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101. Recensione a: Laura Candiotto, Giacomo Pezzano, Filosofia delle relazioni. Il mondo sub specie transformationis, il Melangolo, Genova 2019, pp. 163. (Riccardo Cravero)

Parlare di metafisica è più facile oggi che un tempo: dopo decenni di rigetto e rifiuto, soprattutto in ambito analitico, oggi numerosi studiosi si occupano senza mezzi termini di questioni metafisiche. Tuttavia, tale revival non sempre si concretizza in una produzione di testi aperti a nuove modalità di concepire le categorie metafisiche. In particolare, alcuni recenti sviluppi della metafisica analitica vanno nella direzione di una naturalizzazione delle metodologie metafisiche o di una stretta connessione tra ricerche logiche e metafisica.
Anziché seguire la strada tracciata da queste rivoluzioni metodologiche, il libro di Laura Candiotto e Giacomo Pezzano non mira a rivedere la metodologia della metafisica, bensì ridefinirne gli assunti concettuali. Gli autori infatti non fanno mistero, fin dalle primissime pagine del prologo, di voler assumere come bersaglio le metafisiche “sostanzialiste”, dove tale dicitura indica verosimilmente la maggior parte delle teorie metafisiche tradizionali. Tuttavia, non bisogna aspettarsi un libro critico, iconoclasta, bensì un saggio propositivo, composto da una pars construens assai più articolata di quella destruens. Tale parte propositiva sarà, come si evince dal titolo, imperniata sul concetto di relazione. Essa è definita da due fattori, messi in luce dagli autori stessi per introdurre il concetto: la relazione, metafisicamente intesa, non è una somma di enti dati singolarmente bensì è una dimensione precedente ai singoli enti. Inoltre, essa è dinamica, mutevole e non statica. Già da queste considerazioni emerge chiaramente il motivo per cui la relazione è sempre stata un problema per le metafisiche sostanzialiste da Aristotele in poi. Difficile da catalogare, non riconducibile ad una singola sostanza, la relazione elude ogni tentativo di ridurla a mera sommatoria di sostanze.
Gli autori notano bene come tuttavia tali assunzioni sostanzialiste sono tipiche di alcuni approcci alla metafisica ma non di tutti: in Occidente abbiamo alcuni scarni elementi relazionistici in alcuni pensatori pre-socratici mentre alcune influentissime tradizioni di pensiero orientali hanno sviluppato appieno tale posizione. Obiettivo dichiarato degli autori sarà mostrare come tale concezione dell’essere non sia affatto motivata da elementi linguistici o culturali orientali, ma sia anzi possibile per il pensiero occidentale appropriarsene. Per farlo, essi adottano una prospettiva metafisica, ovvero basata su una concezione delle relazioni come elementi reali, non meramente linguistici e logici. Sulla scorta di realismi scientifici alternativi come lo Ontic Stuctural Realism e sulla Process Philosophy di Whitehead, tale concezione fa della relazione l’architettura stessa del reale, non una cosa né una conseguenza delle cose bensì la struttura stessa pre-determinante le cose e gli oggetti. Il richiamo ad una concezione fisica, naturalista della relazione non implica tuttavia un allontanamento dagli sviluppi delle logiche non classiche, che hanno da tempo ridefinito alcuni cardini del pensiero occidentale. Da questa prima carrellata di prospettive emergono quindi almeno due paladini della metafisica relazionale: Gilles Deleuze e l’Ontic Structural Realism.
Nella prima delle loro riflessioni, i due autori criticano le concezioni logico-metafisiche che hanno per lungo tempo ricondotto la relazione a proprietà di una sostanza. In quest’ottica, era utile distinguere tra relazioni interne (necessariamente contenute in una sostanza) e relazioni esterne (contingenti). Ma a ben guardare, anche questi autori sostanzialisti si sarebbero resi conto che le relazioni interne sono ben più di semplici proprietà della sostanza, essendo esse il fondamento stesso della cosa in questione. In particolare, sarebbe opportuno ritenere le sostanze degli insiemi di relazioni stabilizzate per fini pragmatici, in quanto utili per interagire stabilmente con il mondo intorno a noi.
