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132. Recensione a: Luca Guidetti, Gli elementi dell’esperienza. Studio su Ernst Mach, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 239. (Alberto Giovanni Biuso)

La critica dell’esperienza – in particolare dei suoi presupposti e condizionamenti nascosti anche di natura metafisica – attuata da Ernst Mach è stata e continua a essere assai feconda. La sua influenza sul movimento fenomenologico consiste tra gli altri in due elementi: l’individuazione dell’«ambito preteoretico e vitale delle sensazioni» (p. 213) come luogo da cui sgorgano i concetti; un profondo legame tra sensazioni, concetti, saperi scientifici.
La filosofia di Mach viene analizzata in questo libro con molto acume e in modo chiaro. Uno dei fondamenti è la distinzione tra regola e legge sulla quale si basa l’intera epistemologia di Mach, a partire dalle critiche rivolte alla teoria kantiana della conoscenza. Quest’ultima infatti non distinguerebbe la regola come «forma del processo effettivo che lega la “condizione” come premessa al “condizionato” come conseguenza» e la legge come «principio o struttura formale a cui deve sottostare, di necessità, ogni caso particolare come esemplificazione» (p. 10).
Un altro presupposto e insieme risultato della critica di Mach all’esperienza è la continuità tra elementi e relazioni, che non costituiscono un duplicato gli uni delle altre ma il modo insieme plurale e unitario nel quale i processi gnoseologici entrano in relazione con il mondo.
Fondamentale è poi la critica – ampiamente presente anche nella fenomenologia husserliana – della matematizzazione dell’esperienza: «Nessuna posizione assiomatica, per quanto ricca e articolata, può confondere le strutture formali dei principi e degli strumenti matematici impiegati con la natura dei fenomeni che ci si presentano nell’esperienza. L’errore logico consiste nella pretesa di ricavare dai simboli il loro significato», con la conseguenza che «mediante un preliminare scambio tra i segni matematici e la realtà, la meccanica finisce per assegnare ai corpi le proprietà dei segni stessi come l’elementarità, l’invariabilità, la costanza e l’omogeneità» (pp. 24-25).
La scoperta e la critica di questi e altri fondamenti metafisici della meccanica classica – tanto che, scrive Mach, «in tutti i fatti osservati troviamo sempre, in modo chiaro, un principio che non è dimostrato, ma di cui abbiamo constatato l’esistenza» (p. 42, nota 141) – aiuta a comprendere come alla base della concezione moderna del mondo stia «una mitologia meccanica, alla stessa stregua delle mitologie animistiche degli antichi» (p. 75).
Siamo in un ambito assai fecondo di critica alle certezze anche più consolidate perché, come ha mostrato la più avvertita epistemologia del Novecento, non deve esistere nessun ambito di verità assolute, per la semplice ragione che tali verità non ci sono e la conoscenza procede per congetture, confutazioni, accoglimento e superamento di paradigmi, molteplicità e trasformazione dei progetti di ricerca, invenzioni molte delle quali spariscono dall’ambito scientifico ma altre si mostrano invece indispensabili per il progresso della conoscenza umana.
Due dei temi machiani ai quali Guidetti dedica particolare attenzione sono tra di loro legati. Si tratta della termodinamica e della sensazione di tempo.
Per quanto riguarda la prima, vengono esposte in dettaglio le fonti della critica di Mach sia alla dinamica classica sia alle posizioni di Boltzmann e di Clausius. L’esito è la fondazione dell’irreversibilità su un terreno matematico e fisico molto solido, come si vede da queste chiare sintesi: «Carnot si era dunque avvicinato alla formulazione del cosiddetto “principio zero” della termodinamica, secondo cui l’equilibrio termico, che rappresenta lo stato del sistema e il punto conclusivo della produzione di lavoro, viene raggiunto i quando due corpi interagenti a temperature diverse finiscono per avere la stessa temperatura dopo un processo temporale unidirezionale» (p. 88). «Tuttavia lo stesso Carnot aveva rilevato come nei processi dinamici effettivi, in cui si verificava il passaggio di