martedì , 16 luglio 2024
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152. Recensione a: Giorgio Agamben, L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, Einaudi, Torino 2022, pp. 184. (Chiara Vita)

Il saggio di Giorgio Agamben L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, è un’indagine genealogica sulle dicotomie su cui si regge la tradizione ontologica dell’Occidente: essenza-esistenza, possibilità-realtà, potenza-atto. Ad essere messi in questione sono i presupposti del pensiero, quelle categorie attraverso le quali si è detto e si è pensato la realtà e oltre le quali la realtà non è né dicibile né pensabile. Sostare ai confini del pensiero: è questa la sfida che, dunque, il testo lancia al lettore. Sostare in un terreno che, sotto gli urti di una critica radicale, vacilla e si sgretola. Non si può accettare questa sfida se non si è pronti a sentirsi mancare la terra sotto i piedi e a sospendere la logica usuale delle parole e dei concetti.
Accedere al testo è senza dubbio arduo. Agamben, nel tentativo di risalire all’origine e allo sviluppo dei concetti ontologici presi in esame, passa attraverso molti luoghi della tradizione filosofica occidentale tracciando un percorso tortuoso, che il lettore non può intraprendere senza il rischio di perdersi. Manca, infatti, la bussola che dovrebbe orientarlo: il punto di vista del filosofo, che potrebbe rappresentare quel fil rouge che lega i diversi temi e ne fa comprendere la ragione di fondo, non viene mai spiegato esplicitamente ed esposto sistematicamente, ma fa capolino di tanto in tanto, tra una teoria e un’altra, sotto forma di frasi frammentarie e lapidarie. Per cogliere l’intenzione profonda del testo e seguirne la trama bisogna, dunque, innanzitutto, tenere presente la sua cornice teorica: il nesso tra ontologia e politica.
La politica ha, per Agamben, un fondamento ontologico: dal modo in cui l’essere è pensato e detto dipende il modo di abitare dell’uomo nel mondo. «L’ontologia non è […] un’astrusa escogitazione senza rapporti con la realtà e con la storia: essa è, al contrario, il luogo in cui si prendono le decisioni epocali più gravide di conseguenze» (p. 54). Alla luce di ciò, non si può ripensare la politica senza metterne in discussione i presupposti ontologici. Il testo, dunque, nonostante si muova nel campo dell’ontologia, ha una natura intimamente politica che rischia di essere minimizzata o, addirittura, passare inosservata ad una lettura inesperta e disattenta.
Per mettere a fuoco l’intero saggio bisogna, quindi, prima di tutto, domandarsi qual è la questione politica in gioco. Nel tempo del tramonto della politica, in un tempo in cui gli ideali e il conflitto – ovvero la condizione d’esistenza della politica – sono stati appiattiti sull’economico e, svuotati del loro contenuto rivoluzionario, dell’altrimenti, si ritrovano ad essere nient’altro che mezzi di riproduzione dell’ordine esistente, c’è ancora uno spazio propriamente politico? Su quale terreno può essere fondata una politica autentica? Come essere ancora politicamente efficaci?
È nelle ultime pagine della “Soglia”, la sezione posta in apertura del saggio, che il lettore, seguendo l’interpretazione agambeniana del Frammento teologico-politico di Walter Benjamin, può trovare una risposta a questi interrogativi. Alla luce della lettura del testo benjaminiano, Agamben individua la causa del fallimento delle ideologie moderne e trae dalla loro esperienza un importante monito politico: un’azione può essere davvero rivoluzionaria solo se non cade nella trappola della logica mezzo-fine, solo se non si rapporta ai concetti messianici – quali la società senza classi e la rivoluzione – come ad un suo obiettivo. Questi concetti, infatti, scesi a compromessi con la storia, perdono la loro energia distruttiva. Lo spazio in cui questa energia si disperde è quello del transitus de potentia ad actum: come fare di queste possibilità storiche una realtà? È nel pensiero di questo “come”, cioè nella progettualità politica, che consiste la causa del fallimento dei grandi ideali. Il progetto, infatti, non ha altri strumenti per pensare alla realizzazione delle idee se non quelli che la realtà già in atto gli offre: ogni progetto intercetta e si incarica di portare a compimento quanto, sebbene solo in potenza, è già inscritto in ciò che esiste. Il progetto, dunque, non è mai propriamente rivoluzionario perché, lavorando alla realizzazione di possibilità che seguono le medesime logiche di ciò che è già in atto – in quanto insite al suo interno –, non può far altro che «riprodurre in nuove forme l’ordine esistente» (p. 13). Un concetto messianico agisce efficacemente nel profano solo mantenendosi in esso irrealizzabile. Nessun progetto può realizzare una possibilità storica autentica perché in essa non c’è nulla da realizzare: quella possibilità è già reale e, quindi, può agire «sull’accadere storico che si è pietrificato nei fatti come un termine (Ende), cioè spezzandolo e annichilendolo» (p. 14). È solo abbandonandosi alle pure possibilità, alla potenza, che le azioni, aprendosi al totalmente altro, a ciò che non è pensabile fino ad un attimo prima che accada, all’evento, possono davvero conservare la propria efficacia politica ed essere destituenti. Per tornare alle domande da cui siamo partiti, la possibilità di un’autentica politica è custodita solo nell’irrealizzabile.
