Il libro di Vittorio Gallese e Ugo Morelli dovrebbe essere preso in considerazione, soprattutto, da quanti vogliano oggi provare a fare scienza. È un libro che infonde speranza. Esso ruota intorno a una domanda apparentemente inutile, talmente ampia da provocare un intenso spaesamento in chi la pone: che cosa significa essere umani? Al tempo stesso, fermandosi un momento a riflettere, è evidente che si tratta di un quesito fondamentale, e cioè della base su cui poggia, ad esempio, l’esperimento – nonché ogni minuscola parte della conoscenza – che sto per condurre meticolosamente in laboratorio stamani. Questa domanda è come alzare gli occhi dalla provetta e guardare fuori dalla finestra, intuendo così che tutto quello che viene fatto, scoperto, scritto quotidianamente fa parte di un contesto molto più ampio. Sembra banale, eppure, oggi la situazione è pressoché questa: lo scienziato si occupa del suo micro-tema all’interno di un progetto più ampio ma ben delimitato; mentre il cosiddetto umanista sta nelle Università a sciorinare una conoscenza vetusta su gente ormai defunta. Raramente l’uno riesce a comunicare con l’altro: entrambi si guardano con circospezione, si giudicano reciprocamente, l’uno pensa che l’altro stia perdendo qualcosa per strada con il proprio approccio. Il libro di Gallese e Morelli infonde allora speranza, nella misura in cui cerca di dare seguito a tutti quei bei propositi di cui si sente spesso parlare, miranti a integrare il mondo scientifico con quello umanistico. Lo fa in modo concreto. Lo fa a partire da un’amicizia ventennale – quella tra i due autori –, entro la quale viene intessuto un dialogo semplice, schietto e, soprattutto, familiare, in modo da spingere chi legge a sentirsi, il più delle volte, come intorno a un tavolo, tutti insieme, davanti al camino.
Porsi la domanda che cosa significa essere umani? vuol dire innanzitutto smettere di concepire, in blocco, le neuroscienze come l’apoteosi del riduzionismo. Possono rappresentare bensì un antidoto contro la tendenza a ridurre la mente al cervello, contribuendo a scardinare i dualismi che la nostra cultura ha costruito nei secoli. Innanzitutto, le neuroscienze evidenziano chiaramente qualcosa che, nei gesti, nelle elucubrazioni solitarie, perdiamo talvolta di vista: «la relazione precede l’individuazione e configura una dimensione del noi nella quale si individua il soggetto» (p. 24). Senza lo spazio noicentrico – per dirla con Gallese – non c’è alcun Io. Le neuroscienze sono dunque un campo fertile, entro cui le parole lungimiranti di fenomenologi come Husserl, Merleau-Ponty ed altri possono fiorire e assumere una forma, un senso. Infatti, è questa la tradizione filosofica che più di tutte sembra ispirare le pagine di Gallese e Morelli.
Nella prospettiva offerta nel libro la soggettività diviene l’esito di un processo relazionale in fieri. Punto di partenza non è qui il cogito, bensì il corpo e il movimento, attraverso i quali l’essere umano riesce – fin dal grembo materno – a sintonizzarsi con l’altro. Azione e percezione diventano allora «due facce della stessa medaglia», essendo «l’ingrediente essenziale di ciò che chiamiamo cognizione» (p. 20). Il processo di individuazione da cui emerge la soggettività scaturisce da un corpo sempre in contatto con il mondo, e si sostanzia, inoltre, nella possibilità di pensarsi come separati dal corpo stesso. Infatti, «noi umani siamo un corpo e contemporaneamente abbiamo un corpo […] Il fatto di averlo significa che, come ce l’hai, puoi non averlo e puoi perderlo con la morte. Non avere, quindi, è una specificazione che solo il linguaggio può fornire, e che consente di prendere le distanze da sé stessi […] questo ha a che fare soprattutto col narrarsi […] la narrazione è uno dei modi per crearsi, uno dei modi per inventarsi e per divenire sé stessi definendo un rapporto stretto fra narrazione e individuazione» (p. 24). Si tratta dunque di mettere al centro il corpo, capace di muoversi nello spazio e in grado, così, di intessere relazioni. Alla luce di una simile prospettiva, una scoperta come quella dei neuroni specchio – i quali costituiscono innanzitutto una delle basi fisiologiche del meccanismo della risonanza motoria, oltre che di quella emotiva – contribuirebbe a smarcarci da una logica riduzionistica, in cui l’altro è, appunto, ricondotto a delle proprietà costitutive. Ciò in virtù del fatto che, mediante il cosiddetto modello della simulazione incarnata, accediamo all’altro sempre nei termini di un “come se”. Diveniamo allora noi stessi e incontriamo gli altri in un continuo processo di rispecchiamento e riconoscimento dell’altro nel sé e del sé nell’altro. Ogni incontro è infatti guidato dalla risonanza incarnata, compreso quello con il sistema vivente.
Sono questi alcuni dei presupposti di un’opera estremamente ricca, che ha il pregio di attraversare – mettendole abilmente in comunicazione – discipline e aree della conoscenza diverse: dalle scienze cognitive all’estetica, al linguaggio e l’educazione per arrivare alla politica. Gli autori compiono tale lavoro con semplicità e chiarezza, ponendo al centro delle loro considerazioni due nuclei tematici: la relazione e il presente. Riescono inoltre a rendere immediate e comprensibili ai più scoperte scientifiche molto complesse. È un libro delicato e, al tempo stesso, presenta un che di sovversivo: propone un paradigma bio-culturale, in cui «un pensiero non è né un muscolo né un neurone; ma i suoi contenuti, i contenuti delle nostre rappresentazioni mentali, sono inconcepibili senza la nostra corporeità» (p. 56). Dai nostri cervelli-corpi ha inizio la danza, nasce cioè «la cultura come un vibrante arazzo intessuto di storie, strumenti e sogni condivisi» (p. 205). Questo libro sembra affermarsi come un lavoro degno di rilievo, in cui viene assunto l’arduo compito di superare il dualismo mente-corpo, soggetto-oggetto, natura-cultura, attraversando tutti gli ambiti che definiscono l’essere umano nel suo divenire all’interno del mondo.
(4 novembre 2024)