giovedì , 23 Gennaio 2025
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189. Recensione a: Nicola Zambon, Persuasione ed evidenza. Sul rapporto tra retorica e fenomenologia in Husserl, Heidegger e Blumenberg, Inschibboleth, Roma 2024, pp. 174. (Stefano Franchini)

In piena sintonia con la caratterizzazione della fenomenologia come filosofia sempre al lavoro (cfr. E. Fink, Studi di Fenomenologia 1930-1939, Lithos, 2010, p. 265), la ricerca di Nicola Zambon si presenta come un tentativo di sviluppare «una fenomenologia della retorica» (p. 16) in grado di riflettere sul rapporto tra linguaggio figurato e descrizione fenomenologica. I filosofi al centro di quest’indagine sono Edmund Husserl, Martin Heidegger e Hans Blumenberg, ai quali sono dedicati rispettivamente il primo, il secondo e il terzo capitolo di questo libro. La scelta di discutere questi tre filosofi, che rappresentano diverse declinazioni della fenomenologia – ammesso e non concesso che sia possibile impiegare questo termine in maniera univoca –, non risponde soltanto a quella che, hegelianamente, potremmo definire la storia esterna della tradizione fenomenologica; l’autore pone l’accento sulla riflessione e sull’impiego della retorica da parte di questi tre filosofi per indagarne i risvolti filosofici. Com’è noto, sussiste di fatto un legame che unisce Husserl, Heidegger e Blumenberg: non soltanto il primo è stato maestro del secondo, ma sia Husserl che Heidegger sono due punti di riferimento costanti e imprescindibili nella filosofia di Blumenberg. Tuttavia, risulta centrale nelle pagine di Zambon la riflessione sulla funzione filosofica della retorica.
Dal punto di vista metodologico, in ciascun capitolo l’autore mostra l’evoluzione della maniera in cui Husserl, Heidegger e Blumenberg affrontano il tema del linguaggio e del suo rapporto con la retorica. Come dichiarato nell’Introduzione, gli obiettivi dell’indagine condotta da Zambon sono due: da un lato, l’autore dichiara di volersi occupare «della retorica come problema filosofico» (p. 9) interno alla fenomenologia, soprattutto nei riguardi del tema, più ampio, del linguaggio; dall’altro, in questo contributo Zambon discute la «stessa retorica fenomenologica», ovvero l’«impiego di figure e stilemi retorici […] che non solo “adornano”, ma di cui si servono (e in parte costituiscono) le descrizioni fenomenologiche» (pp. 9-10). La struttura dei capitoli di questo lavoro risulta simmetrica in ciascuna sezione: seguendo le prime attestazioni del tema in Husserl, Heidegger e Blumenberg, l’autore mostra come i problemi e le insufficienze teoriche rispetto alla Rede – declinata in maniera diversa dai tre filosofi presi in esame – conducono ciascun filosofo a una revisione, se non addirittura un ribaltamento, della propria posizione. Per quanto riguarda Husserl, i fuochi dell’argomentazione sono le Ricerche logiche e i manoscritti sull’intersoggettività, soprattutto i volumi XIII e XV della Husserliana. Rispetto alle opere di Heidegger, hanno una preminenza invece i corsi di Marburgo – soprattutto i Prolegomeni alla storia del concetto di tempo e i Concetti fondamentali della filosofia aristotelica –, Essere e tempo e le riflessioni sul linguaggio e sul parlare successive alla cosiddetta Kehre degli anni ’30. Nella discussione della filosofia di Blumenberg, l’autore illustra il modo in cui il filosofo tedesco passa dalla riflessione di tipo fenomenologico sul linguaggio, soprattutto nello scritto Die Wirklichkeit der Sprache, a quella sul corpo, culminante nell’opera incompiuta Beschreibung des Menschen. Confrontando i vari capitoli tra loro si potrebbe ritenere che Zambon sia maggiormente interessato a Heidegger e Blumenberg di quanto non lo sia nei confronti di Husserl. In effetti, a motivare questa lettura interviene anche l’apparato di note bibliografiche, molto più cospicuo nel secondo e nel terzo capitolo. Tuttavia, a ridimensionare questa impressione interviene lo stesso argomento preso in esame da Zambon, non del tutto esplicitato da Husserl, ma centrale invece per Heidegger e soprattutto nella filosofia di Blumenberg.
