come un’imperdonabile invasione di campo. Le scienze naturali, quali sola e possibile spiegazione del mondo, pervadono la comprensibilità di ogni parte di mondo, e la filosofia non sembra immune da questa scientifizzazione (si pensi, banalmente, alla dicitura italiana relativa al Corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche). Al libro di Andrea Staiti va riconosciuto questo primo merito: addentrarsi nelle reti di pregiudizi che compromettono una proficua collaborazione tra l’area filosofica e scientifica.
Potrebbe sembrare che la tematica del pregiudizio altro non sia che un semplice cappello introduttivo per un libro che si propone di concepire la fenomenologia come un punto di unione tra naturalismo e non-naturalismo. È tuttavia doveroso sottolineare come questo tema vada a costituire non solo un cappello introduttivo, ma anche – e soprattutto – l’ossatura principale di questo testo che si propone di essere un’analisi fenomenologica dell’esperienza assiologica, o meglio, una rivalutazione del contributo etico di Edmund Husserl così da liberare il suo pensiero da interpretazioni fuorvianti e far dialogare la fenomenologia con forme liberalizzate di naturalismo. Il risultato che il lettore avrà tra le mani non sarà dunque solo una comprensione del fondamentale contributo che il pensiero di Husserl offre all’etica, ma anche un’individuazione delle coordinate filosofiche fondamentali per orientarsi nel dibattito etico contemporaneo.
Questo scopo di Staiti è un obiettivo intrinsecamente fenomenologico che si collega in maniera imprescindibile alla tematica del pregiudizio: fondamento di ogni indagine fenomenologica, infatti, è l’husserliano “principio di tutti i principi”, secondo il quale ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza. Un simile principio si propone di conferire legittimità e complessità ad ogni tipologia esperienziale e non pone limiti ai possibili tipi di esperienze. Seguire questo principio, come Staiti fa dichiaratamente, significa sgombrare il campo d’indagine da ogni pregiudizio che possa in qualche modo compromettere una comprensione dell’esperienza in questione, ossia l’esperienza assiologica. In particolare Staiti si propone di disambiguare alcune tesi centrali del pensiero etico di Husserl, mostrandone il contributo radicale per il dibattito contemporaneo e, soprattutto, evidenziandone l’efficacia in relazione all’obiettivo fenomenologico di rimanere fedeli alla complessità dell’esperienza assiologica. Questo lo scopo principale del testo, motivo per cui l’autore apre la fenomenologia husserliana ad utili integrazioni esplicative provenienti da studiosi contemporanei nella misura in cui l’intento guida è rendere ragione della complessità dell’esperienza assiologica concreta. Questo modo di procedere mette in mostra un ulteriore merito di questa pubblicazione: ampliare il raggio della fenomenologia oltre i fenomenologi. Questo testo è un esempio lampante di come la fenomenologia in quanto atteggiamento filosofico possa essere un metodo d’indagine che contribuisce alla comprensione di un determinato fenomeno tanto quanto e in collaborazione con altre metodologie filosofiche. Essendo questa la cornice entro la quale si muove Staiti, nel primo capitolo il lettore viene posto di fronte alla problematica di fondo: l’etica dev’essere considerata un dominio di ricerca indipendente e fondata a priori, oppure è legittimo asserire che l’etica debba avere un fondamento naturale? È cioè possibile svolgere un’indagine etica a prescindere da ogni osservazione di carattere naturale o, viceversa, senza simili osservazioni l’etica non potrebbe avere ragione d’essere? Così come nel mondo medievale ci si interrogava sul possibile punto di incontro tra filosofia e religione, così oggi in un mondo dominato dal sapere scientifico prende finalmente forma un’indagine che in maniera solida e strutturata si pone il medesimo quesito in merito al rapporto tra scienza ed etica, dando il giusto peso alla figura di Husserl quale filosofo etico fondamentale. È la constatazione iniziale di Staiti – “i filosofi contemporanei cercano una legittimazione della propria disciplina guardando alle scienze naturali” (p. 15) – a dare l’avvio a questa ricerca (ma è bene che la filosofia ricerchi una legittimazione dalle scienze naturali? La domanda sembra rimanere sottintesa e senza risposta).
