martedì , 16 luglio 2024
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160. Recensione a: Roberto Esposito, Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, Einaudi, Torino 2023, pp. XVIII-150. (Jacopo Moretti)

Rispetto ai suoi lavori precedenti, Roberto Esposito nell’ultimo Vitam instituere, seppure proseguendo sulla stessa linea tematica avviata nel 2020 con Pensiero istituente (Einaudi) e proseguita nel 2021 con Istituzione (il Mulino), che vede nell’idea di istituzione il proprio epicentro speculativo, percorre ora una differente traiettoria di analisi, più profonda e dettagliata, che sembra chiudere la trilogia. Non più una giustificazione e valorizzazione del processo istituente nei termini di una rinegoziabile creatività – vedi Istituzione dove il discorso si lega anche all’emergenza pandemica allora ancora vivissima – bensì un’indagine genealogica del modo in cui nella tradizione filosofico-giuridica occidentale il concetto di istituzione abbia articolato, in un rapporto al contempo complesso e reciproco, il concetto di vita (rispetto allo sviluppo di questo tema gli altri lavori sembrano aver rappresentato un fondamentale presupposto teorico, qui portato ai massimi esiti). Una relazione, questa, decisiva al punto da affondare le proprie radici nella stessa nascita della cultura giuridica occidentale, a Roma, per poi proseguire – ed Esposito ne restituisce una scansione molto netta che vede in autori come Machiavelli, Spinoza e Hegel le sue tappe decisive – nel pensiero moderno ed in particolare nel Novecento. Da qui l’ambizioso obiettivo di consegnare al lettore la giusta chiave ermeneutica per comprendere genealogicamente il peso specifico e la radicalità ontologica di questa enigmatica espressione: istituire la vita. Si possono pensare vita ed istituzione senza costringere uno dei due termini a schiacciare e soffocare l’altro, in una articolazione finalmente unitaria?
D’altra parte, la domanda aperta da questo lemma rappresenta anche l’occasione semantica per riconsiderare i due termini non più come poli divergenti, ma come «i due lati di un’unica figura che delinea insieme il carattere vitale delle istituzioni e la potenza costituente della vita», al punto da poterci chiedere a ragione: «cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di rigenerarsi lungo percorsi inediti e inesplorati?» (Istituzione, p. 7). Lo scarto che per molti secoli ha allontanato l’istituzione dalla vita, trasformando la prima in qualcosa di rigidamente formale, e privando viceversa l’altra della sua capacità istituente, ha una storia tortuosa che concerne la maggior parte delle categorie filosofiche più importanti: vita, sovranità, comunità, storia, diritto, negatività, conflitto, solo per citarne alcune. È una ricerca decostruente, quella portata avanti da Esposito: genealogica, come si è detto. Punto di partenza è il diritto romano ed i suoi grandi interpreti.
L’espressione vitam instituere d’altro canto è stata lungamente attribuita ad Elio Marciano, giurista romano dell’età dei Severi, anche se questi pare averla mutuata da un passo di Demostene (il lemma ad ogni modo ha avuto una storia di continue riproposizioni e traduzioni almeno fino all’epoca rinascimentale). Ciò che conta è che, a partire da Marciano, Esposito prova a ricostruire il modo in cui a Roma si pensava lo ius nella sua relazione con la natura, seguendo la prospettiva ideologica del cosiddetto ‘giusnaturalismo’ romano (ne parla, con un’illuminante ricostruzione, Aldo Schiavone nel suo Ius. L’invenzione del diritto in Occidente). Evidentemente si può parlare di ‘giusnaturalismo’ a Roma solo con modalità analogiche, data l’impossibilità di sovrapporre la concezione giusnaturalista-soggettivista, nata in età moderna a partire da una nuova visione individualistica della società, con quella operante a Roma. Ciononostante, i giuristi romani fanno effettivamente talvolta ricorso al concetto di natura per risolvere questioni dirimenti. Più frequentemente si richiamano ad una qualche idea o nozione di portata universale che possa interagire con la legge e condizionarla. Per alcuni questa nozione è quella di aequitas, come per Cicerone, anche se è soprattutto Ulpiano che attua una svolta giuridica decisiva a questo riguardo, collegando lo ius etimologicamente (ed impropriamente) all’idea universale di iustitia. È un cambio di paradigma senza precedenti perché «riavvolgendo all’indietro il filo che inizia dalla tesi egualitaria di Antifonte, ma proiettando questa per la prima volta sul terreno del ius, in un passo di sconvolgente novità Ulpiano arriva alla conclusione che dal punto di vista del diritto naturale tutti gli uomini sono uguali» (Vitam instituere, p. 22).
