In questo breve ma denso volume Eugenio Mazzarella fornisce spunti critici di riflessione molto fecondi sullo statuto onto-storico della poesia, certamente alla luce della sua illustre carriera di studioso heideggeriano prima e di poeta poi. Il titolo del volume è un richiamo al celebre saggio/conferenza di Heidegger del 1946 Wozu Dichter?, a sua volta tratto dall’elegia di Hölderlin Brot und Wein. A più riprese proprio Hölderlin viene ricordato da Mazzarella come il poeta del poeta, e mi sembra proprio tale l’ufficio del filosofo napoletano in questo libro: cercare cioè, da poeta ma in modo non poetico e dunque strettamente critico e filosofico, di indagare le ragioni per cui la poesia è la più alta manifestazione della coappartenenza di essere ed esserci e per cui solo una poesia filosoficamente intesa può essere detta con giustezza (anche in senso paolino) istituzione del mondo. Il mondo, afferma infatti Mazzarella, è istituzione di parola, di una parola che è poiesis, che è mostrarsi dall’origine e che nell’ascolto parlato dei poeti diviene manifesto e abitabile. La poesia come Dichtung è dunque il darsi manifesto dell’essere, del mondo, e solo in seconda battuta è poesia come Poesie, cioè effettivo canto del poeta in parola. La Dichtung è lo svelarsi del mondo come epifania sacra di cui gli dèi sono i principi che il poeta deve nominare, il musicista comporre o l’artista dipingere, è l’offrirsi del mondo come bellezza a cui la Poesie dà parola. E tuttavia, tra le forme d’arte, la poesia sembra godere di uno statuto ontologico superiore, o per meglio dire ancora più vicino alla Dichtung come poesia del mondo più originaria, quando il verso diventa custodia, diventa lirica. Quando la poesia è del poeta del poeta, quando si tratta della poesia della Dichtung, ciò significa «assistere come la prima volta all’incarnarsi delle cose; nel germinio del mondo – delle cose e di sé – ascoltarne il silenzio e dargli voce: alla presenza, dargli forma» (p. 9, corsivo nel testo).
Se la filosofia è un vedere il germinare il mondo in forma di domanda, la poesia riconosce l’ineludibile necessità (da qui credo, per inciso, il senso più profondo del sottotitolo) di dire lo stare al mondo nella maniera in cui tale mondo nel suo darsi mi diviene più prossimo, ovvero abitandolo poeticamente, che significa «l’umana possibilità di sostenerlo», entrare e pregare nel Tempio, che è, con un’espressione mirabile, «il taglio del tempo che si fa spazio e che noi siamo» (p. 10). Il Tempio è istituito dalla poesia, in Esso il Sacro del mondo si dà, in Esso noi siamo e in Esso parliamo per poterlo abitare.
Per giustificare l’intuizione leopardiana per cui la lirica sarebbe il genere sommo della poesia, Mazzarella intraprende un interessante percorso dalla modernità fondata in senso apodittico-scientifico nell’esperimento di Galileo e nel cogito di Descartes, per giungere in tal modo ai poeti della crisi e della nuova modernità che disconoscono la certezza galileiana/cartesiana, per la ragione che l’io soggetto di sostanza del Seicento ha perso, con il mutare dei secoli, il suo aggancio con il mondo. Con i poeti francesi della Décadence come Baudelaire, Mallarmé e certamente Rimbaud, piuttosto che di un aggancio si tratterebbe di un’acrobatica sporgenza verso le regioni dell’io che l’apoditticità della scienza galileiana/cartesiana non poteva più garantire. Di fatto, la certezza di quest’io è sì rimasta intatta, ma è divenuta pressoché inutile nella nuova modernità, in cui non si cerca più un centro valido in ogni punto dell’universo (esaudendo con ciò l’eccentricità di Bruno ricordata anche dall’autore) bensì una via per rinsaldare la frammentazione del mondo altrimenti incomponibile. L’io è certo, ma a essere ora in questione è l’essere del mondo diventato dubitabile.
Ai fini della salvezza, ricorda Mazzarella, l’impostazione galileiana è un approdo nel nulla, poiché se l’io si fonda in ogni punto dell’universo è come se in verità non si fondasse in nessuno. Il punto di Archimede, dall’io indefettibile, si è trasferito, insieme alla sua ovvia istanza di salvezza, all’intrico dedalico della città ottocentesca. E tuttavia tale dislocazione non porta ad alcunché, poiché, come le strade parigine di Baudelaire (i passages che saranno anche di Benjamin) che possono portare dappertutto, le promesse di rendere «abitabile la terra dopo averla lanciata nel cosmo, non sono mantenute» (p. 30). Mi sembra dunque che questo processo tracciato da Mazzarella per giungere a Leopardi possa essere riassunto in tre momenti: l’acquisizione della certezza nel cosmo galileiana/cartesiana, la perdita di questa certezza susseguente allo spaesamento del mondo moderno a cui l’io cartesiano è inadeguato, il tentativo di un faticoso riacquisto della certezza, definibile come la ricerca di una nuova abitabilità della parola nella poesia intesa in senso eminentemente lirico. Citando Mandel´štam e Montale, ciò che adesso conta è ripensare poeticamente un nuovo rapporto tra l’io e il mondo, e proprio in questa tensione sarebbe da rinvenire la ragione più profonda della poesia moderna.