Ma la critica dei due autori non si ferma alle metafisiche tradizionali, poiché investe una più ampia questione: la filosofia sembra affetta da una decisa nostalgia per l’unità, per la ricomprensione dei singoli divisi in una sintesi unificante. La relazione non fa questo, anzi. Essa non unisce, ma separa ed identifica, è individuante e non individuale, rende diviso ciò che pone in relazione. Essa non ricompone ma riesce a distinguere senza dividere. La relazione è “diabolica”, in quanto, a differenza del sim-bolico, il dia-bolico divide anziché rendere tutto Uno. Ma a differenza del tentatore biblico, il diabolico nella relazione unisce in un reciproco rapporto anche ciò che distingue. Ne consegue ad esempio che molte categorie socio-economiche possono essere riviste: dall’idea di gerarchia, ora privata del suo autoritarismo in virtù dell’individuazione reciproca che distingue senza subordinare fino alla riflessione (con eco simmeliane) sul ruolo della relazione nello scambio monetario, molti sono i casi considerati dai due autori.
Il Capitolo II si apre con una collocazione storica della propria riflessione e una disamina dello stato dell’arte di diversi ambiti di ricerca. Dopo anni di individualismo tipico di certa filosofia moderna, il ‘900 filosofico si è configurato come il secolo dell’Altro; il periodo recente ha visto un fiorire di teorie relazionali in filosofia della mente (con l’enattivismo), nella riflessione interculturale (andando oltre l’idea che le culture fossero entità statiche), nella teoria sociale (andando oltre la dicotomia individualismo/olismo). Diverso è il discorso riguardante la fisica contemporanea: ammirevolmente i due autori si mantengono cauti nel sostenere per motivi puramente filosofici una teoria fisica relazionista, pur sapendo che esistono nel dibattito scientifico varie opzioni in questo senso. La scienza deve fare il suo corso, immune da preferenze metafisiche. D’altronde, la forza della metafisica relazionale non verrebbe sminuita se si affermassero visioni sostanzialiste, poiché essa si applica efficacemente a molti contesti e non verrebbe resa inutile da una sua demolizione in ambito fisico.
A questo punto, pare legittimo al lettore, e così anche a Candiotto e Pezzano, chiedersi in che modo sia possibile avere relazioni tra cose prima delle cose stesse. O meglio: dove stanno le relazioni? La risposta, a primo avviso spiazzante, dei due autori è che esse stanno contemporaneamente prima delle cose (ante rem) e nelle cose (in re), così che non si danno relazioni trascendenti ed eterne né si torna a considerarle semplici conseguenze delle cose. Esse sono ante rem in quanto, come abbiamo visto, sono l’elemento individuante delle cose stesse, ma al contempo esse sono originate dalle strutture di disposizione delle cose stesse, emergono direttamente dal “tra” le cose. La relazione non è un’idea platonica, “calata” dall’alto sui fenomeni, bensì è immanente alle situazioni concrete, dato che non esiste prima che esse si manifestino. Un esempio squisito dei due autori: immaginando una persona, Ludovica, nella sua identità biologica e socioculturale, non potremmo desumere da quanto sappiamo (immaginando di avere in mente tutti gli elementi che ne compongono l’eredità biologica e sociale) ciò che la renda proprio Ludovica. È il modo in cui tali elementi stanno insieme, la struttura organizzativa che informa la loro disposizione in Ludovica a creare la sua personalissima identità. Prima degli elementi singoli, dunque, troviamo sempre una relazione. E se si parla di idee, appare evidente che non si è per niente platonisti. Anzi, ci si addentra durante la lettura in un platonismo immanentizzato, invertito, aperto all’idea che le idee possano nascere cum rebus.
Per motivi di spazio, non è possibile trattare nel dettaglio ognuno dei paragrafi (brevi ed incisivi) del libro, ma penso che valga la pena ricordarne almeno qualcuno. Per primo, quello in cui si saldano insieme il concetto di relazione e quello di limite. Il limite, inteso come tensione verso qualcosa e non come confine definito, è infatti il fulcro della relazione, ovvero il punto in cui, nella relazione tra enti, un ente non può andare oltre senza cambiare ciò che è (e la relazione stessa). Approfittando sapientemente (e con una buona dose di ironia) della nuova punteggiatura diffusa dai media digitali, gli autori propongono di assumere come figura del limite non il punto (spazializzato e definito) ma l’hashtag, in quanto esso è simbolo di aggregazione e selezione di materiali che accomunano o distinguono diverse persone. Proprio questa nuova concezione del limite sferra un duro colpo alla teleologia fissista aristotelica, aprendosi invece ad una concezione del mutamento non prefissata ma dinamica e plurale nei suoi esiti. Ciò che otteniamo, pensando le soglie e i limiti non come confini ma come passaggi, è un mondo sub specie trasformationis. Se è utile considerare a certi livelli le cose come componenti del reale, è altrettanto importante riconoscere che a livello più profondo esse sono in realtà processi, relazioni.