Importante per quest’ordine di discorso è considerare la categorizzazione presente allora a Roma di ius gentium, ius civile e ius naturalis. Se il primo è il diritto che si applicava agli stranieri, e il secondo riguardava solamente i cittadini romani, il diritto naturale aveva invece a che fare con tutti gli esseri umani, come se si trattasse nell’insieme di un sistema ad anelli concentrici. Eppure tale lessico proto-giusnaturalista di certi autori non deve essere interpretato come un tentativo di trovare una qualche giustificazione nella natura per abolire un istituto, tanto centrale nell’economia della civiltà romana, quale poteva essere quello della schiavitù, richiamandosi ad un ‘diritto alla libertà naturale’.
Esposito riconosce che il problema principale sta nella frattura, evidente nell’analisi degli stessi testi di Marciano ed Ulpiano, ma che in fondo abbraccia l’intera struttura ideologica della cultura romana, tra natura e storia: una storia separata dalla natura, e una natura che non subisce gli effetti di alcuna storicizzazione. Se questi due piani non si toccano mai, né per intersezione né per tangenza, ma sono separati da uno spazio siderale di non influenza, si potrebbe riconoscere da una parte, come accadeva, una eguaglianza per natura (come diceva Ulpiano), e dall’altra una diseguaglianza di fatto, perfettamente accettabile perché determinata da condizioni storiche, economiche e politiche indipendenti dalla natura (come accadeva nella società romana). Si tratta di una «distinzione nettissima tra forma e sostanza», per la quale «riservare l’eguaglianza sul piano naturale, vuol dire renderla storicamente inoperativa» (p. 22). La storia si muove su un binario indipendente da qualunque principio di natura, in modo che questa «una volta disattivata, non è in grado di incidere sui rapporti di forza fissati dalla storia» (ibid.). Roma ha inventato il diritto e le sue categorie, ma poi ne ha disinnescato la potenzialità istituente, separando queste categorie da ogni processualità ed operatività storico-politica, quindi – sarà la critica di Hegel – irrigidendosi in un formalismo che non ha più alcuna relazionalità con la vita, perché non compie il passaggio allo Spirito oggettivo. La natura risulta allora svuotata e desostanzializzata, incapace di influenzare le categorie del diritto.
All’origine dell’epocale svolta nella modernità del rapporto tra vita – come prassi e conflitto lacerante – e istituzioni civili – come il prodotto di una negatività creativa scaturita da quel medesimo movimento conflittuale – c’è il pensiero di Niccolò Machiavelli. La novità consiste in una «politicizzazione delle categorie giuridiche romane che immette nel formalismo giuridico del ius la pienezza della vita politica» (p. 31). Vita e natura finalmente interagiscono.
La politica per Machiavelli è quella prassi che reagisce agli effetti della natura, assumendo come «contenuto» e soprattutto «motore» della sua esperienza la pienezza della vita, cioè la densità dei suoi «impulsi, bisogni, desideri» (p. 32). Tanto più la politica si vitalizza, tanto meglio le istituzioni civili si sostanzializzano, cioè si determinano in un rapporto continuo con la storia che le attraversa e le trasforma ciclicamente.