È proprio in vista di una politica dell’irrealizzabile che questo saggio sceglie come bersaglio polemico il concetto di realizzazione individuando in esso una certa contraddittorietà: la realizzazione si risolve inevitabilmente nel suo contrario, l’abolizione. Fare del compimento di idee politiche il risultato di un processo di realizzazione significa, dunque, decretarne la dissoluzione. Questo perché – e lo vediamo bene nella storia dello spirito hegeliano – la logica su cui si regge la realizzazione è quella della continua abolizione della realtà che, in quanto manchevole e insufficiente rispetto al fine ultimo da realizzare, deve essere costantemente superata. Questo incessante superamento lascia sfuggire di mano la chance rivoluzionaria insita in ogni momento storico e fa disperdere la potenza di quelle idee politiche che sono già in atto in tutte le azioni che le mettono in gioco e che, quindi, non hanno bisogno di alcun processo di mediazione. Una politica fondata sulla realizzazione, dunque, è inefficace; la sua azione rischia di essere paralizzata da quei fini che avrebbero dovuto animarla: non può agire sulla realtà presente, che non è ancora pronta al compimento dell’idea, un’idea che, dilazionata al termine di un processo, finisce per dissolversi. È quanto accade nel racconto kafkiano Lo stemma cittadino: l’obiettivo di costruire la grande Torre di Babele, rimandato di generazione in generazione, finì per non essere mai realizzato e rivelarsi solo un’illusione. Al carattere illusorio di una politica fondata sulla realizzazione, Agamben allude sin dalle prime righe del testo spiazzando il lettore e, al tempo stesso, facendogli intuire immediatamente in che direzione si sta muovendo: «Se nella modernità la politica e l’arte definiscono la sfera in cui le illusioni agiscono con più forza, non stupisce che proprio in questi ambiti il lessico della realizzazione trovi il suo massimo dispiegamento» (p. 5).
La realizzazione è legata all’abolizione non solo nel senso dell’attendismo politico – per cui in ogni processo di realizzazione l’attimo in cui la potenza del messianico è già in atto deve negarsi e superarsi sino al dissiparsi di quella potenza – ma anche in un secondo senso che sta a fondamento del primo: la realizzazione finisce per disfare la natura delle cose. «La realtà è oggi in ogni ambito disfatta dai processi di realizzazione che dovrebbero assicurarne la consistenza» (p. 78), scrive Agamben. La realizzazione, infatti, dando una forma alle cose, ne traccia i confini e, al tempo stesso, rimuove tutto ciò che resta al di fuori di essi. Ciò che viene realizzato assume la forma di ciò in cui viene realizzato e, dunque, perde la sua potenza originaria. Ne era consapevole Marx: «il diventar filosofico del mondo è, nello stesso tempo, il diventar mondana della filosofia e il suo realizzarsi è, insieme, il suo perdersi» (p. 6). Ne era consapevole Platone al quale – seguendo l’interpretazione foucaultiana della Lettera VII – Agamben attribuisce l’idea secondo la quale la dynamis filosofica e quella politica devono coincidere nella stessa persona, il re, senza tuttavia realizzarsi l’una nell’altra: la filosofia, per mantenere la sua forza, deve «farsi […] custode della propria irrealizzabilità» (p. 12). Ne può essere consapevole lo stesso lettore se guarda a cosa è accaduto ai grandi ideali politici, per esempio alla libertà: il motore delle rivoluzioni di fine ’700, oggi pienamente realizzatosi nelle moderne democrazie, ha perso la sua forza sovversiva e, dunque, come lo spirito assoluto di Hegel, non può far altro che contemplare se stesso e vivere del ricordo di ciò che è stato. Pensando con Agamben, potremmo dire che, se oggi c’è ancora uno spazio per la libertà autentica, non è, sicuramente, quello dei diritti costituzionali, ma di forme di vita che sono già immediatamente libere e in cui, quindi, la libertà non deve realizzarsi ma è già reale, di gesti che sono pura manifestazione di libertà nella loro «compiuta incompiutezza» (Per un’ontologia e una politica del gesto, p. 5).