I poeti dunque sono sì, con Heidegger, i più arrischianti, ma anche i sismografi del mutare dell’essere: «L’io lirico è anche qui il sensorio comune anticipato dell’io veramente umano di ogni epoca che si cerca un mondo spirituale» (p. 42). Oppure, con una frase per me oscura, ma forse tale perché ho comunque il sentore che abbia una bellezza fondamentale e che sia la più importante del libro: «È per questo che qualunque lingua parli il poeta, se è veramente poeta, alla fine egli è sempre capito» (p. 42). Il poeta veramente poeta è colui che esprime non una lingua particolare ma la lingua del darsi onto-storico dell’essere. Potremmo capire sempre questo poeta perché la sua lingua, tradendo il Benjamin di Über die Sprache, dice l’uomo all’essere, perché egli canta il nostro stare al mondo, e facendo ciò, ci porta a noi stessi come abitatori del Tempio.
Molto profonda, proseguendo, l’analisi sul Qohélet, per Mazzarella un’opera di importanza poetica universale. È «un’anima che deve sentire un’anima» (p. 56), una saggezza mondana che confina con lo gnosticismo e con il sapere del nulla, una «miscredenza ontologica» (p. 66) e una sfiducia nell’essere che paradossalmente diviene meno certo del nulla, «un capolavoro poetico, e un dramma morale» (p. 73), la «tristitia del cuore, morta a ogni cosa nuova» (p. 74).
Le analisi del Qohélet, così come sono distribuite nel volume, sembrano anche anticipare in modo assai intrigante le sottili riflessioni su Leopardi, il poeta lirico della modernità par excellence. La proposta ermeneutica di Mazzarella, leggendo le sue pagine, è delle più felici, poiché il ritratto di questo infelicissimo puer è quello di un eccellente interprete di una modernità fuorviata, ma soprattutto di un sapiente riscrittore in forma poetica del Qohélet, dello gnosticismo antico e del problema del male con cui il poeta recanatese si confronta di continuo. È per questo che Leopardi costituisce uno dei migliori interpreti e rappresentanti della cosiddetta storia del nulla, in cui il dolore, la sofferenza, il male e la Luna (che guarda e che nel mostrare la sua luce nasconde l’ombra in cui risiede la certezza dell’esistenza del nulla stesso e in fondo anche la sua ragione che sempre si sottrae) sono riconosciuti come i prodromi e il manifesto di quella che in modo brillante Mazzarella definisce la «religione selenitica degli umani deserti di senso» (p. 97), per la quale ogni anima alza gli occhi tentando di arrivare proprio all’ombra. Ma non è la frustrazione scontata di tale anelito a suonare l’ultima sconfitta dell’umano al mondo: essa è semmai la constatazione più profonda che l’umano potesse avere della necessità di una lirica.
La domanda leopardiana è infatti, mossa da questi pungoli, quella necessaria: che fare, dunque, dopo aver saputo il male? I corni della risposta mi sembrano i seguenti. Dapprima essa risiede nell’immaginazione come sapere di bene e male, che scoperchia il fondo vero e doloroso delle cose, ma che è anche l’immaginazione in quanto poietica del canto lirico: «È sempre essa ciò tramite cui l’io lirico può tentare infinitamente, concepire l’infinito, averne nozione sentita. La punta della lancia che ha ferito è anche l’unica che può medicare la ferita che essa ha recato» (p. 104, corsivi nel testo). In secondo luogo, e qui mi sembra che Mazzarella tenti di formulare il senso della poesia leopardiana: «Consegna di sé alla musica delle sfere. Qui non è il nulla a sedere immoto sull’io, pesato alla culla e peso alla sua tomba, ma è l’io che finalmente si spoglia di sé, non più offeso dal tacito infinito andar del tempo, ma intento a esso, pareggiato alla sorella luna, mentre questo andar del tempo lo dice» (p. 106, corsivo nel testo).
L’ultimo approdo della poesia leopardiana, nel modo in cui viene interpretata da Mazzarella, sembra ai miei occhi un atto poetico e cantato di dissolvenza nel cosmo, una consegna in forma musicale alle vibrazioni delle leggi metafisiche che governano il tutto. La poesia di Leopardi è insieme quindi conoscenza del male ontologico del vivere, ma un continuare a esistere nell’unico modo in cui il mondo può essere abitato, in una poesia lirica, cioè, che renda abitabile il mondo stesso nella parola del suo darsi. Provando con un’altra formula: il mondo è sopportabile perché la poesia, la parola, ce lo rende abitabile, conoscendolo e cantandolo.
Le penetranti considerazioni su Leopardi conducono dunque alla parte conclusiva del libro che ho già preannunciato all’inizio di questo testo, la quale si regge quasi integralmente sulle riflessioni heideggeriane sulla poesia. La parola è, in ultima analisi, «la soglia in cui l’essere dell’io fa il suo ingresso nel mondo e si pone in cammino verso “Io sono”, che lo porta al mondo» (p. 111, corsivi nel testo). La parola raccoglie quindi l’essere dell’umano e lo conduce al mondo nell’atto stesso del suo darsi. L’Io sono non è la certezza cartesiana, è invece l’accadere di questo evento linguistico in cui uomo ed essere si appropriano nella parola poetica, che istituisce il mondo e nello stesso tempo avvicina l’essere dell’io al suo principio. La parola è soglia di silenzio, suono, luce, è il grido di chi viene al mondo, è ferita ed è carezza, è descrizione lirica ma anche intuizione lirica (cfr. pp. 121-122), è un ascolto che induce a dire dal germinio delle fondazioni, è il sentire più profondo e originario per cui «vedi nell’attimo il destino, la fugacità del momento che si salva e si accetta e prende la parola» (p. 122). La poesia dunque, specie quella lirica, è «l’arrivo del Sé presso se stesso. Arrivo di parola, arrivo nella parola» (p. 125, corsivo nel testo). La poesia è il Tempio scoperto come parola al quale devo tendere con la parola stessa. Direi vagito natale e insieme canto del cigno.