Il Segretario fiorentino, secondo Esposito, va in questo persino oltre la modernità di Hobbes. La politica per lui non è ‘semplicemente’ conservazione della vita, ma è istituzione della vita, è un movimento che ne assume la negatività, ma per rilanciarla e potenziarla. Scrive Esposito a riguardo: «certo, la vita va conservata quanto possibile – anche a questo serve la politica. Ma, per essere conservata, va prima istituita e poi sostenuta da istituzioni capaci di orientarne lo sviluppo, dal momento che ad essere conservato non è altro che il suo continuo mutamento. Se l’organismo – ma anche il soggetto politico – non sa adeguarsi alla mutazione dei tempi, smarrendo il necessario riscontro con essi, la sua vita appassisce e degenera» (p. 33). Le istituzioni giocano quindi un ruolo essenziale, nella modalità in cui mantengono attivo quel legame tra vita e politica, natura e storia, senza il quale ciascun termine si svuoterebbe di significato.
Ma c’è un ulteriore paradigma che risulta centrale nel pensiero di Machiavelli: il concetto di libertà. Vita e istituzione infatti si incrociano su quest’asse fondamentale. Non c’è istituzione della vita senza una vita libera, dal momento che «solo un ‘vivere libero’ può riconoscersi parte integrante del processo istituente» (p. 34). Anche qui si tratta di un movimento dialettico, una circolarità esistenziale tra una ‘vita libera’ e le istituzioni che ne rappresentano la condizione. Ne consegue che se la libertà è il presupposto per un’autentica prassi istituente, essa può concretizzarsi solo all’interno di un ordine politico che la assicura costantemente contro ogni ritorsione e condizionamento repressivo. Il paradosso (solo apparente) è perciò che la libertà è possibile solo sotto controllo istituzionale – da qui una delle possibili interpretazioni di un Machiavelli istituzionalista. Questa dialettica della libertà ritornerà anche in quella che Esposito considera la triplice bipolarità della categorizzazione machiavelliana – categorie che saranno «destinate a proiettarsi […] in tutto il successivo istituzionalismo politico» (p. 41) – composta dai rapporti di libertà/necessità, evento/processo, conflitto/ordine.
Comprendere la svolta paradigmatica compiuta da Machiavelli, l’autore che inaugura il pensiero politico moderno, significa evidentemente poter interpretare con più lucidità e profondità il pensiero politico successivo. È quanto accade con Spinoza, al quale è dedicato il terzo capitolo del libro. Non a caso, già da qualche tempo, Spinoza viene interpretato in chiave istituzionalista (proprio come Machiavelli), con particolare riferimento al suo Trattato teologico-politico. Certamente risulta difficile separare il pensiero istituente di Spinoza dal resto della sua concettualizzazione, soprattutto quella che fa riferimento ai temi capitali di vita e natura. Il legame è strettissimo, tanto che il movimento istituente – nel quale, spiega Esposito, il ruolo dato all’immaginazione è centrale (altra affinità con il ‘prospettivismo’ di Machiavelli, ma anche con l’opera di Castoriadis di cui Esposito tratterà più avanti) – è proprio ciò in cui trova espressione la potenza endogena della vita. Questa potenza appartiene a ciascun individuo, è una capacità, e rappresenta primariamente la modalità con cui l’individuo istituisce la propria esistenza singolare, a partire da quella circolarità semantica per cui se la vita è istituente, lo è perché già sempre a sua volta istituita, «non in forza di un progetto, ma del suo medesimo modo di essere» (p. 64).
Quest’idea rimanda al concetto di ‘forma di vita’, che nel cosmo spinoziano esiste solo in rapporto alla sostanza: la vita è un modus della sostanza prima, ovvero ne è un’espressione formata, ‘manierata’, e proprio in ciò sta «il suo tratto costitutivamente istituzionale» (ibid.). Ogni vita è istituita in quanto è già sempre forma, «vale a dire un modo di vivere secondo determinate abitudini, pratiche, rappresentazioni, giudizi» (ibid.).