Messe a fuoco le questioni decisive del saggio, è possibile tentare un’interpretazione del titolo – che non viene mai esplicitamente spiegato da Agamben – a partire dall’espressione che, forse, nonostante le considerazioni svolte, rischia di apparire ancora oscura: che cosa si intende con “politica dell’ontologia”? Una politica dell’ontologia è una politica consapevole del suo statuto ontologico. È, infatti, solo a partire da questa consapevolezza che, secondo Agamben, la politica può mettere in discussione i suoi presupposti, come quello di realizzazione, e trovare per sé uno spazio altro rispetto alla tradizione ontologica occidentale. D’altronde, «se la politica sembra oggi attraversare una durevole eclissi, […] ciò è perché, nella misura stessa in cui perdeva coscienza del proprio rango ontologico, essa ha omesso di confrontarsi con le trasformazioni che ne hanno progressivamente svuotato dall’interno categorie e concetti» (Mezzi senza fine, p. 6). Se la politica vuole essere autentica, deve anche essere ontologica. La condizione di possibilità di una nuova politica è, dunque, rappresentata da una nuova ontologia. Ma quale ontologia?
Agamben prova a «pensare l’esperienza e la conoscenza del mondo altrimenti che attraverso un’improbabile scissione […] tra possibilità e realtà e fra essenza ed esistenza» (p. 58), altrimenti, quindi, rispetto all’ontologia occidentale che su questa scissione si è fondata e che, a partire da questa scissione, ha pensato la realtà in termini di realizzazione. Proprio da questo tentativo prende le mosse l’intero testo che da una parte ricostruisce la genealogia del concetto di realizzazione (a partire dall’etimologia del termine e dall’analisi del contesto in cui è sorto, passando sia attraverso la filosofia aristotelica, che ha prodotto la separazione tra possibilità e realtà, sia attraverso l’argomento ontologico, in cui si è tentato di ricomporre quella frattura) e dall’altra va alla scoperta di quei luoghi del pensiero a cui, secondo Agamben, bisogna tornare per pensare un’altra ontologia, come la filosofia di Bergson secondo il quale «l’idea […] dei possibili che si realizzerebbero per una sorta di acquisizione di esistenza, è […] una pura illusione» (p. 66), come il Kant dell’Opus postumum e del «fenomeno del fenomeno», come la chora di Platone e il sensorium Dei di Newton. L’altra ontologia si fonda sull’idea, come recita il titolo del capitolo terzo, che «il possibile è già reale» (p. 61). La nuova ontologia è, dunque, un’ontologia che, contro la scissione tra potenza e atto e, soprattutto, contro la priorità ontologica dell’atto sulla potenza, riconsegna le cose al loro essere potenziale, alla totalità delle loro possibilità, che non possono essere esaurite in un vissuto, in un’essenza, in un’identità. La cosa consegnata alla sua potenza è l’irrealizzabile o – un’altra figura dell’ontologia della potenza che ricorre nelle opere di Agamben – l’irreparabile: «L’Irreparabile è che le cose siano così come sono, in questo o quel modo, consegnate senza rimedio alla loro maniera di essere. Irreparabili sono gli stati di cose, comunque essi siano: tristi o lievi, atroci o beati. Come tu sei, come il mondo è – questo è l’Irreparabile» (La comunità che viene, p. 63). Che la filosofia di Agamben sia sempre rimasta fedele all’ontologia della potenza emerge già a partire dalla sua scrittura, che sembra volersi trattenere sulla soglia della realizzabilità: il filosofo affida il suo pensiero a frasi incisive senza mai indicarne l’esatto terreno di riferimento. È una scrittura che, dunque, manca di definitività e che, forse, proprio per questo, si mantiene in tutta la sua forza, esponendo il lettore a costanti choc ma, al tempo stesso, donandogli la possibilità di un’esperienza autenticamente filosofica.

(16 giugno 2023)

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