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163. Recensione a: Giorgio Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza, Vicenza 2019, pp. 128. (Giulia Ruas)

Il Giardino dell’Eden è il paradigma teologico affrontato da Giorgio Agamben nel suo libro Il Regno e il Giardino del 2019. La parola “Paradiso” significa, originariamente, “Giardino”: è questo il punto di partenza del filosofo romano, che rinuncia ad un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del Giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico Giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il Regno e il Giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il Giardino dell’Eden, il Paradiso terrestre, sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano, come ad esempio Agostino, al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. Giardino, o meglio, Paradiso, scrive Agamben, è il nome che autori spesso dimenticati del periodo protocristiano, come Efrem Siro e Sant’Ambrogio, hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima della Caduta originaria. A causa del peccato gli esseri umani sono stati banditi dal Paradiso terrestre e secondo Agamben è proprio questo il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che l’uomo vi abbia dimorato, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore, quanto il suo esserne stato cacciato: «Non il Paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Tracciando una genealogia dell’idea costruita attorno a questo Paradiso, Agamben intende discutere l’allegoria dell’espulsione dell’uomo dal Giardino e il mito del peccato originale. L’opera di Agamben è divisa in sei capitoli e porta sulla copertina il dipinto di Jheronimus Bosch, Il Giardino delle delizie, da cui trae il titolo il primo capitolo del libro. Per la riflessione di Agamben, assumono singolare importanza gli studi realizzati da Wilhelm Fraenger, che descrivono come la restaurazione dell’innocenza edenica dell’uomo in un Paradiso terrestre trovi la sua origine in un’interpretazione che unisce l’Eden, l’origine di tutto, e il Paradiso, dove essi costituiscono «l’assoluta simultaneità di uno stesso stato di coscienza» (p. 10). La novità delle sue analisi risiede nella considerazione dell’influsso che ebbero, sull’opera di Bosch, le idee di Jacob van Almaengien, il quale l’aveva ispirato con le credenze di una società eterodossa di cui era membro, i Fratelli del Libero Spirito, per i quali «la perfezione spirituale coincideva con l’avvento del Regno e con la restaurazione dell’innocenza edenica di cui l’uomo aveva goduto nel Paradiso terrestre» (p. 10).
Indagando le origini della parola Paradiso, Agamben analizza come essa sia stata presa in prestito da una lingua all’altra, come se, per qualche motivo, fosse intraducibile. Il termine greco paradeisos, in latino paradisus, appare per primo in Senofonte e complice anche la sua derivazione avestica assume il significato di, «pairidaēza, grande giardino recintato, da pairi, intorno e daeza, muro» (p. 11). Tuttavia, decisiva fu, per Agamben, la traduzione nella Bibbia dei Settanta (prima traduzione greca dell’Antico Testamento), del termine ebraico gan, un terreno irrigato e coltivato, in Genesi con la parola paradeisos, un giardino recintato e, quindi, di accesso esclusivo agli eletti, al posto del comune kepos, che indica semplicemente un giardino. Questi riferimenti mostrano, secondo Agamben, il valore tecnico della scelta del termine “Giardino di Dio” nella Genesi. La dottrina del Paradiso, per mezzo di una tradizione esegetica, è stata interpretata da Ambrogio come un’allegoria dell’anima umana. Il Paradiso inizia a perdere il carattere di innocenza ed è convertito in un’allegoria, dove Adamo ed Eva rappresentano due facoltà dell’anima, «l’intelletto (nous) e la sensazione (aisthesis)» (p. 16). L’uomo fu posto nel Paradiso, sottolinea Ambrogio, con il compito di preservare «il dono della perfetta natura e la grazia della piena virtù» (p. 17). Per Agamben, Ambrogio esprime il nucleo di quello che diventerà il Paradiso, il rapporto tra l’idea di giustizia divina e punizione. Il filosofo arriva a dimostrare come l’idea del peccato originale si trasformi in una sorta di ombra proiettata sulla natura umana, costituendo un «mitologema originale della cultura occidentale» (p. 19).