calore da un corpo a un altro, venisse perduto o “distrutto” del lavoro, e quindi dell’equivalente in calore, rendendo impossibile ristabilire la stessa quantità di calore iniziale. Intorno alla metà del secolo, Rudolf Clausius si poneva così il compito di formalizzare tale squilibrio nel cd. “Secondo principio”, rilevando come solo nel passaggio da un corpo caldo a un corpo freddo si produca lavoro, mentre se si vuole convertire il processo è necessario consumare lavoro nella stessa quantità estraendolo da uno stato esterno al sistema, dato che il calore trasportato e quello convertito in lavoro nel corso del trasferimento non si equivalgono in un processo interno o “chiuso” che sia parte di un processo più ampio in cui intervengono forze e stati esterni al primo. In altri termini, il trasferimento di calore che produce lavoro avviene “naturalmente” in una sola direzione, mentre per ottenere un risultato equivalente nella direzione contraria occorre introdurre ulteriori alterazioni nel mondo circostante. […] Clausius osservava come la formula che esprime l’equilibrio meccanico del “Primo principio” non venga meno nei processi di trasformazione termodinamica che andavano a costituire il “Secondo principio”, ma esprima quel caso-limite, di tipo ideale, in cui la trasformazione è effettivamente reversibile, ossia un fenomeno che, di fatto, non si verifica mai in natura» (pp. 97-98).
A partire da qui le complesse analisi di Mach pervengono alla tesi che «il tempo del processo è il tempo dello sviluppo positivo di un fenomeno che si svolge in un’unica direzione dal passato al presente; ad esso non si può contrapporre un “tempo negativo” che retrocede poiché, quando invertiamo il processo, si tratta in realtà di un altro tempo positivo che non si muove sulla stessa linea ma su una linea solo simile alla prima. Che senso avrebbe, infatti, un tempo in cui il futuro precede il passato?» (p. 105).
La convinzione che nei fatti fisici gli elementi e le relazioni convergano conduce Mach a una concezione meglio fondata del tempo anche perché olistica rispetto alla atomizzazione degli istanti della meccanica classica e in parte anche della psicologia di William James, alla quale pure Mach deve molto. Si può dire che «Mach sia stato il primo a intravedere nelle strutture temporali, che si manifestano già a livello sensibile, un’irriducibilità di principio agli specifici contenuti elementari che contrassegnano le successioni di istanti, momenti e tratti temporali parziali» (p. 203).
Una esemplificazione di tale concezione tanto efficace quanto chiarificatrice di come funzionino le nostre vite è data dalla spiegazione della evidente diversa percezione del tempo e dei suoi ritmi quando si è giovani e quando invece si diventa vecchi: «Ogni tratto ha dunque la medesima estensione fisica, ma una differente intensione psichico-biologica. Ad esempio, nell’individuo giovane le esperienze, in virtù della loro novità, appaiono più ricche e significative, più importanti per il corso della sua vita. Esse catturano l’attenzione sia per gli aspetti favorevoli sia per quelli dannosi, suddividendo l’unità temporale fisica in piccoli e numerosi bit d’informazione, sicché la totalità del tempo vissuto nell’unità appare più lunga. Al contrario, nella maturità e nella vecchiaia hanno luogo i fenomeni della ripetizione ciclica, della familiarità e della monotonia, i quali espandono i momenti sensibili attraverso la somiglianza e l’abitudine, rendendoli meno numerosi e interessanti. In tal modo, la totalità del tempo vissuto appare più breve» (p. 192).
Tratta da James, tale ipotesi viene da Mach integrata, criticata e completata attraverso una serie di riflessioni sia psicologiche sia fisiche che confermano ancora una volta la fecondità della critica dell’esperienza formulata non in nome di presupposti idealistici e nemmeno soltanto epistemologici ma quanto più a ridosso e in continuità con i concreti risultati e sviluppi delle conoscenze scientifiche, senza però limitarsi a rimanere nell’ambito per definizione circoscritto delle scienze empiriche.

(10 giugno 2022)

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