Nell’affrontare questa tematica, Staiti vede nel naturalismo un imprescindibile punto di riferimento. Quale corrente contemporanea e frequentemente citata, quello che il primo capitolo offre è un limpido quadro di che cosa sia il naturalismo, evitando semplificazioni e categorizzazioni generali. L’autore invita a sottoscrivere un naturalismo liberalizzato – a scapito quindi di forme radicali quali il fisicalismo e l’espressivismo – al fine di “coniugare la razionalità della filosofia con quella delle scienze empiriche” (p. 20): emerge così l’importanza di una reciproca collaborazione tra sapere filosofico e scientifico, laddove il primo avanzi pretese che necessitino una conferma empirica del secondo, e laddove il secondo si avventuri a proporre tesi che necessitino la presa in considerazione del primo. Seguire metodologie filosofiche specifiche non significa sottoscrivere tesi antiscientifiche, così come “non è chiaro il motivo per cui tutte le entità non-naturali sarebbero, per il fatto stesso di essere non-naturali, sinistre, così come non è affatto evidente il motivo per cui le entità naturali sarebbero, per il fatto stesso di essere naturali, non sinistre” (p. 17).
Respingendo quindi ogni tipo di pregiudizio naturalista o non-naturalista, emerge in tutta la sua complessità la questione delle proprietà assiologiche e, conseguentemente, del rapporto che intercorre tra queste e le proprietà naturali: le proprietà assiologiche sono definibili? In quanto normative, come sono accessibili e come possiamo fedelmente descriverne il rapporto con le proprietà naturali? L’abbandono di pregiudizi permette all’autore di rivolgersi al naturalismo e al non-naturalismo come differenti atteggiamenti che, al pari di quello fenomenologico, contribuiscono a rendere conto della complessità della questione.
È proprio seguendo l’atteggiamento fenomenologico che Staiti, al termine del primo capitolo, descrive la fenomenologia come punto di unione tra naturalismo e non-naturalismo: le proprietà morali sono oggetto di esperienza e la loro natura è a priori. Il che non significa che la loro natura sia indipendente dall’esperienza, “ma soltanto indipendente dal corso fattuale dell’esperienza. Non potremmo cioè immaginare che l’esperienza futura, ad esempio, smentisca o costringa a rivedere il principio secondo cui realizzare disvalori è sbagliato” (p. 39). Seguire l’atteggiamento fenomenologico significa prima di tutto prestare fede alla nostra vita morale, prendendola sul serio e riconoscendone il realismo morale: questo è l’invito e l’obiettivo dell’autore.
Possiamo separare nettamente proprietà naturali e assiologiche? È possibile individuare le proprietà naturali rilevanti in modo normativamente neutrale? La dimensione assiologica è pervasiva a tal punto che se la prospettiva valutativa cambia allora cambiano anche le proprietà naturali coinvolte? Prendere sul serio l’esperienza assiologica significa affrontare simili domande ed argomentare a favore di possibili risposte senza rimanere chiusi all’interno di una data corrente filosofica, ma dialogando con plurime prospettive: questo un altro merito della ricerca di Staiti. Tuttavia, proprio riguardo al rapporto tra proprietà assiologiche e naturali, durante la lettura emerge una domanda che sembra rimanere però sottaciuta: perché parlare di proprietà e non di qualità? Affrontare apertamente questa domanda implicherebbe appellarsi alla prospettiva di M. Scheler, secondo cui i valori sono qualità e non proprietà, le quali non sono date senza la cosa di cui sono proprietà.
Come cogliamo le proprietà assiologiche? Per rispondere ad un simile quesito, Staiti fa leva su due concetti chiave – percezione ed intuizione – alla cui analisi dedica il secondo capitolo. In merito al concetto di percezione, l’autore ne spiega il significato in chiave intenzionale e non rappresentazionalista: “la percezione nell’esperienza concreta è sempre una percezione globale di oggetti assiologicamente qualificati. L’isolamento di proprietà non assiologiche e la loro distinzione da quelle assiologiche è frutto di un’attività esplicativa successiva” (p. 42). Staiti descrive con attenzione la prospettiva rappresentazionalista, soffermandosi sulla figura di R. Audi e sui possibili punti in comune con la fenomenologia. La cura descrittiva va di pari passo con la messa in evidenza, limpida e sintetica, di come la prospettiva fenomenologica sia in grado di rendere una descrizione più fedele dell’esperienza morale. Nel processo percettivo, infatti, non c’è una causalità che comporta il raddoppiamento dell’oggetto, il quale si manifesta come unità intenzionale: tra il soggetto e l’oggetto non si insinua la rappresentazione. L’oggetto non viene percepito come substrato di proprietà naturali e assiologiche, ma come già assiologicamente determinato. La fenomenologia, perciò, non deve rendere conto di come possiamo percepire proprietà assiologiche e proprietà naturali, la cui distinzione non è originaria bensì frutto di un’attività esplicativa. Per la fenomenologia la percepibilità delle proprietà assiologiche è garantita di principio. Rivalutando figure spesso trascurate, come quella di M. Geiger, Staiti procede con la sua disamina volta a far emergere il contributo della fenomenologia nel determinare lo status delle proprietà assiologiche.