La narrazione dell’espulsione dell’uomo dal Giardino costituisce una specie di trauma, che lo ha condannato all’insuccesso nella ricerca della felicità sulla Terra. Tuttavia, esso è la condizione per consolidare un dispositivo strategico della teologia cristiana, l’economia della salvezza, all’interno della quale la concezione del peccato originale, inteso come ciò che corrompe incurabilmente la natura umana, è essenziale. Riguardo al tema del peccato della natura, Agamben analizza l’apporto di Sant’Agostino nella dottrina del peccato originale. Molti studiosi discutono l’origine di questo concetto nella tradizione teologica cristiana; secondo Agamben la chiave per comprendere l’origine di questo discorso si trova nei testi di Agostino, il quale si servì di passaggi di Ilario, Ambrogio e Cipriano (non sempre fedelmente), per giustificare la propria teoria. Nell’interpretazione della Lettera ai Romani, Agostino afferma l’idea del peccato originale associato alla natura hominis, alla semplice esistenza, alla vita naturale. Per sottolineare l’incoerenza della lettura agostiniana, Agamben ritorna al dibattito con i Pelagiani, i quali affermavano esattamente il contrario, ossia che Adamo non trasmise il peccato agli uomini, bensì la mortalità del corpo. Di conseguenza, motivi ecclesiali e teologici si mescolano nella dottrina del peccato originale di Agostino. Per Agamben, questa premessa è utilizzata per giustificare sacramenti come il battesimo, facendo sì che «i bambini che non hanno potuto essere battezzati sono irrimediabilmente dannati» (p. 30).
La critica dell’autore affronta non solo le concezioni del peccato originale, ma lo svuotamento della liturgia cristiana e dei suoi sacramenti. Agostino fonda l’origine della natura corrotta dell’uomo dal peccato originale, e il risultato dell’atto di Adamo come quello di una massa perditionis. Il termine massa in Agostino designa la condizione dell’umanità dopo la Caduta, costituendo un paradigma teologico-politico che nella modernità riscopre il proprio sentimento. La massa damnata, per definizione, può liberarsi solo attraverso l’intervento divino. Agostino esclude qualsiasi possibilità di giustizia sociale connessa con quella giustizia originale che esisteva in Paradiso. La natura umana è stata irrevocabilmente corrotta dal peccato di Adamo e ogni pretesa di mantenere un rapporto con la giustizia edenica è riprovevole e illusoria.
Contro questa visione agostiniana, nel terzo capitolo Agamben cita due opere: il Periphyseon di Scoto Eriugena e la Commedia di Dante. Insieme, Eriugena e Dante hanno costituito la più radicale confutazione della dottrina agostiniana. Secondo la tesi di Eriugena, sostiene Agamben, l’uomo non ha mai vissuto nel Paradiso: la vita di Adamo in Paradiso deve essere compresa come riferita al futuro e non al passato. Come Origene e Ambrogio avevano suggerito, Eriugena pensa il Paradiso allegoricamente, negando la dottrina della natura corrotta attraverso la colpa di Adamo. Per Agamben, Eriugena anticipa la dottrina di Spinoza, dove il male non è un elemento legato alla natura, bensì «un difetto di potenza» (p. 61). Ciò che può essere punito è un movimento della volontà umana e non la natura dell’uomo. Diversamente dalla tradizione che prevale nella Chiesa latina, che sostiene la connessione irrimediabile tra natura e peccato e la conseguente scissione della natura umana tra natura originale (ora perduta) e natura lapsa, Eriugena pensa la vita come un’unità, creata nell’immagine e nella somiglianza di Dio. Pertanto, la vita dell’uomo non può essere corrotta, né può essere salvata, poiché coincide con la stessa grandezza celeste. Allo stesso modo, in contrasto con le posizioni di Agostino, nel capitolo La divina foresta Agamben riprende l’opera di Dante Alighieri e verifica come egli abbia risolto il problema del peccato e del Paradiso in una prospettiva eretica. Nella definizione di Dante, il Paradiso terrestre non è altro che la figura della felicità umana. Di conseguenza le azioni umane, non la natura, sono la causa dell’infelicità tra gli uomini. Ne Il Regno e il Giardino si mostra come Dante indicasse una soluzione al problema del peccato e del Paradiso del tutto eretica rispetto all’opinione ortodossa di Tommaso d’Aquino, una soluzione che è tanto individuale che collettiva, cioè del tutto politica. Dante infatti sostiene che il paradiso terrestre non è altro che una figura allegorica della beatitudine umana o, nelle sue parole, civile. La beatitudine è cioè l’esercizio della propria virtù, la quale è legata all’amore, all’uso della cosa amata, e quindi nella coincidenza di virtù, intelletto e amore è la chiave della felicità terrena del genere umano. Ancora, per Dante la venuta del Cristo è stata sufficiente a restaurare l’integrità della natura umana, la redenzione è così già avvenuta e quindi non ci sarebbe alcun bisogno dei sacramenti amministrati dalla Chiesa.
