Il libro di Donatella Di Cesare, intitolato Utopia del comprendere. Da Babele ad Auschwitz, pubblicato nel 2021 dalla casa editrice Bollati Boringhieri, è una nuova edizione del libro Utopia del comprendere, uscito nel 2003 presso l’editore il Melangolo. Oltre all’aggiunta del sottotitolo Da Babele ad Auschwitz, la riedizione del libro presenta alcune modifiche rispetto al testo della precedente edizione, una bibliografia integrata e aggiornata e una sezione inedita su Walter Benjamin che conclude il terzo capitolo «Traduzione e redenzione». La raffinata riflessione sul tema del comprendere che l’autrice porta avanti in queste pagine affonda le sue radici nel confronto, nel dialogo o, meglio, in un «dibattito improbabile» (p. 142) dell’ermeneutica filosofica di Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer con la decostruzione di Jacques Derrida. Partendo dalla relazione tra essere e linguaggio nello sfondo dell’ermeneutica filosofica, la questione del comprendere, nei suoi nessi con il tradurre e l’interpretare, viene messa a dura prova in due situazioni-limite che costituiscono le estremità dell’itinerario percorso: il cantiere di Babele, nei famosi versetti di Genesi 11,1-9, universo concentrazionario in cui il progetto totalitario di una lingua unica e un pensiero unico aveva messo in secondo piano il valore della stessa esistenza umana, e Auschwitz, riproposizione novecentesca di quello scenario, secondo la tesi portata avanti in questo libro alla luce delle riflessioni di quegli ebrei tedeschi, in particolare Benjamin, che hanno offerto il loro contributo sull’estraneità della lingua e sulla questione del tradurre.
Il primo capitolo, intitolato «Essere e linguaggio», si apre con l’affermazione di Gadamer contenuta nelle ultime pagine di Verità e metodo, «L’essere, che può essere compreso, è linguaggio» (p. 13), sottolineando la centralità che il linguaggio assume nell’ermeneutica filosofica. Di Cesare, analizzando accuratamente la celebre frase che risulta essere ambigua nella traduzione dal tedesco alla lingua italiana, fa emergere che, a partire dall’interpretazione dell’autore stesso, Gadamer non identifica l’essere con il linguaggio bensì pone in relazione essere e linguaggio mediante il comprendere, termine medio tra i due. «L’essere che si dà a comprendere è linguaggio. O anche: l’essere, che si presenta con il carattere della comprensibilità, avrà per ciò stesso anche il carattere della linguisticità» (p. 20). Nel passaggio dall’essere al linguaggio, Gadamer ribadisce il compiersi di uno scarto delimitativo che non solo sottolinea i limiti del comprendere, ma anche quelli del linguaggio. Al movimento linguistico dal finito delle parole nel loro presentificarsi all’infinito del non-detto è improntata la dimensione ermeneutica in cui l’essere può essere compreso, in un movimento che deve continuare a oltrepassarsi.
Nel secondo capitolo, «La comprensione ermeneutica del linguaggio», l’autrice, partendo dalle pagine di Essere e tempo in cui Heidegger tratta della secondarietà dell’enunciato (non del linguaggio) come modo derivato dell’interpretazione, mostra una differenza rilevante fra l’ermeneutica heideggeriana che ha le sue radici nell’analitica esistenziale dell’esserci e l’ermeneutica di Gadamer che segue il suo maestro Heidegger ma, mentre quest’ultimo, «rinviando a qualcosa che è al di là dell’enunciato, sembra evocare una comprensione affrancata dal logos, Hans-Georg Gadamer intende l’esperienza originaria della comprensione sempre come linguisticità» (p. 33). Quest’ultima è quella virtualità del non ancora detto che resta sempre sullo sfondo di ciò che è detto, del non ancora compreso che resta sempre sullo sfondo del comprendere. La linguisticità anela sempre al linguaggio, ma è destinata a scontrarsi con i limiti della nostra finitezza, tentando sempre a oltrepassarli. Questo movimento costitutivo corrisponde a quella che Gadamer chiama la “struttura speculativa” del linguaggio. «La metafora dello specchio porta alla luce la capacità della parola detta di riflettere l’infinità del non-detto. Ogni parola effettivamente detta, in quanto è finita, svela un oltre, lascia intravedere un’ulteriorità» (p. 40).
