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149. Recensione a: Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung zur Krisis der philosophischen Grundlagen der Neuzeit, hrsg. von Nicola Zambon, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2022, pp. 378. (Piero Carreras)

Sono passati più settant’anni da quando Hans Blumenberg ha discusso la sua tesi di dottorato, Die ontologische Distanz, all’Università di Kiel. È un’ironia degna di una delle sue vignette filosofiche il fatto che ci sia voluto quasi un altro intero tempo della sua vita prima che questo testo venisse pubblicato. La curatela di Nicola Zambon, che arriva a due anni di distanza dalla pubblicazione della tesi magistrale (H. Blumenberg, Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2020), rende finalmente accessibile un testo di cui esistevano solamente i dattiloscritti d’archivio, le cui copie da ormai diverso tempo circolavano di soppiatto nelle mani di alcuni studiosi. Prima d’ora, le uniche informazioni su questo testo erano mediate dagli interpreti (tra cui le letture molto diverse di K. Flasch, Hans Blumenberg Philosoph in Deutschland, Klostermann, Frankfurt a.M. 2019, pp. 161-204, e R. Zill, Der absolute Leser: Hans Blumenberg. Eine intellektuelle Biographie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2020, pp. 440-451), mentre questa nuova edizione presenta non solo il testo, ma anche le varianti significative di una stesura intermedia (pp. 287-340).
Questo lavoro risulta atipico rispetto alla produzione successiva di Blumenberg: la teoresi si esprime in un linguaggio ostico ed ermetico, e manca quella sterminata erudizione che rende possibili le digressioni che contraddistinguono la produzione matura. Ma è la lontananza tra questo testo e i successivi che suggerisce, per affrontarlo, di ripercorrere alcune delle distanze che lo attraversano, che corrispondono grossomodo al suo contesto, alle sue proposte e agli sviluppi successivi.
Uno dei temi ricorrenti è la contrapposizione tra la fenomenologia di Edmund Husserl e la filosofia di Martin Heidegger, qui presente soprattutto come pensatore dell’Essere. Questa divisione riflette in qualche misura la doppia ascendenza dei relatori: Walter Bröcker, il correlatore con cui il giovane Blumenberg entrò in contrasto, fu assistente di Heidegger; molto più rilevante è però la figura del Doktoratvater Ludwig Landgrebe, che aveva già seguito la tesi magistrale e del quale Blumenberg divenne assistente durante gli anni del dottorato. Tra gli assistenti di Husserl, Landgrebe è quello che ha ricevuto la minore attenzione. Solitamente, il suo ruolo viene relegato a quello di curatore di Erfahrung und Urteil, ma sotto di lui si formarono diverse generazioni di fenomenologi. Blumenberg non è stato solo uno dei suoi primi allievi, ma è senza dubbio il più atipico: giova però notare che, pur nella totale autonomia intellettuale rispetto al maestro, egli sembra aver ereditato da Landgrebe una certa sensibilità tematica, come la visione di un divenire storico non lineare e l’attenzione alla dimensione antropologica e del mondo della vita. Del resto, egli stesso in una lettera in cui si lamenta di Bröcker (riportata a p. 365) afferma il suo legame con l’insegnamento della scuola di Landgrebe. Si tende a fare poca attenzione al fatto che, nello stesso 1947 in cui Blumenberg cominciò il proprio dottorato, Landgrebe avesse pronunciato la prolusione per l’inizio dell’anno accademico (il cui testo confluirà in Phänomenologie und Metaphysik, Marion von Schröder, Hamburg 1949). Nella prolusione, Landgrebe affermava la necessità di una rifondazione su basi fenomenologiche della metafisica, intesa come “ciò che ricorda all’uomo il suo legame con l’ordine” dell’Essere: il lavoro di Blumenberg accetta la sollecitazione del maestro, ma i suoi risultati sembrano condurlo in una direzione diversa. La “distanza ontologica” è una linea guida per studiare la crisi dei “fondamenti filosofici della modernità” (come recita il sottotitolo della copia del Nachlass) che significa anche un’analisi della crisi della fenomenologia di Husserl, come invece riporta la variante conservata a Kiel (p. 349). Per poter analizzare questa crisi, occorre tornare all’origine della modernità stessa (p. 12): tuttavia, più che rifondare la metafisica su basi fenomenologiche, Blumenberg vede nella fenomenologia non l’antidoto alla crisi dei fondamenti della modernità, ma un sintomo del suo acutizzarsi. Nella drammaturgia storico-filosofica (espressione del curatore, p. 350), la fenomenologia di Husserl è ciò che ha portato a compimento il cartesianesimo (p. 38). La crisi di cui è questione in queste pagine è la messa in dubbio dei fondamenti (Grundlagen) che erano stati dati per scontati (Blumenberg varia il termine Selbstverständlichkeit, che rimanda al mondo della vita) nella costituzione del pensiero filosofico moderno, che ne ha messo in dubbio il terreno di verità (Wirklichkeitsboden).