Ma il concetto-chiave che più di ogni altro restituisce il modo in cui Spinoza pensa il significato dell’istituzione è quello di mediazione. L’individuo (la cui indipendenza viene in verità decostruita dall’ontologia spinoziana) è sempre inserito in un contesto collettivo, uno spazio sociale e politico, articolato dalle istituzioni che lo caratterizzano. La ‘vita libera’, di cui parla Machiavelli, in Spinoza è «quella che, anziché isolati, ci fa sentire parte di un tutto che ci comprende» (p. 66), e nel quale le istituzioni svolgono il ruolo necessario di consolidare l’unione e la cooperazione tra gli esseri umani. Anche in Spinoza perciò le istituzioni rappresentano il motore dell’associazione e la dynamis istituente del vincolo sociale.
Da qui secondo Esposito l’impossibilità di sovrapporre l’Etica ai due trattati politici. L’orizzonte ontologico lì formulato, la moltitudine dei modi e la loro immediatezza organica, trasposto sul piano politico si lacera improvvisamente in una serie di faglie non rimarginabili. Sono gli spazi della mediazione istituzionale, i canali di raccordo che alimentano la dynamis, interrompendola e differenziandola temporaneamente, per permetterne una interiorizzazione politica. La politica non è l’universo dell’immediatezza senza corpi intermedi dei modi ontologici. La politica è il luogo delle mediazioni funzionali, della relazionalità controllata e istituzionalmente garantita, tra i singoli cittadini e la loro vita insieme. La ‘vita libera’ non è allora la vita senza gli altri, ma quella in cui l’incontro e la cooperazione con gli altri avviene attraverso la mediazione delle istituzioni.
La medesima mediazione dinamica si ritrova in Spinoza non per caso anche nel rapporto tra natura e diritto. Come Esposito ha chiarito nel primo capitolo, i giuristi romani consideravano la natura un piano normativo separato da qualunque forma di storicizzazione. Spinoza invece, nonostante il suo naturalismo, incrocia tra loro natura e storia, rinunciando a proiettarle su un piano trascendente, ma collocandole in una immanenza articolata e sistematica. È proprio la natura la fonte di quella potenza vitale che si oggettiva nel diritto, nel divenire della storia e nell’alternarsi delle costituzioni politiche. Al contrario di Hobbes, la civiltà non inizia dove finisce la natura, perché la storia dell’uomo si muove dentro l’orizzonte della natura, assolutamente immanente, da cui trae la propria linfa espressiva. La politica ed il diritto sono i canali di sfogo, e di regolazione, di questa potenza originaria: la forma con cui diventa umanamente governabile ed organizzabile. La capacità istituente dell’essere umano è dunque una potenza naturale che precede il diritto, ma che richiama per sé la misura della propria espressione: la prassi istituente è ‘forma di vita’, produzione ed espressione della vita, vitam instituere, perché natura, vita e diritto sono all’interno del medesimo movimento logico ed ontologico.
La base naturale del diritto sancisce il suo legame indissolubile con la vita e la sua potenza istituente. Questa radice naturale del diritto però non rappresenta un suo principio di inviolabilità, il diritto è infatti sempre oggetto di elaborazione da parte degli esseri umani, dal quale dipende il suo crocevia con la storia: «la norma non cala dall’esterno sulla vita, ma fa tutt’uno con essa – è al contempo giuridica e biologica, come un processo che produce se stesso in base alle proprie possibilità interne. Essere soggetto di diritto, per Spinoza, non significa soggiacere a determinate norme, ma essere norma a se stesso, produrre normativamente la propria esistenza in un ordine insieme storico e naturale» (p. 77).