Sempre nell’Introduzione, si trova la tesi che l’autore intende sostenere e difendere: se «la filosofia deve aspirare a essere più che mera retorica […]; e, al contempo, essa è sempre e inevitabilmente anche retorica» (p. 14, primo corsivo mio), un’indagine fenomenologica sul comunicare e sul persuadere risulta imprescindibile. Qual è l’accezione con la quale Zambon si riferisce e impiega il termine «retorica»? La risposta a questa domanda si trova in conclusione dell’Introduzione, in cui si legge che la retorica è «la capacità spontanea degli esseri umani di comunicare, sia l’uso regolamentato, tecnico, di questa facoltà» (p. 15, corsivo mio). Al netto di questa specificazione, entro il concetto di retorica la metafora per l’autore sembra avere un ruolo di preminenza. A giustificare questo primato Zambon richiama due ragioni: (I) a seconda dell’impiego che se ne fa, le metafore sono «degli strumenti descrittivi o esplicativi spesso più efficaci di una definizione o deduzione»; (II) la metafora può essere chiara e distinta (p. 17). Mettendo in luce quest’ultima questione, Zambon intende evidenziare che sia la «tradizione filosofica moderna inaugurata da Cartesio, Leibniz e Kant» che la fenomenologia hanno escluso la retorica «dal computo dei mezzi filosofici autentici e legittimi» (p. 21). Su questo aspetto chi scrive si permette di sollevare qualche perplessità. Se ci si limita al caso di Kant, va notato che nella Critica della ragion pura la ragione stessa viene paragonata all’organismo e all’architetto; inoltre, nel § 59 della Critica della capacità di giudizio la riflessione sul simbolo e sull’analogia è rilevante al punto che nei Paradigmi per una metaforologia viene richiamata da Blumenberg per introdurre la nozione di «metafora assoluta» (cfr. H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Raffaello Cortina, pp. 4-5). Ciononostante, dato il contesto, si potrebbe valutare questa omissione come una deliberata strategia retorica adottata dall’autore per introdurre ed enfatizzare l’assenza di una trattazione esplicita del tema da parte di Husserl.
Nel primo capitolo, utilizzando come filo conduttore il tema della Rede in Husserl, in prima battuta l’autore sottolinea la tensione tra la pretesa idealità del linguaggio e gli elementi che lo rendono costitutivamente indeterminato nelle Ricerche logiche. Nello specifico, Zambon mostra che l’analisi del linguaggio «nella vita solitaria dell’anima» del § 8 della Prima Ricerca logica omette il tema dell’espressione; da qui l’attenzione che l’autore dedica ad alcuni luoghi testuali, successivi alle Ricerche logiche, in cui Husserl si confronta con l’intersoggettività e con il discorso in quanto espressione del corpo vivente (Leib). Per quanto riguarda la situazione delle Ricerche logiche, l’autore nota innanzitutto che «per purificare il linguaggio dalla sua funzione retorico-comunicativa, Husserl astrae innanzitutto dal tu, dall’interlocutore, poi dal corpo stesso del parlante, eliminando la mimica e la gestualità come possibili forme espressive» (p. 43). Nel prosieguo dell’argomentazione, Zambon individua il punto critico delle espressioni della vita solitaria dell’anima – «vita psichica isolata» nella traduzione delle Ricerche di Piana – nelle espressioni occasionali. È a queste ultime che la terza sezione del primo capitolo è dedicata: la loro caratteristica precipua consiste nell’avere un significato indeterminato, aspetto che, secondo l’autore, «comprometterebbe in modo definitivo la possibilità di una logica pura» (p. 46). A partire da qui, l’argomentazione di Zambon si muove in una doppia direzione: da un lato rileva le criticità della soluzione di Husserl, che riconduce «la fluttuazione delle espressioni occasionali non al loro significato, bensì agli atti con cui questi significati sono intesi» (p. 46); dall’altro, mostra che «nei decenni successivi Husserl rovescerà la propria posizione» (p. 52), individuando nel comportamento espressivo (Gebaren) del Leib il presupposto imprescindibile per l’esperienza dell’altro.