La natura fenomenologica di questa pubblicazione emerge sempre più chiaramente anche grazie alla modalità stessa con cui l’autore porta progressivamente avanti la sua indagine, costellata da esempi ed esemplificazioni che per la fenomenologia sono terreno imprescindibile. Caratteristica distintiva di questo testo è la combinazione di precisione d’analisi e concreto materiale d’esperienza: il riempimento intuitivo ne è il criterio orientativo. Si è quindi di fronte ad un’indagine etica che parla di fenomenologia essendo essa stessa fenomenologica, il che è degno di nota pensando al dibattitto contemporaneo.
Il concetto di intuizione è, oltre a quello di percezione, l’altro concetto chiave del secondo capitolo: che cosa garantisce la correttezza della percezione? La percezione è corretta se il soggetto percepisce l’oggetto quale esso è, ossia lo intuisce. Staiti mostra come la prospettiva fenomenologica rappresenti un valido strumento per aiutare a districarsi tra impieghi tanto frequenti quanto vaghi del termine “intuizione”, sia nel linguaggio filosofico sia in quello comune.
Rivalutare la filosofia di Husserl significa, innanzitutto, chiarificarla e liberarla da erronee interpretazioni: per Husserl l’intuizione ha valore epistemico e dunque si configura come fonte legittima di conoscenza. Intuizione non è sembianza: l’intuizione indica che le cose stanno così, è “il culmine di un processo esperienziale, vale a dire il momento in cui un’intenzione raggiunge pienamente il suo obiettivo” (p. 63). L’intuizione è un modo specifico di datità relativo ad un sapere immediato in cui “vi è riempimento intuitivo di un’intenzione precedentemente vuota” (p. 67). Per la fenomenologia la nostra esperienza morale si basa su intuizioni a priori riguardanti la validità di certe proposizioni etiche, l’essenza di dati fenomeni etici, e dunque la connessione essenziale tra proprietà assiologiche e proprietà naturali. Essendo fonte di conoscenza, l’intuizione non necessita di ulteriori giustificazioni, il che non vuol dire negare che nel corso dell’esperienza possa accadere che una data intuizione venga falsificata. Riconoscere la falsificabilità dell’intuizione non significa però negarne la validità nel momento del vissuto.
Districarsi tra queste sottili distinzioni semantiche è fondamentale per tre motivi che vanno a costituire le principali qualità di questo testo: raggiungere l’obiettivo che l’autore si è posto in partenza (rendere conto della complessità dell’esperienza assiologica), svolgere un’indagine fenomenologica non solo a parole ma anche di fatto (e come disse Geiger, “la passione della fenomenologia è vedere le differenze”), mostrare come ogni indagine filosofica necessiti di un confronto dialettico con altre prospettive (motivo per cui, nello spiegare che cosa sia l’intuizione per Husserl, nel corso del secondo capitolo l’autore si rivolge al pensiero di Moore).
Il problema che a questo punto Staiti affronta nel terzo capitolo concerne la legittimità della connessione essenziale tra proprietà assiologiche e naturali, esperita intuitivamente, avallata dai fenomenologi, criticata dai naturalisti. Questi differenti approcci devono pur dialogare tra loro se si vuole giungere ad un risultato costruttivo e solido, come il testo in questione illustra. L’autore intende mostrare come la prospettiva fenomenologica inerente al rapporto tra proprietà assiologiche e naturali – tale per cui le prime sono fondate sulle seconde – possa essere interpretata alla luce della categoria, tanto impiegata nella filosofia contemporanea, di sopravvenienza. Quel che emerge come altro merito di questo testo è che Staiti specifica come la fenomenologia si interroghi su aspetti messi in ombra dalle accese discussioni contemporanee concentrate sulla sopravvenienza: essendo la sopravvenienza una relazione, prima di indagare la relazione stessa è necessario comprendere i due poli della relazione: che cosa sono le proprietà assiologiche e che tipo di oggetti sono quelli assiologicamente qualificati? In maniera tanto semplice quanto non scontata, Staiti segue l’appello husserliano di ritornare alle cose stesse: parlando di sopravvenienza, prima di parlare della relazione, dobbiamo parlare dell’essenza dei poli coinvolti. L’autore, essenzialmente, sta mettendo al corrente il lettore di un problema che può compromettere la qualità di ogni indagine filosofica: il dibattito e le categorie concettuali maggiormente impiegate sono in grado di pregiudicare la qualità della ricerca filosofica fino a giungere alla più totale semplificazione. Questo il motivo per cui l’autore spinge il lettore ad affrontare quesiti messi in ombra dal dibattito e dalle rispettive categorie concettuali maggiormente impiegate: che cosa sono le proprietà assiologiche (terzo capitolo) e che tipo di oggetti sono quelli assiologicamente qualificati (quarto capitolo)?