Il terzo capitolo, «Traduzione e redenzione», è inaugurato dall’evocativa immagine biblica della Torre di Babele, primo documento di riflessione sul linguaggio e sulle lingue, interpretato in larga parte come l’emblema della punizione divina per via della confusione delle lingue, ma, d’altro canto, desta un fascino particolare, anche per il significato positivo dell’incompiutezza e della dispersione che è possibile attribuirgli, come si evince in tutta la storia dell’ermeneutica ebraica. «La torre non rappresenta la molteplicità irriducibile delle lingue, ma mostra anche l’impossibilità di completare e di totalizzare» (p. 52). La prima risposta alla dispersione delle lingue e all’incomprensione tra parlanti che ne deriva è stata la traduzione. Partendo da qui, la storia della traduzione è sempre stata legata indissolubilmente alla riflessione sul linguaggio. Dopo un’accurata digressione storica sulle diverse concezioni di traduzione che si sono succedute nel corso della riflessione sul linguaggio, Di Cesare introduce il paragrafo inedito su Benjamin e, in particolare, il suo prezioso contributo sulla questione del tradurre. Per Benjamin, l’incontro che si dà tra le lingue nella traduzione è come un dialogo. Il tradurre da una lingua all’altra non è una sostituzione di etichette, ma il passaggio da un’articolazione del mondo a un’altra. Tradurre significa portare l’estraneo nel proprio e portare la traccia del proprio nell’estraneo. Partendo dal mito della Torre, Benjamin denuncia l’uso strumentale della lingua e invita a guardare la “magia” del linguaggio, la profondità semantica della lingua. Benjamin è presentato come il pensatore che ha avuto la capacità di vedere la relazione tra linguaggio e politica. «Tradurre è liberare. La traduzione libera tutte e due le lingue, perché facendo “amorosamente” entrare nella propria il modo di intendere dell’originale, fa apparire entrambi sotto un’altra luce» (p. 90).
Nel quarto capitolo, «In esilio nella lingua materna», l’autrice pone l’accento sulla lingua madre come mediatrice del mondo che, in una determinata lingua storica, si è andato articolando nel corso delle generazioni. La lingua materna ci accompagna dalla vita alla morte, è insostituibile, unica, originaria, non si può tradurre e non si può tradire. Dopo la “svolta”, Heidegger accentua l’intimità della lingua e «il linguaggio diviene dimora dell’essere» (p. 116). Il linguaggio appare sempre più come l’abitare dell’uomo, ma a partire dalla riflessione di Gadamer, quel luogo familiare diviene d’improvviso inquietantemente estraneo. La diversità delle lingue viene ricondotta alla diversità del parlare individuale e, riguardo alla questione del comprendere, la non comprensione non riguarda più solo gli altri. «L’inquietudine dell’incomprensione passa il confine e si insinua all’interno di una stessa lingua» (p. 115). Viene messa in dubbio l’idea del possesso e della proprietà in rapporto con la lingua materna. A tal proposito, Di Cesare tratta del popolo ebraico che tradizionalmente, come gli è vietata la proprietà della terra, così gli è interdetta la proprietà della lingua. Il popolo eterno non ha una lingua propria, «la sua lingua è sempre la lingua dell’altro, la lingua dell’ospite» (p. 118) e, inoltre, dopo Auschwitz il rapporto tra la lingua tedesca, considerata da molti ebrei lingua madre, e i parlanti ebrei si interrompe traumaticamente. La tensione presente in ogni rapporto tra lingua e individuo raggiunge in questo caso il limite estremo, ma, in generale, la lingua interdice la proprietà e «il parlante è gettato nella traduzione assoluta, senza lingua di partenza e senza lingua d’arrivo» (pp. 130-131) e il parlare risulta essere un migrare di parola in parola. A partire dall’estraneità della propria lingua materna e dalle tracce cancellate della semantica espatriata, è il poeta, il più esiliato dei parlanti, che può ancora prendere la parola.
Il quinto capitolo, intitolato «Il dialogo della poesia», mette in luce come, per l’ermeneutica, la poesia risulti il luogo in cui si può vivere con l’altro come l’altro dell’altro. Gadamer considera la poesia «il luogo in cui sorge la domanda: chi sono io e chi sei tu?» (p. 138). La poesia, in quanto dischiude l’apertura del dialogo, è un invito a crearsi una dimora, non si limita a rinviare a qualcos’altro, ma mentre distoglie da sé rinvia al contempo a sé, per questo è possibile parlare di poesia in termini di linguaggio “in senso eminente”.
Nel capitolo sesto, «Il comprendere. Tra ermeneutica e decostruzione», Di Cesare sviluppa la sua riflessione sul comprendere relativamente al confronto tra ermeneutica e decostruzione, mettendo in evidenza similitudini e differenze delle due filosofie sorte da un terreno comune: entrambe hanno proseguito il cammino aperto da Heidegger. Il dialogo tra queste due correnti principali della filosofia continentale contemporanea, definito un “dibattito improbabile” dalla maggioranza dei partecipanti e testimoni relativamente all’incontro tra Gadamer e Derrida tenutosi a Parigi nel 1981, è un dialogo che «si è interrotto all’inizio» (p. 144), eppure quel dibattito fa epoca e continua ad ispirare nuove generazioni di filosofe e filosofi.
Nel settimo e ultimo capitolo, «Utopia del comprendere», omonimo dell’intero volume, Di Cesare prosegue analizzando il concetto di utopia attraverso le letture anarchiche di Gustav Landauer e Paul Celan secondo cui «quel luogo che non c’è più, non c’è ancora, ma ci sarà pur sempre, si staglia oltreconfine, nella “rivoluzione del respiro” che rompe il silenzio» (p. 9). È nell’apertura di una parola che non è più dimora fissa né statica che l’autrice, attraverso l’immagine ebraica della tenda, luogo di incontro con l’altro, l’estraneo, il tu che insieme all’io costituisce il noi della lingua di cui nessuno è proprietario, fa emergere l’intreccio tra la questione politica e quella del linguaggio, caratterizzante l’intero tessuto narrativo del libro.
(20 dicembre 2023)