Prendendo le mosse dall’omissione da parte di Husserl del tema dell’espressione comunicativa, nel secondo capitolo Zambon si concentra sul recupero di questo tema da parte di Heidegger, attestato già nei corsi di Marburgo. Nello specifico, centrale in queste sezioni risulta la discussione dell’evoluzione del rapporto tra Rede e Sprache, ovvero tra parlare e linguaggio. Richiamandosi inizialmente alla discussione della Retorica di Aristotele del ’24, Zambon rileva la situazione speculare degli anni ’30, in cui è il linguaggio ad avere il primato sul parlare (Rede) (pp. 91-94). Infatti, mentre negli anni che precedono Essere e tempo, e anche in quest’ultima opera, il parlare è un esistenziale dell’esserci, a partire dagli anni ’30 è il linguaggio a rendere possibile la verità stessa. Utilizzando come filo conduttore il legame tracciato da Heidegger tra la Rede e l’esperienza ordinaria, Zambon rintraccia, rispetto alla retorica, la sostanziale continuità tra i corsi del ’24 ed Essere e tempo. Parallelamente, l’autore mostra l’inconciliabilità tra la caratterizzazione husserliana dell’espressione linguistica come «segno portatore di significato [bedeutsames Zeichen]» e l’associazione heideggeriana tra segno e Zeug (cfr. pp. 86-88). Nel descrivere la ripresa heideggeriana della Retorica di Aristotele, Zambon osserva che quest’ultima «è paradigmatica tanto per la caratterizzazione della schiusura quanto per la comprensione dei momenti della situazione emotiva, della comprensione e del discorso» (p. 90). Infatti, «per rendersene conto, è sufficiente sostituire situazione emotiva con pathos e comprensione con opinione» (p. 90). A questo proposito, ci si potrebbe chiedere se si possa accogliere la lettura heideggeriana della Retorica senza riserve. Ad esempio, Aristotele intende la retorica come una tecnica persuasiva finalizzata a studiare, rispetto a ciascun soggetto e a ciascun oggetto, gli argomenti in grado di orientare il giudizio. Alla luce di questo, non è chiaro se le funzioni esercitate dai pathe nella Retorica (che possono indurre, alterare o mutare un giudizio), siano interamente sovrapponibili alla Befindlichkeit di Heidegger, soprattutto considerando che mentre le emozioni discusse da Aristotele sono caratterizzate dalla loro episodicità, la situazione emotiva di Heidegger è costitutiva dell’essere dell’uomo.
Ciononostante, la tesi che l’autore intende sostenere in questo capitolo è chiara: «al passaggio dal parlare al linguaggio corrisponde il passaggio dall’esserci all’Essere», da cui deriva anche la diversa concezione della poesia rispettivamente prima e dopo la cosiddetta Kehre (p. 94). La posizione di Heidegger viene ripresa e discussa puntualmente nella Conclusione, dove, attraverso un confronto serrato con il tema del linguaggio in Heidegger, vengono messe in luce una serie di problematiche che entrano direttamente nel merito della filosofia heideggeriana e della sua credibilità. Tra queste, fondamentale quella che solleva il tema dell’accessibilità dell’Essere in quanto svelamento (pp. 173-174).
Il terzo capitolo, interamente dedicato a Blumenberg, per i lettori e le lettrici di lingua italiana rappresenta una vera e propria novità: non solo qui Zambon discute puntualmente alcune questioni di massimo rilievo della filosofia di Blumenberg – si pensi ad esempio al rapporto tra fenomenologia e antropologia –, ma compaiono importanti riflessioni su due testi ancora poco discussi: Die Wirklichkeit der Sprache und die Phänomenologie e Beschreibung des Menschen. La prima opera, sottolinea l’autore, «getta un ponte tra i pilastri del pensiero blumenberghiano: retorica e fenomenologia da un lato, fenomenologia e antropologia dall’altro» (p. 109). La seconda invece, Beschreibung des Menschen, raccoglie le critiche che Blumenberg rivolge sia a Husserl che a Heidegger, dal momento che «contingenza e storicità, tratti distintivi della natura umana, sono esclusi dall’orizzonte tematico della fenomenologia e dell’ontologia fondamentale» (p. 113).
