Il perdono è uno dei temi sul quale l’attenzione del Novecento, e non solo, si è posata: il “secolo breve” ha dato una infinità di spunti per poterne discutere, basti pensare alla Shoah, fra tutti. Ed è proprio attarverso questo tema che per Elena Colombetti si misura il grado di una coscienza morale, poiché «sottraendosi ad ogni determinismo, [il perdono] presuppone l’implicita consapevolezza che ci siano azioni che non devono essere compiute» (p. 9).
Il testo preso in esame, oltre alla prefazione, consta di cinque capitoli, con l’intento dichiarato dell’autrice di non voler «ricostruire l’ampia letteratura sul tema, ma piuttosto di inserirsi in questa riflessione mettendo in luce alcune condizioni del perdono, i suoi ostacoli e i suoi elementi costitutivi» (p. 11).
Secondo la ricostruzione antropologica di Colombetti, l’uomo è un essere fallibile, che vive l’ambiguità dell’azione, ovvero l’irreversibilità dell’agire al quale l’agente deve sempre rispondere, nonostante i cambiamenti al quale va incontro: «Sembra non esserci scampo. L’azione è irreversibile nel bene e nel male e pare inchiodare ad essa chi l’ha compiuta» (p. 15). Il compito del perdono, allora, è quello di sanare l’irreversibilità dell’azione e lo può fare solo attraverso la relazione con l’altro. Relazione che non è un’aggiunta alla soggettività, ma ne è una caratteristica fondativa: l’agente non è un soggetto isolato, ma realizza la sua libertà proprio nell’intreccio con la libertà altrui. Il perdono che riceviamo dall’altro è l’azione di una libertà su di un’altra, tesa a risanare la relazione stessa dal male compiuto.
Proprio perché il perdono ha come oggetto il male compiuto, è inevitabile una analisi della colpa, che avviene nel primo capitolo. È necessario, secondo l’autrice, non lasciarsi fuorviare dalla strada che vede nella debolezza umana, intrecciata alla libertà, la scusante per qualsiasi azione, altrimenti non si avrebbe niente e nessuno da perdonare. Questo perché ognuno agirebbe costretto da una forza esterna, in una catena tendente all’infinito. Ma l’uomo è il luogo in cui finito e infinito, libertà e debolezza, convivono: questa doppiezza fa sì che egli abbia il potere di sottrarsi al male, il quale, seguendo Ricoeur, è un decadimento del bene, che è sempre originario. Scrive Colombetti: «Questo cedimento, questo fallimento, si presenta al tempo stesso come un accadere e un essere posto. Accade perché affonda le radici nella debolezza, è posto perché è sempre il frutto di un atto libero. Si tratta di un’ambivalenza ineliminabile» (p. 30). Nella celebre richiesta di Gesù al Padre, dove si richiede il perdono dei propri aguzzini, l’accento è posto sul “non sanno quello che fanno”. Sebbene possa sembrare una scusa, l’ignoranza non lo è se analizzata nel profondo, perché coloro che crocefissero Gesù lo fecero seguendo un tipo di bene contingente e non universale: non misero in questione il proprio operato ma agirono seguendo onguno il proprio interesse. La loro è una condizione tra la non conoscenza e la cecità volontaria.
Vengono dunque a evidenziarsi due caratteristiche del perdono: l’impossibilità di sapere lo stato interiore dell’altro nel momento dell’azione; la possibilità di condannare solo l’atto e non la persona nella sua totalità, poiché nel perdono c’è sempre una «eccedenza della persona rispetto al suo agire» (p. 43).
Nell’ultima parte del primo capitolo viene analizzato il pentimento, che a prima vista può assomigliare al perdono, ma che in realtà manca di una componente fondamentale: la dimensione relazionale. C’è, certamente, nel pentimento la volontà di assumersi la colpa, di guardare al futuro ma manca l’azione dell’altro, che «riaccoglie il colpevole in un legame interpersonale che attesta la bontà originaria e la trascendenza rispetto al male compiuto» (p. 49).