Il terzo capitolo risponde a questa domanda fornendo una chiara spiegazione delle tesi di Husserl: gli atti emotivi sono atti intenzionali in cui ci riferiamo a oggetti dei quali percepiamo le qualità assiologiche, e che sono fondati su atti oggettivanti. A partire da questo nucleo tematico, l’autore si sofferma sulla relazione strutturale tra atti oggettivanti e non-oggettivanti, interrogandosi sul senso specifico di fondazione insito in questa relazione: gli atti non-oggettivanti sono responsabili del riferimento intenzionale all’oggetto e contribuiscono alla costituzione degli oggetti rivelandone proprietà altrimenti inaccessibili, quelle assiologiche; gli atti non-oggettivanti non contribuiscono alla qualifica posizionale dei loro oggetti.
“Un oggetto ‘è ciò che è’ anzitutto indipendentemente dall’essere bello, buono ecc. Il predicato di valore presuppone un oggetto”: perché una simile citazione di Husserl difficilmente compare nei contemporanei dibattiti inerenti al rapporto tra fatti e valori? Perché ci si dimentica di Husserl quando si affrontano tematiche etiche da una prospettiva non fenomenologica? O si pensa che Husserl non abbia affrontato temi etici, il che è sbagliato, o si pensa, altrettanto erroneamente, che non sia possibile far dialogare un’indagine fenomenologica in ambito etico con altre prospettive filosofiche, come ad esempio il naturalismo. Con il suo libro Staiti cerca di smontare esattamente questo doppio pregiudizio, letale per ogni filosofia che voglia dirsi realmente tale.
Per Husserl, i valori sono qualcosa di oggettivo – motivo per cui Staiti cita anche Scheler – ma, a ben vedere, la loro rimozione astrattiva non incide in alcun modo sull’unità oggettuale, a differenza invece delle proprietà naturali, ossia quelle responsabili della preservazione dell’unità oggettuale stessa: conseguentemente, le proprietà naturali definiscono la natura di un oggetto e sono presupposte dalle proprietà assiologiche. A partire da questa tesi di Husserl, Staiti cerca di metterne in evidenza possibili fraintendimenti, prendendo in esame interpretazioni fornite da filosofi contemporanei – quali J. Drummond e S. Rinofner-Kreidl – e critiche rivolte ad Husserl stesso da parte di Heidegger e Scheler.
Il punto nodale è che le tesi di Husserl chiedono di essere comprese, non reinterpretate, e l’autore mette in luce le criticità di approcci che pretendono di reinterpretare senza comprendere. La comprensione che Husserl richiede per i propri testi non è immediata ma, come la fenomenologia insegna, si tratta di un’esperienza il cui senso coniuga evidenza e trascendenza. Fraintendere Husserl significa pensare che egli tematizzi le proprietà assiologiche come proprietà additive o causalmente legate a quelle naturali. Invece, seguendo Staiti, Husserl concepisce il rapporto tra proprietà naturali e assiologiche in termini di sopravvenienza ed intenzionalità. Husserl propone quindi un modello di fondazione che, secondo Staiti, funge da specificazione del concetto di sopravvenienza tale per cui le proprietà assiologiche sono sopravvenienti rispetto a quelle naturali. Leggere una simile asserzione senza farsi influenzare dal concetto di “grounding” della metafisica contemporanea o dalla prospettiva sulla sopravvenienza di R. Audi ha esattamente a che fare con il tentativo fenomenologico – e obiettivo di questo libro – di liberare il campo da pregiudizi di ogni sorta.