Questo è avvenuto perché il metodo nato con Descartes, inteso come uno strumento per ottenere una topografia della significatività dell’esperienza (p. 222), ha portato ad astrarre dal pensiero la sua dimensione storica. Stando a Blumenberg, c’è una sorta di conflitto tra due figure dell’Aufklärung: se la storia è “l’orizzonte temporale dell’universo dell’oggettualità (Gegenständlichkeit)”, “titolo di quell’esperienza fondamentale (Grunderfahrung) con la quale il progetto della coscienza illuminista (Gewissheitsentwurf der Aufklärung) ha rotto” (p. 135), essa stessa è una forma d’illuminazione (giocando sull’ambiguità semantica di Aufklärung) in cui il piano fondamentale dell’Essere (Grundplan des Seins) assume chiarezza (p. 171). Occorre quindi tornare a radicare la comprensione filosofica sul suolo della storia: se il “titolo ontologico dell’Essere essenzialmente storico e presente è il Mondo” (p. 173), la filosofia moderna e la fenomenologia, sopprimendo la dimensione storica, hanno perso un pezzo considerevole del proprio oggetto di studio. A ben vedere, uno dei motivi della crisi sembra essere proprio questa tensione tra due modalità dell’illuminismo, quella metodico-filosofica e quella del divenire storico.
Nel caso della fenomenologia, il nucleo del suo metodo è la riduzione, il cui naufragio (Scheitern) deriverebbe proprio dal suo condurre il pensiero oltre la dimensione storica (p. 251), riconfermando quella separazione tra storia e coscienza tipica della modernità.
Inoltre, la fenomenologia è costretta ad abbandonare il suo stesso metodo per riuscire ad affrontare due problemi interconnessi sull’oggettività del mondo: la costituzione passiva evidenzierebbe infatti la criticità del concetto di orizzonte del mondo (Welthorizont, p. 231) che, nell’interpretazione di Blumenberg, è troppo “singolarizzato”. Husserl sarebbe allora costretto a ricercare una garanzia di realtà fondandola sull’intersoggettività, che però viene riguadagnata attraverso un’estrapolazione che può avvenire solo fuori dal proprio stesso metodo. Estraneità dell’altro ed estraneità del mondo si compenetrano (pp. 239-241), ed esacerbano il problema del fondamento nella filosofia moderna facendo emergere le difficoltà del metodo fenomenologico. Su questi stessi argomenti, Blumenberg farà leva anche nell’ultima delle sue grandi opere, Höhlenausgänge (Uscite dalla caverna, Medusa, Milano 2009, pp. 539-553).
La “distanza ontologica” di cui viene ricostruita la storia non riceve mai una definizione univoca. È un concetto operativo, che funge da asse sul quale andare a ricostruire una serie di problematiche di fondo del pensiero: essa viene posta come una delle dimensioni fondanti l’“oggettità” (Gegenständigkeit), che permane anche laddove va a crollare la distinzione interno-esterno come suolo (Boden) dell’Essere (p. 192), uno scarto tra due poli che, nella modernità, si sono condensati in soggetto e oggetto. C’è però un paradosso nella formulazione di Blumenberg: se egli dice esplicitamente che la “distanza ontologica è una possibilità storica” (p. 46), quindi un elemento contingente, in realtà essa viene contemporaneamente posta in uno snodo antropologico fondamentale, ovvero il mito inteso come ciò che depotenzia l’angoscia (Angst) in paura (Furcht) gestibile (p. 62); possiamo notare di passaggio che per la teoria del mito sviluppata nella maturità manca ancora l’assimilazione di Ernst Cassirer, qui assente. La distanza è ciò che contribuisce a guadagnare uno spazio vitale contro la “realtà onnipotente” (übermächtige Wirklichkeit), in cui possiamo vedere uno dei germi del tema dell’assolutismo della realtà (Absolutismus der Wirklichkeit) presente in molta della produzione matura. Sembra allora che nella distanza coesistano aspetti contingenti derivati da una storia che avrebbe potuto essere altrimenti, e aspetti trascendentali, ovvero il fatto che sia questa stessa distanza, una volta concretizzatasi come possibilità, ad aver creato il campo dell’esperibile.