La relazione con l’altro, viene scritto nel secondo capitolo, non è mai una relazione simmetrica bensì asimmetrica. Questa concezione mette in crisi, dunque, l’idea mercantile della relazione tra agenti, poiché tra persone non vi può essere una simmetria quale quella dello scambio economico, o meglio, essa non può esserne il modello. L’asimmetria, per Colombetti, è data dalla constatazione che il rapporto con l’altro non è speculare, ma vi è una differenza incolmabile. Inoltre, l’altra asimmetria intrinseca all’esistenza umana è data dalla nostra condizione di figli: ognuno ha ricevuto da qualcun altro la propria esistenza, l’istruzione, la lingua materna, il proprio posto in una comunità. Tutto questo fa di noi degli esseri riceventi. È per questo motivo che la vendetta non può trovare spazio in un’etica del perdono: il male ricevuto non può essere ripagato con altro male, anzi per la filosofa esso rimane impagabile, in quanto non fa che richiamarne dell’altro. Il rapporto simmetrico di giustizia è destinato a essere fallimentare, poiché ciò che è stato fatto non può essere disfatto: spostando l’attenzione dall’azione all’offensore, la vittima non viene ripagata del torto subito.
Il perdono, in quanto «giudizio su un atto» (p. 73), richiede anche di indagare il rapporto tra verità oggettiva e percezione soggettiva; a questo proposito, nel terzo capitolo, Colombetti ricorre all’analisi del risentimento, sotto tre diversi aspetti: il ressentiment nietzscheano e scheleriano; il risentimento come protesta morale e infine il risentimento come l’avversione affettiva nei confronti di un male subito e di colui che l’ha causato.
Il primo tipo di risentimento porta a mostrare come il perdono sia impossibile nel momento in cui si ricorre al determinismo etico, per cui ognuno agisce secondo la propria natura: si arriva a categorizzare gli esseri umani, dividendoli tra il “noi” e gli “altri”, tra i “deboli” e i “potenti” (in Nietzsche) e tra l’uomo comune e gli elevati (in Scheler). Tuttavia, Colombetti fa notare come questa divisione sia fallace, in quanto l’uomo vive in una sorta di zona grigia, in cui albergano diversi sentimenti contrastanti l’uno con l’altro, ma che evidenziano come l’uomo sia costituzionalmente esposto alla possibilità del male.
Il secondo tipo di risentimento è da attribuire alla visione che ne ha dato Jean Améry, il quale concorda con Nietzsche nel pensare il perdono come un desiderio di vendetta mascherato; ma a differenza del filosofo tedesco, arriva a concepire il risentimento come giusto, addirittura come un dovere: il risentimento è insieme un atto di denuncia e una pretesa di verità. Per Améry, il perdono è «la risultanza di una perdita di individualità nel contesto sociale, un dissolversi dell’individuo nel consenso» (p. 91). Questo accadrebbe, spiega Colombetti, se il perdono venisse inteso come un atto vòlto alla ricerca di un quieto vivere, mentre, in realtà, richiede «un giudizio di male, un’imputazione di responsabilità, il riconoscimento della trascendenza della persona rispetto ai propri atti e la sua capacità di un nuovo posizionamento di libertà» (p. 91).
L’ultimo caso di risentimento riguarda il ri-sentire del male subìto, in una impossibilità di prendere le distanze dalla sofferenza, in un farsi presente di ciò che è passato. Ciò che sottostà a questo tipo di risentimento è la cosiddetta coscienza emozionale sartriana, in cui cogliamo il mondo attraverso l’emozione, per cui la coscienza è prigioniera di sé stessa: «ma fintanto che l’emozione è presente, la realtà per il soggetto ha quella colorazione» (p. 97). L’implicazione delle emozioni porta a una impotenza del perdonare, proprio perché il perdono non è né un mero frutto della volontà, né un ragionamento prettamente logico. A tutto questo si aggiunge ciò che Colombetti designa come inattualità di un pensare a ciò che sarebbe potuto essere altrimenti: a differenza dell’inattualità nietzscheana, quella proposta «è determinata dalla direzione inversa del tempo: riguarda il passato vissuto frustratamente come presente» (p. 99). Desituazionalità e dislocazione sono le caratteristiche di questo passato che non passa e che non riguarda «una decsione presa nel passato che ha condannato alla irrealizzazione della possibilità, ma piuttosto ciò che è stato fatto (o non fatto) e che è letto come una mancata azione nei confronti del male» (p. 100).