Questa auto-produzione della vita, la quale è norma di se stessa, non è in Spinoza il presupposto per un’organizzazione anarchica della società. Essere-norma-a-se-stessa non vuol dire lasciare le cose come stanno, lasciarle essere naturalmente: come detto sopra, se l’essere della sostanza è immediato, lo stesso non vale per i luoghi del vivere comune. La politica è espressione della vita, ma rispetto alla caratura ontologica di questa, è sempre attraversata da faglie, da differenze. La natura lungi da auto-produrre l’ordine politico deve invece incrociarsi con l’asse verticale delle istituzioni. Solo quest’ultime consentono una completa regolazione/espressione della sua potenza istituente. Gli istinti naturali devono essere mediati. Non solo: devono limitarsi nel diritto (le istituzioni giuridiche), e organizzarsi secondo un comportamento «coincidente con l’obbedienza al comando legittimo» (ibid.).
C’è dunque una differenza importante tra essere ed essere insieme in Spinoza. Questo scarto può essere sintetizzato nel concetto di negatività (come già in Machiavelli). L’essere è sempre affermativo, la sostanza è pura relazionalità. L’essere insieme invece è una dialettica che integrando in sé la mediazione istituente, assume la ritrazione del negativo per controllare e regolare gli istinti autodistruttivi. Solo passando attraverso le istituzioni la dynamis realizza il proprio scopo, perché solo queste «limitando la volontà di potenza individuale, aprono per i molti la possibilità di realizzare un progetto di vita comune» (p. 84). L’istituzione è perciò quel momento ritraente del negativo che consente la produzione del positivo, capace solo così di non disperdersi e farsi smembrare dalle forze endogene della natura. Anche in Spinoza allora il negativo è un momento essenziale della prassi istituente, in una circolarità che consente alla vita di trattenersi su se stessa ma solo per conservarsi e generarsi di continuo. In ciò Esposito coglie la grandezza del pensiero istituente di Spinoza.
La differenza tra il pensiero istituente moderno e quello di colui che secondo Carl Schmitt è stato uno dei maggiori sostenitori del ‘pensiero dell’ordinamento’, la teoria delle istituzioni (p. 87), vale a dire Hegel, sta nel modo di pensare il concetto di vita. Secondo Esposito il filosofo di Stoccarda (a cui è dedicato il quarto capitolo del libro) attribuisce al concetto di vita un valore centrale che si riverbera in tutta la sua produzione filosofica. Con Hegel la vita del soggetto acquista una capacità di proiezione normativa e finalizzazione spirituale che cambia completamente il modo di concepirla in rapporto alla politica e al diritto. L’immanenza dell’azione soggettiva è orientata infatti nel verso della realizzazione dello Spirito, in un processo che è però sempre anche istituente. Si potrebbe dire, come afferma Esposito, che nella filosofia di Hegel il soggetto si realizza solamente ‘estroflettendosi’ (p. 91) nelle istituzioni della vita pubblica.
Hegel a questo proposito contesta, oltre al diritto romano che si perde in un formalismo che dimentica la vita, anche il paradigma moderno del giusnaturalismo, dove la natura viene pensata come origine e fondamento della storia umana. Pensatori come Hobbes, Grozio e Pufendorf infatti sottraggono la soggettività dai condizionamenti storico-sociali che ne sono l’espressione, per derivare l’individuo, il cittadino, dalla sua separazione dalla natura mediante lo strumento del contratto. Questa meccanicità costituente da un lato non tiene conto del ruolo dell’eticità, il vero tessuto associativo della società, e dall’altro non coglie il ruolo giocato dalle istituzioni. Lo Stato non nasce da un accordo individualistico, prima del quale gli esseri umani vivono come bestie, ma è generato a partire da un processo di mediazione istituzionale. Gli individui infatti sono da sempre politici, c’è una connessione tra loro che è una connessione etica, la quale poi tende a realizzarsi oggettivamente nelle istituzioni che la incarnano e la esprimono, sicché nella filosofia di Hegel «lo stato di natura, qualsiasi cosa voglia significare, non è eliminato da quello politico, ma realizzato dialetticamente in esso» (p. 99). La formula privatistica del contratto non può generare la sostanza oggettiva dello Stato, dal momento che le volontà individuali si integrano solo nella membratura istituzionale, la quale è già sempre presupposta allo Stato e alla società civile. Le stesse istituzioni non nascono dal nulla, ma sono espressione di quella medesima Sittlichkeit, quel tessuto etico fatto di abitudini, valori, pregiudizi, usi e costumi che già sempre articola una comunità e la caratterizza come tale.