Come mostra l’autore, per Blumenberg la realtà effettiva del linguaggio manifesta la contraddizione tra il suo divenire e la sua aspirazione alla definitività, elementi riconducibili «a due “impulsi” [Antriebe] fondamentali», ovvero, «da un lato l’“espressione” [Ausdruck], di natura soggettiva; dall’altro, la “comunicazione” [Mitteilung], di natura intersoggettiva» (p. 111). Il merito di questo capitolo è sicuramente quello di mostrare il rapporto di prossimità e distanza che lega Blumenberg alla filosofia di Husserl e a quella di Heidegger, ma che al contempo lo rende un pensatore indipendente e originale. Nello specifico, Zambon concentra le proprie indagini sulle ragioni che conducono Blumenberg a indagare il linguaggio nella sua situazione storica, determinata e irriducibile alla singola soggettività. Per Blumenberg, infatti, i significati «dipendono dall’interazione umana» e sorgono nel contesto dell’intersoggettività (p. 119) – da cui il recupero, in chiave positiva, delle espressioni occasionali delle Ricerche logiche e l’approfondimento della tematica del Leib. Utilizzando il corpo come filo conduttore delle indagini, Zambon illustra infine la maniera in cui anche Blumenberg passa dalla riflessione di tipo fenomenologico sul linguaggio de Die Wirklichkeit der Sprache a quella sul corpo e sulla visibilità (Sichtbarkeit) contenuta in Beschreibung des Menschen. Nella discussione di quest’ultima opera, Zambon sottolinea che la variazione eidetica di Husserl viene reputata da Blumberg uno strumento d’indagine imprescindibile. Tuttavia, nel momento in cui la fenomenologia rinuncia alla propria componente trascendentale, come accade appunto nella filosofia di Blumenberg, anche la variazione eidetica si modifica, diventando «il gioco infinito delle mutazioni caleidoscopiche dell’immaginazione umana» (p. 141). A questo proposito, una domanda utile potrebbe essere quella che chiede se, in questo contesto, abbia ancora senso parlare di «variazione», soprattutto considerando che per Blumenberg l’essenza è «ciò che è concepibile, descrivibile, raccontabile nel gioco delle possibilità» storicamente date (p. 141). In realtà, l’autore sembra voler esplicitamente mantenere l’espressione «variazione» per sottolineare l’enfasi, da parte di Blumenberg, per il dettaglio – che talvolta ha condotto all’accusa di eccessivo eruditismo (cfr. J. Goldstein, Hans Blumenberg. Ein philosophisches Portrait, Matthes & Seitz, 2020). Tuttavia, tra le due variazioni una differenza c’è e dev’essere esplicitata. La variazione di Blumenberg si muove in una direzione inversa a quella di Husserl, non più, all’interno, verso il nucleo invariante, ma bensì proiettata all’esterno dove si trova la molteplicità delle forme storiche. Per un lettore o per una lettrice di Husserl quest’espressione appare senz’altro controintuitiva, ma ha il pregio, al contempo, di sottolineare la differenza radicale di paradigma tra i due filosofi.
Nel complesso, assumendo come Leitmotiv il rapporto tra linguaggio e retorica, l’indagine di Zambon non si limita a essere un’indagine fenomenologica sulla retorica, ma offre anche una ricostruzione storica e teorica del rapporto tra Husserl, Heidegger e Blumenberg. Un pregio di questo libro è sicuramente l’originalità della scelta di un tema, la retorica fenomenologica, finora rimasto per lo più inesplorato. Consegnando ai lettori e alle lettrici di lingua italiana importate materiale su cui riflettere, soprattutto per quanto riguarda Blumenberg, il lavoro di Zambon è senz’altro un punto di partenza per riflettere sul linguaggio e la retorica in chiave fenomenologica.

(22 gennaio 2025)

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