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45. Review of: Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, trad. it. di Luca Fusari, Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 214. (Alberto G. Biuso)

Thomas Ligotti non è un filosofo. È un narratore dell’orrore soprannaturale. Sulla linea tracciata da Edgar A. Poe e H.P. Lovercraft, i suoi racconti fanno vedere e sentire l’assurdità che dimora nel quotidiano come la linfa dentro una foglia. Questo libro però non è un racconto, non è un romanzo, è una estrema meditazione sul fatto che – contrariamente a quanto hanno pensato, pensano, penseranno miliardi di nostri simili – la vita umana non è una buona cosa. E non lo è non solo e non tanto per il destino di morte che ci accomuna ad ogni altra cosa viva. Lo è perché noi lo sappiamo. Sappiamo di essere vivi e che arriverà il momento in cui non lo saremo più. La tragedia, la vera tragedia, sarebbe dunque la coscienza. Ma non basta. Si tratta infatti di una coscienza/inganno, la quale ci dà la sensazione di pensare, di prendere delle decisioni, di agire allo scopo di realizzare le decisioni prese e conseguire gli obiettivi stabiliti, di avere la forza e l’autonomia necessarie a raggiungere il piacere o la gioia o la soddisfazione o la felicità e di evitare il danno, il dolore, la sofferenza.
La tesi di Ligotti è che sta qui esattamente l’errore. Il sospetto, ben più che un sospetto, che aleggia lungo tutto il libro e che lo attraversa è che noi in realtà siamo delle marionette. Affermazione che è da intendere alla lettera e non come una metafora. «Quelle marionette, marionette umane, siamo noi» (p. 191). Naturalmente non abbiamo l’impressione o la sensazione di essere delle marionette. E ciò precisamente per il fatto che le marionette umane sono «assorte nella coscienza che desta in loro la ferma impressione di essere prescelte tra tutti gli oggetti creati» (17).
Esperienza, letteratura, filosofia, convergono qui non nel dimostrare che siamo oggetti mossi da forze potentissime e invincibili – dimostrazione impossibile e per quasi tutti inaccettabile – ma nel mostrare che così stanno le cose.
Si può partire da ciò che sappiamo. Che non è molto ma è fondamentale. «Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza –lenta o veloce – che ci condurrà alla morte» (27). Questo sa anche l’ispiratore di tutta la meditazione di Ligotti, alla cui memoria il libro è dedicato, Peter Wessel Zappfe, un letterato e filosofo norvegese vissuto tra il 1899 e il 1990, autore di un libro negletto e radicale, L’ultimo messia (1933).
Zappfe non si propone di rispondere a una delle fondamentali domande metafisiche: ’Perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?’; il suo obiettivo è piuttosto mostrare che il qualcosa che c’è è male, un male assoluto, totale, irredimibile. Nonostante la sua evidente struttura filosofica, si tratta di una posizione che va oltre la filosofia e si muove tra le spranghe della necessità, la potenza delle passioni, le finzioni della politica e della psiche, la complicità determinante delle religioni.
Necessità perché – come sanno bene Spinoza, Schopenhauer, Michelstaedter e molti altri – ciascuno di noi e tutti noi insieme, siamo «il prodotto di un’indeterminabile serie di eventi e condizioni che risultano nella possibilità, per noi, di fare una sola scelta piuttosto che un certo numero di scelte, perché fattori al di là del nostro controllo hanno già badato a chi siamo come individui e a quali scelte, infine, faremo» (85-86).
Passioni perché «la ragione non è altro che il megafono dell’emozione» (102) e «senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere» (103).
Finzioni politiche e psichiche perché «chi occupa i centri direzionali della Terra sa che sulla gente comune vanno soffiati fortissimi venti di discorsi felici, la gente va rassicurata che va sempre tutto bene, o che se non va bene lo andrà» (147) e anche se «lo sanno tutti che noi siamo i morti del futuro» e che di fatto cominciamo a morire sin dal primo respiro, la forza dell’inganno e del bisogno è tale che «fintanto che riusciamo a camminare, strisciare o starcene in un letto intubati, possiamo continuare a dire che essere vivi va bene» (188).
Religioni – soprattutto i monoteismi, in quanto «il buddhismo è pessimismo» (114) – perché la più parte dell’umanità «preferisce chiedere la salvezza ai vecchi e rispettabili sistemi di credenze, con le loro derivazioni settarie. E allora crede nella divinità del Vecchio Testamento, un bacucco incontinente che ha insozzato se stesso e l’universo con la propria corruzione, un surrogato economico di divinità che si fa passare per l’originale (domandate agli gnostici). Crede in Gesù Cristo, una nullità storica cucita insieme, come il mostro di Frankestein, con i pezzi rubati alle tombe di messia morti e sepolti: un pupazzetto salvatore. Crede in Allah, magnaccia di vergini, e nel suo maggiordomo Maometto, profeta ritardatario pioniere di un’impostura all’ultimo grido in un mercato emergente di credenti che i prodotti religiosi sulla piazza non rifornivano adeguatamente. Crede in qualsiasi cosa comprovi la sua importanza come persone, tribù, comunità, e in particolar modo come specie» (113).