Per essere più precisi, questo «processo di istituzionalizzazione della vita è collocato da Hegel nel transito dalla prima alla seconda natura mediato dall’abitudine» (p. 101). Che cos’è la seconda natura? Si ha a che fare con un concetto dalla lunga storia, a partire da Cicerone, Varrone, poi Agostino ed Alano di Lilla, Tommaso d’Aquino, fino a Francesco Bacone. Esposito nota che rispetto alla genealogia di questa espressione Hegel «come spesso gli accade, ne sintetizza potentemente i significati contrastanti, incrociandoli in un’unica categoria che ne porta dentro tutta la tensione» (p. 102). La sua concettualizzazione tenta di costruire una giuntura tra il mondo riflesso dello Spirito e quello dell’inclinazione naturale: una sorta di nuova implicazione tra dimensione morale e mondo delle sensazioni, ma con il contributo dell’abitudine. L’abitudine è la ripetizione di un gesto o di un’azione che conduce all’assunzione e all’affermazione di una certa pratica, a cui si conferisce così una sua determinatezza esterna. Essa può persino facilitare l’andamento del pensiero che procede a quel punto in modo più immediato e spedito, ma nello stesso tempo può proprio per questo creare dei vincoli e delle limitazioni che gli precludono ulteriori possibilità.
Insomma l’abitudine è una forma di istituzionalizzazione, una pratica istituente che sorge all’interno dell’organismo umano (p. 104) e che produce pratiche e comportamenti riconosciuti. La seconda natura è l’insieme di queste pratiche esterne, oggettive, che pure dipendono da un rapporto essenziale con il soggetto e la sua vita. Come Esposito chiarisce brillantemente, l’abitudine non è mai mia, o solo mia, è già sempre di molti, perché gli esseri umani a differenza degli animali costruiscono un ambiente comune, in continua trasformazione, influenzandosi a vicenda attraverso pratiche ed abitudini dal carattere normativo. La società è lo spazio del cambiamento: «[…] il risultato di abitudini oggettivate in plessi istituzionali. È il passaggio dallo spirito soggettivo, cui ancora fanno capo le abitudini, a quello oggettivo, incardinato in ordinamenti giuridici, sociali e politici. A mediare due ambiti è il costume, di per sé esteso a un ambito comune» (p. 105). Le istituzioni sono quindi espressione della vita di una comunità, del suo spirito collettivo e di quella tensione etica fondamentale che è divenuta finalmente forma giuridica.
L’idealismo hegeliano non è perciò semplicemente astrazione e idealizzazione della realtà, perché allora non si capirebbe il peso specifico conferito da Hegel alle istituzioni per la vita delle persone. Lo Stato per Hegel è fin da subito articolato istituzionalmente, non solo, queste sono ciò che consente ai cittadini una concreta partecipazione politica: la loro funzione è sia orizzontale che verticale, da un lato permettono ai cittadini di partecipare ed influenzare la volontà statale, dall’altro li congiungono tra loro aggregandoli politicamente, e così facendo di un insieme di individui separati un corpo politico in costante dialogo. Per tale ragione «l’istituzione non è solo forma, ma anche contenuto della vita politica» (p. 108). Il processo istituente, come viene pensato da Hegel, si svolge a stretto contatto con la vita e le sue forme, non per ingabbiarla o imporsi su di essa, ma per permette l’espressione dei suoi caratteri più peculiari: l’eticità e la libertà. Quanto vale per gli autori precedentemente studiati, vale anche per Hegel: la libertà non può che negarsi in senso assoluto, arretrando nelle istituzioni che la limitano, ma che proprio per questo la affermano nella realtà e la rendono possibile concretamente. Certo egli non coglie i possibili contraccolpi mortiferi di una istituzionalizzazione capillare dello Stato (e ciò sarà motivo di una certa critica che gli verrà mossa nei secoli successivi, da Marx a Nietzsche, fino a Weber e Foucault) e neanche assume all’interno della propria dialettica concetti fondamentali come quelli di conflitto, potere e resistenza. Nonostante queste mancanze però, che verranno integrate dai grandi pensatori politici successivi, si può in ogni caso asserire che gran parte del pensiero seguente, il suo lessico e la sua concettualizzazione, si inserisce agilmente nella fenditura speculativa aperta da Hegel.