Al risentimento, al passato che non passa, è necessario, per la filosofa, dare innanzitutto un assenso a sé e alla propria persona, in modo tale da comprendersi come agenti che hanno preso una determinata posizione nel presente, accettando dunque il carico di passato necessario per intraprendere un nuovo rapporto con sé e con l’altro. Il futuro deve essere riaperto, ripensando e riorientando l’agire dell’agente, arrivando a comprendere come le emozioni siano allo stesso tempo passive e attive. C’è bisogno dell’onestà necessaria a capire cosa succede in noi e questo può accadere grazie al dialogo continuo dell’io con sé stesso. La componente emotiva è pur sempre orientata da ciò che noi scegliamo come valore, dalle nostre decisioni morali: «Le emozioni e i sentimenti offrono alla volontà dei motivi per agire in un senso o nell’altro, ma alla fine occorre scegliere per trasformarli in un movente efficace per l’azione» (pp. 103-104). L’ultima parola spetta sempre all’azione libera intrapresa.
Nel quarto capitolo, dedicato al rapporto del perdono col tempo, ci sono diversi aspetti di rilievo. Il primo riguarda il ruolo che il tempo ricopre nel processo del perdonare: l’irrevocabilità di un atto è un principio della temporalità, eppure Colombetti, ricorrendo a Ricoeur, ci mostra come il senso dell’azione possa essere nuovamente posto, in quanto il perdono è una discontinuità nel tempo, un atto che rompe il mero trascorrerne. Il perdono non richiede l’oblio ma la memoria attiva e selettiva, una storia narrata altrimenti, che tenga in conto anche la nostra storia raccontata dal punto di vista dell’altro. Liberarsi della memoria vuol dire pentirsi, perdonare e infine riconciliarsi: la riconciliazione è l’esito e non il fine dei primi due movimenti, poiché si può perdonare senza riconciliarsi. Scrive l’autrice: «Liberazione significa quindi ampliamento, ma non cancellazione: c’è un nuovo evento, quello della riconciliazione, che gettando la sua prospettiva su ciò che è avvenuto, incluso la divisione, ne ricomprende il senso aprendolo a un nuovo futuro» (p. 128).
Un altro aspetto che mi preme sottolineare è la rivalutazione di Colombetti dell’impossibilità di perdonare teorizzata da Arendt. Secondo la filosofa ebrea, il pensiero è il dialogo dell’anima con sé stessa, che permette di valutare il bene e il male, seguendo l’idea socratica per cui è meglio subire il male piuttosto che farlo. L’assenza di questa attività non permette di definire moralmente qualcuno come persona in quanto tale. Se il perdono ha come destinatario la persona nella sua interezza, allora la sua assenza ne compromette la possibilità. Per Colombetti, al contrario, anche per coloro che hanno rinunciato al pensiero il perdono è sempre possibile, perché la rinuncia prevede un momento in cui essa è stata frutto di una scelta libera.
Il quinto e ultimo capitolo si contraddistingue per il dialogo tra Colombetti e Ricoeur sul tema della giustizia. Il perdono oltre a essere una discontinuità temporale è anche una frattura nell’ordine giuridico, poiché la sua essenza va oltre i dispositivi di amnistia, condono, ecc. Il perdono, difatti, ammette anche la pena, che può essere accettata come espiazione, nella misura in cui ristabilisce l’ordine della giustizia.
Usando l’apparato concettuale ricoeuriano, la filosofa arriva a concepire il dovere morale di perdonare: in un’ottica che tiene distinte morale ed etica e che unisce il comandamento nuovo alla regola d’oro, si arriva a mostrare come il perdono vada oltre la giustizia, cioè oltre la morale, ma rimanendo in un’etica umana. L’etica è iperbolica non nell’accezione attribuitele da Jankélévitch e Derrida, ma in una differente: è necessario che il senso del perdono resti nel mondo umano, seppur con la possibilità di intendere il perdono stesso come «un ideale, ma non irraggiungibile» e come «compimento di ciò che è veramente dovuto agli uomini nelle faticose relazioni personali della storia, dove l’imprevedibilità della libertà apre alla ferita del male, ma anche al risanamento della ferita stessa» (p. 168).