In generale, la teodicea, il tentativo di conciliare l’esistenza di un Dio buono e onnipotente con la realtà di un mondo malvagio e doloroso, «è un problema che il credente, con o senza logica, non può risolvere. E chi lo crede un problema davvero risolvibile crederà a qualsiasi cosa gli si racconti» (203).
Schopenhauer ha dunque ragione contro ogni illusione, contro ogni fiducioso ottimismo: «Nessun individuo intelligente può evitare di rendersi conto che ogni essere vivente si comporta in modo esattamente conforme alla sua [di Schopenhauer] filosofia, intesa nel senso più largo. Con le molle caricate come giocattoli da una qualche forza – chiamiamola volontà, élan vital, anima mundi, processi fisiologici o psicologici – gli organismi corrono facendo quello che gli è stato preordinato, fino al momento in cui cessano di muoversi. Nelle filosofie pessimiste soltanto la forza è reale, non gli oggetti che essa attiva. Sono solo marionette e se possedessero una coscienza potrebbero pensare erroneamente di essere individui che si caricano da soli le molle e che agiscono per conto proprio» (48-49).
Per Ligotti, Schopenhauer ha ragione anche e specialmente nei confronti del suo migliore allievo, Nietzsche, il quale fu un magnifico distruttore di fedi e di valori ma che volse poi la verità schopenhaueriana nell’idea più inaccettabile, ovvero che la vita ritorni, che il tempo ritorni, che il tutto ritorni. In questo modo, «il pessimismo ha perso un grande portabandiera quando Nietzsche ha cominciato a gioire di ciò che dovrebbe far rabbrividire, una posizione psichica che di per sé è la più paradossale di tutte» (109).
Come gli gnostici – più volte esplicitamente richiamati nel testo – Zappfe e Ligotti scorgono in questo mondo qualcosa di funesto, di ignoto, di inaccettabile, «un orrore che va oltre l’umano e include tutto l’essere» (179), che attraversa il cosmo, che intride ogni particella del mondo.
Ne scaturisce l’inevitabile e coerente opzione contro la procreazione, contro la nascita, contro l’esserci. Un’opzione che ha dalla sua una solida struttura logica, ben espressa dal filosofo sudafricano David Benatar, il quale «sostiene in modo convincente che, siccome una certa misura di sofferenza è inevitabile per tutti coloro che nascono, mentre l’assenza di felicità non danneggia quelli che potrebbero essere nati ma non lo sono, il piatto della bilancia pende a favore del non mettere al mondo figli. Quindi, chi si riproduce viola ogni sistema morale ed etico concepibile perché è colpevole di infliggere una sofferenza» (58). Il non esserci non produce alcun dolore né comporta alcun danno, l’esserci è sempre e necessariamente foriero di sofferenza e dolore. È ancora Benatar a sostenere che «tutti i procreatori hanno le mani sporche, in senso sia morale che etico» (155).
Una delle poche cose buone della nostra condizione di marionette coscienti del proprio morire è che ignoriamo il come e il quando. Ed è questo che ci consente di vivere, il dono di Prometeo. Se lo sapessimo, infatti, «chi potrebbe vivere una storia di cui conosce la fine dalla prima pagina, non in senso generico ma sapendo il Come e il Quando della fine, che potrebbe essere una crocifissione e non una cessazione pacifica? Se tiriamo avanti è solo perché non sappiamo Quando né Come finirà la storia della nostra vita» (187).
Soltanto questa condizione d’ignoranza e di oscurità della coscienza permette di continuare a percorrere strade, sentieri, montagne, in una terra del tutto straniera. Parola, questa, ancora una volta gnostica: «In parole povere: non siamo di qui» (191).
E tuttavia la filosofia di Zappfe e Ligotti ben poco condivide, alla fine, con la Gnosi, e risulta piuttosto una forma di nostalgia – per quanto paradossale possa sembrare – su ciò che la vita avrebbe potuto e dovuto essere e non è stata. Si tratta di una visione effettuale ma anche desolata, di una prospettiva eroica ma anche lamentosa, di un atteggiamento forte ma anche troppo compiaciuto. Come a volte accade a Cioran, sembra che al fondo di questa damnatio vitae ci sia la nostalgia di una salvezza, di una qualche forma di salvezza, poiché «il vero orrore, la vera tragedia, è che non siamo stati salvati» (181).
Filosofie come quella di Nietzsche e degli gnostici sono più disincantate poiché costruiscono da sé la salvezza, perché sono la salvezza che non aspettano da altro che dalla
propria
comprensione del
mondo
. È qui che la coscienza cede il suo fardello di maledizione e il pensare e il sapere diventano «il tendere alla luce da un crepuscolo per così dire innato» (F.W. Nietzsche, Umano, troppo
umano II,
in «Opere», IV/3, Adelphi, Milano 1967, aforisma 219, p. 83). Contro la tesi per la quale «l’orrore divora la luce e digerendola la trasforma in tenebra» (127), bisogna invece dire che la cospirazione contro la razza umana è certamente quella di chi si riproduce, ma può anche essere quella di chi non è capace di tendere alla luce.

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