Il capitolo conclusivo è dedicato al Novecento, secolo in cui si condensano tutte le nozioni fondamentali del lessico della biopolitica fin qui discusse. Non entrerò nel dettaglio di quest’ultima parte dell’opera, perché rispetto alle altre è meno unitaria. Qui infatti Esposito sceglie di dividere il capitolo in sette paragrafi, dedicati ciascuno a dei macro-concetti centrali – Idea, Realtà, Campo, Natura, Seconda natura, Conflitto, Immaginario – e di svilupparli mediante lo studio di alcuni autori di riferimento, che hanno fatto del tema un oggetto di studi privilegiato nella loro produzione scientifica – essi sono rispettivamente: Maurice Hauriou, Santi Romano, Maurice Merleau-Ponty, Gilles Deleuze, Arnold Gehlen, Claude Lefort, Cornelius Castoriadis. La sensazione alla fine non è di spaesamento, perché Esposito riesce a restituire la complessità di un secolo in cui il dibattito sulle istituzioni è ricchissimo e pieno di spunti imprescindibili. Si può affermare che nel Novecento il pensiero istituente acquisti un’ampiezza semantica tale da trasbordare persino i confini della politica e del diritto per coincidere finalmente a pieno con l’ambito della stessa vita. Le istituzioni moltiplicano le proprie possibilità di presa, si diffondono capillarmente nel tessuto delle società, a partire dalla necessità irrinunciabile di organizzare la vita ed i suoi eventi inaspettati. La mediazione istituzionale non sarà solo pensata come un filtro espressivo che reitera i fatti, ma verrà immaginata a partire dai concetti sostanziali di nascita e generazione (in particolare con Hannah Arendt, su cui Esposito si era concentrato maggiormente in Istituzione), ma anche come il luogo esistenziale in cui gli esseri umani si situano nella storia e progettano il loro tempo. Il processo istituente sarà ripensato a stretto contatto con la potenza performativa dell’immaginazione (torna il tema fondamentale già problematizzato da Machiavelli e Spinoza), una facoltà che conferisce all’essere umano l’abilità di auto-istituire i propri spazi sociali/politici, senza più soggetti costituenti esterni o trascendenti, secondo la dialettica della produzione/istituzione di una vita a sua volta già ‘formata’, istituita – non c’è creazione ex-novo, ma ‘solo’ alterazione, trasformazione della forma. Ovviamente c’è anche chi le istituzioni le ha criticate o le ha pensate per defectum, perché ha visto in esse un sintomo del limite della natura umana, e del suo bisogno di ricercare mezzi esterni di sopravvivenza.
In ogni caso Esposito riesce alla fine a consegnare al lettore parte della ricchezza semantica, quasi si trattasse di una materia ancora in movimento capace di afferrarci e costringerci alla ricerca, di un paradigma, quello del vitam instituere, che è in verità una dialettica antica, la quale però non ha esaurito la sua tensione creativa e la sua dynamis produttiva, e che potrebbe anzi porsi come uno dei grandi percorsi della filosofia contemporanea.

(15 dicembre 2023)

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