Se alcuni di questi elementi sono, grazie alla distanza temporale, riconoscibili, come germinali per il suo percorso intellettuale, questo testo, in maniera molto problematica e facilmente fraintendibile, è anche alla base dell’allontanamento da Heidegger. In realtà, in questa sede la questione è ambigua, aggravata dalla frequenza degli stilemi heideggeriani a cui il giovane autore ricorre di continuo. Sviluppando uno spunto del curatore (p. 359), va infatti notato che esiste una distanza fondamentale tra Blumenberg e Heidegger, che sembra quasi sdoppiato nel testo.
Blumenberg cita spesso da Sein und Zeit e dai saggi che verranno raccolti in Wegmarken, in cui Heidegger si mostra come il pensatore che ha ricondotto il pensiero moderno a un radicamento nella storicità. Tuttavia, questo è accompagnato in Heidegger da una visione normativa nei confronti di una comprensione originaria dell’Essere e una visione del divenire storico della filosofia come una storia del nascondimento di questo senso originario. Questa lettura viene esacerbata in Holzwege, testo che venne pubblicato poco prima della consegna dello scritto di abilitazione di Blumenberg: non è un caso che le critiche a questo lavoro siano concentrate nell’introduzione e nell’ultimo capitolo. Se l’avversione all’idea di una storia monodirezionale già presente in Landgrebe era stata sviluppata da Blumenberg nella tesi magistrale, in cui contro Heidegger intendeva mostrare una dimensione di originarietà del pensiero medievale, nella tesi di dottorato Blumenberg arriva a vedere nel pensiero di Heidegger la base per una nuova crisi. Per Blumenberg, “l’epoca non sorge da un ‘passo successivo’ di un processo storico (Geschichtsverlaufes) lineare in una differenza graduale rispetto al precedente, ma sgorga da una svolta che l’intero dell’Essente compie nel suo Essere” (p. 16): l’unità di senso (Sinneinheit) di un’epoca deriva dal suo fornire una preformazione dei suoi elementi, un processo epigenetico contingente (p. 149) che rimanda a un divenire costante. I numerosi sarcasmi sull’Essere e sulla sua storia che Blumenberg ha disseminato nella sua opera successiva servono allora anche a riconfermare la sua distanza, il proprio “aver smaltito la sbornia” giovanile dell’Essere (l’espressione è in H. Blumenberg, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998, pp. 53-57). Questa presa di distanza inizia già nell’ultima pagina del testo, in cui Heidegger viene accusato di avere eccessive pretese nei confronti del linguaggio, finendo con rischiare di creare una nuova crisi causata da un pensiero da esso sovraccaricato (p. 285).
A ben vedere, c’è una differenza fondamentale nell’orientamento che i due filosofi vedono nella storia del pensiero filosofico: quello di Heidegger è un pensiero ricco di curvature. La metafisica occidentale è stata un allontanamento da un campo originario del pensiero che deve fare da guida della riflessione: esiste un luogo in cui poter tornare, ciò che nei testi del tardo Heidegger verrà nominato come “patria” (Heimat). Al contrario, la storicità della filosofia per Blumenberg è una traiettoria la cui direzione è molto più aleatoria: questo diventerà però molto più evidente nei testi della maturità, volti anche a far emergere le molteplici direzioni che una singola tematica può assumere.
Esistono almeno due motivi per cui la pubblicazione di Die ontologische Distanz è importante: innanzitutto, dal punto di vista degli studiosi di Blumenberg, questa edizione mette a disposizione il più grosso tassello mancante della produzione dell’autore. Ma questo lavoro è anche utile come immagine dialettica di cosa significasse occuparsi di fenomenologia nel secondo dopoguerra. Blumenberg, per quanto “eretico”, è un discendente diretto della grande tradizione fenomenologica di Husserl e Heidegger, ed ebbe modo di maneggiare alcuni inediti husserliani che si fece inviare direttamente da Leo van Breda. La stessa Krisis di Husserl, che sembrerebbe la base della critica di Blumenberg, era un testo estremamente raro, di cui all’epoca esisteva solo l’edizione di Belgrado del ’36, e il volume della Husserliana uscì solo nel 1954. Il testo appariva, all’epoca, come un lavoro di ricerca a partire da materiali non scontati. Eppure, mentre la tesi magistrale ottenne la dignità di pubblicazione, salvo arenarsi nelle trattative, questo testo finì da subito archiviato. Ma è anche dai frammenti del naufragio di questo lavoro che Blumenberg arriverà a costruire il proprio pensiero successivo, nella distanza temporale e concettuale da questo testo.

(8 maggio 2023)

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