Allo stesso tempo, come spiegato in un altrettanto illuminante paragrafo, è utile rivedere le categorie di causalità che utilizziamo. Non solo perché in alcuni campi di ricerca scientifica essi faticano a rendere conto dei fenomeni osservati, ma anche perché sono direttamente collegati alle opzioni metafisiche oggetto/relazione. Se è una valida scelta servirsi di concetti “classici” di causalità nella vita quotidiana, essi tuttavia non vanno assunti né come validi per tutti i domini del reale né in rapporto di mutua esclusione con altre categorie: se anche ammettiamo che esistano solo relazioni, ciò non toglie che sia lecito (e utile) considerare le cose come reali ed effettive in molti settori della nostra vita.
Gli ultimi paragrafi trattano di alcune trasformazioni rilevanti sia per la scienza che per la nostra quotidianità, come nuove concezioni della temporalità e dell’interdipendenza. A tale proposito, basti affermare che essi rappresentano una vera e propria palestra per le categorie astratte fin qui elaborate, un contesto in cui si dispiega realmente il potenziale innovativo di questi ripensamenti concettuali.
Arriviamo dunque alle ultime pagine di questo denso itinerario, trovandoci di fronte a un capitolo inequivocabilmente programmatico, tanto da essere intitolato “Manifesto del Nuovo Realismo delle Relazioni”. Fedeli alla loro vocazione relazionista, per cui ciò che conta sta sempre “tra” altre cose, anche qui la proposta dei due autori si configura come una mediazione tra estremi. Se da un lato abbiamo il portato più discutibile e deleterio della svolta linguistica, dal lato opposto abbiamo invece i vari nuovi realismi, capitanati da Maurizio Ferraris. Candiotto e Pezzano non rifiutano la nuova ventata di realismo che da quest’ultimo giunge, ma obiettano al carattere sostanzialista, cosale, di tale realismo. Perché realismo vorrebbe dire tornare a considerare le cose come reali? Il punto problematico qui ovviamente è l’accento sulle cose, non il realismo. Perché, concludono gli autori, non inaugurare invece un realismo che parta dalle strutture, dalle relazioni? Perché non modificare il nostro linguaggio, sostanzialista, per avere nuovi modi di concepire il mondo? La proposta di Candiotto e Pezzano è alla fine quella di un “esperimento”: vivere come se il mondo fosse fatto di relazioni e vedere cosa succede, nella consapevolezza che nuovi modi di concepire il mondo possono avere effetti trasformativi sulla nostra vita.
In definitiva, il libro di Candiotto e Pezzano si presenta come un testo di grande interesse per chi è consapevole del ruolo importante che le categorie concettuali, anche se astratte e metafisiche, svolgono nel dare forma alle nostre vite. Tramite una puntale e a volte assai ironica disamina di alcuni fondamentali ripensamenti dei nostri strumenti di pensiero classici e di alcuni loro ambiti di utilizzo, dalle scienze naturali a quelle sociali, dall’intrattenimento quotidiano alle relazioni interpersonali, i due autori mostrano l’impatto trasformativo delle nuove teorie relazionali. Il dialogo con tradizioni filosofiche diverse è limpido e fecondo, senza forzature né contrapposizioni. I due autori attingono a diversi bacini filosofici, ma tale pratica non appare mai forzatamente irenica o inadeguata.
Ovviamente, il lavoro di Candiotto e Pezzano è frutto di una selezione di autori: la scelta di operare una commistione tra Ontic Structural Realism e Deleuze è vincente, ma è una delle molte possibili. Ad esempio, sarebbe possibile l’inserimento di autori come William James e Georg Simmel, in cui la relazionalità è, se non già esplicitamente teorizzata, quantomeno presente in nuce. Altra feconda incursione sarebbe stata quella nella sociologia della conoscenza, che avrebbe potuto mostrare come la relazionalità del reale sia elemento fondante della costruzione sociale del mondo intorno a noi. D’altronde, il taglio metafisico del libro lo pone su un piano più astratto e concettuale di quello appena delineato. È non è certo compito degli autori farsi carico di ciò che invece andrebbe raccolto dai lettori come un invito ad applicare dove serve i potenti strumenti concettuali che essi offrono. In definitiva, come ricordava John Dewey, quel che facciamo per saggiare una proposta è sempre in un certo senso, sperimentale, e consiste nel mettere l’altro nelle condizioni di esperire lo stato di cose da noi teorizzato, nel costruire un “esperimento di vita” e nel lasciare che sia l’altro a riprodurne l’effetto. L’esperimento di Candiotto e Pezzano in definitiva è proprio questo: provare a pensare ad un vantaggio intrinseco nel concepire il mondo come sub specie transformationis, un mondo fatto non di cose ma di relazioni.

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