L’interpretazione fenomenologica del concetto di sopravvenienza ha il vantaggio, secondo Staiti, di metterne in luce la covarianza: “se varia la base di proprietà naturali, varieranno corrispondentemente anche le proprietà assiologiche” (p. 109); allo stesso modo, il cambio di prospettiva normativa implica la variazione di proprietà assiologiche e delle proprietà naturali salienti. Una simile simmetria non implica che si neghi il permanere di determinate proprietà naturali, dalle quali non è possibile astrarre senza compromettere il mantenimento dell’unità oggettuale. Affrontando questo tema, Staiti propone una descrizione particolarmente interessante: l’esperienza assiologica è a doppio senso. Da una parte abbiamo le proprietà naturali, che fondano quelle assiologiche e sono isolabili da queste tramite un esercizio di astrazione volto a comprendere come e quando l’unità oggettuale sia compromessa; dall’altra ci sono le proprietà assiologiche, che plasmano la nostra prospettiva normativa a partire dalla quale è possibile individuare le proprietà naturali ritenute rilevanti.
Rimane ora da affrontare l’altra faccia della medaglia: una volta chiarito il tipo di rapporto che intercorre tra proprietà assiologiche e naturali, che tipo di oggetti sono quelli assiologicamente qualificati? Staiti affronta un tale quesito nel quarto ed ultimo capitolo. Anche qui, come in precedenza, l’autore si appella alle tesi di Husserl (in questo caso al concetto di Satz) per restituirle senza fraintendimenti e applicarle alla dimensione etica. Nel portare a termine questo compito, Staiti prende in esame la posizione di Moore per fornirne poi, come per il concetto di sopravvenienza, un’interpretazione fenomenologica, che si basa su due punti cardine: “buono” non è predicato di oggetti ordinari, ma di posita, ossia di oggetti o stati di cose intesi e posizionalmente qualificati come esistenti; quando ci chiediamo se qualcosa è buono, non ci stiamo interrogando su particolari proprietà, ma ci stiamo chiedendo se il positum in questione riceva un riempimento intuitivo assiologico.
Quest’ultimo capitolo, altrettanto tecnico come i precedenti, si fonda su un’importante analogia – descritta dallo stesso Husserl – tra i predicati “buono” ed “esistente”. Nello spiegare questa tesi Staiti descrive i binomi “buono/cattivo”, “esistente/inesistente”, “bello/brutto” come declinazioni del binomio “vero/falso”. A seconda dell’ambito – pratico, teoretico o estetico – uno di questi binomi entra in gioco. Tuttavia, stupisce constatare come il primo di questi binomi venga ampiamente analizzato, il secondo affidato all’ultima sezione, il terzo quasi assente. Nella misura in cui questi tre binomi vengono posti su uno stesso piano, il lettore constata forse una sproporzione nell’analisi. Tale sottile sproporzione pare affiorare nella struttura stessa dell’ultimo capitolo, il cui legame con i precedenti capitoli risulta forse un po’ forzato e la cui conclusione sembra chiudere bruscamente l’intera disamina: l’excursus su Moore reinterpretato in chiave fenomenologica apre ad un nuovo ed interessante significato del predicato “buono” (impiegando questo concetto ci stiamo chiedendo se i valori morali evocati dalle proprietà che attribuiamo sono effettivamente dati intuitivamente) che sembra servire all’autore solo per mostrare la fallacia del pensiero di Moore e non, come forse sarebbe lecito aspettarsi dopo un’analisi fenomenologica così attenta e ben strutturata, per inaugurare una ricerca fenomenologica sul bene.
A prescindere da queste note a margine, il libro di Staiti costituisce un esempio di autentica fenomenologia che non rinuncia né al rigore filosofico né alla fedeltà nei confronti dell’esperienza. Queste due caratteristiche combinate offrono al lettore un quadro preciso inerente al rapporto tra una dimensione fondamentale della vita – l’etica – una corrente filosofica ampiamente diffusa e di supporto al predominio scientifico vigente – il naturalismo – e un atteggiamento filosofico spesso frainteso – la fenomenologia ed il pensiero di Husserl. Questo ritratto filosofico si contraddistingue per la pluralità di prospettive prese in considerazione – obiettivo autenticamente fenomenologico dell’autore è infatti la sola fedeltà all’esperienza assiologica, non la fedeltà ad una corrente filosofica – e la rivalutazione di Husserl quale filosofo etico, intrinsecamente interessato alla dimensione etica come componente essenziale del mondo della vita.

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