Quindi, una volta di più, Agamben usa Dante per specificare che sono le azioni umane, e non la natura, al contrario di come dicono sempre i teologi, a provocare l’infelicità dell’uomo: il paradiso terrestre di Dante è la negazione del paradiso dei teologi. Questa analisi porta Agamben al problema del Paradiso e della natura umana, dove egli sviluppa un’altra divisione, quella tra Natura e Grazia. Secondo Pietro Lombardo, Adamo non sarebbe stato creato all’interno del Giardino, ma vi fu messo in un secondo momento «non per natura, ma per grazia» (p. 87). L’uomo per primo ricevette i suoi doni naturali (naturalia), e solo più tardi, in un secondo momento, i doni della grazia (gratuita). Questi doni furono concessi a tutta l’umanità, ma vennero rimossi quando Adamo commise il peccato. Per Agamben, la natura umana nella tradizione teologica è concepita a partire dalla «non-natura che ha perduto, così come il corpo che è stato messo a nudo è definito dalla veste di cui è stato spogliato» (p. 92). La grazia viene rimossa e rimane il carattere residuale dell’uomo, la punizione del peccato, producendo, secondo Agamben, il dispositivo che cattura e divide la natura umana. I teologi non solo separano la natura umana dalla grazia, ma anche il Giardino dal Regno.
Questo è il tema dell’ultimo capitolo, Il Regno e il Giardino, in cui l’autore mette in discussione questa divisione e afferma che «esiste una tradizione in cui il Paradiso terrestre e il Regno di Dio, sono collegati» (p. 106). Questa letteratura apocalittica si trova nel tardo giudaismo, nella visione profetica che conclude il Testamento di Levi, dove si sottolinea che, alla fine dei tempi, quando «il Signore abiterà in mezzo a Israele» (p. 106), sorgerà un nuovo sacerdote che aprirà le porte del paradiso terrestre. «L’emergere del Regno escatologico coincide con la riapparizione dell’albero della vita e la restaurazione della condizione paradisiaca» (p. 106). In questo contesto, possiamo dire che il Regno e il Paradiso erano elementi che permettevano ai teologi di spiegare la natura umana e la sua beatitudine. Solo successivamente essi sono stati divisi in due momenti, uno preistorico, il Giardino nell’Eden, e uno post-storico, il Regno, che, tuttora, rimangono separati e incomunicabili. Contro questa separazione forzata tra questi due poli, osserva Agamben, è importante ricordare, con i chiliasti e con Dante, che il Giardino e il Regno sono due momenti di una singola esperienza del presente, che possono essere riconciliati. Entrambi sono elementi connessi, dice Agamben, poiché «solo il Regno dà accesso al Giardino, ma solo il Giardino rende pensabile il Regno» (p. 120). Ovvero: si accede alla natura umana solo storicamente attraverso una politica, ma questa, a sua volta, non ha altro contenuto che il paradiso, cioè, nelle parole di Dante, la beatitudine di questa vita. Agamben comprende la necessità di negare questa natura umana imperfetta, che sopporta il peso della colpa e del peccato. Dall’analisi agambeniana risulta che bisognerebbe reinterpretare i Vangeli e ripensare la natura umana attraverso la politica, come storicamente costruita, e, a sua volta, quest’ultima come non avente altro contenuto che quello del Paradiso, della “beatitudine di questa vita”, cioè della felicità. Per l’autore, la felicità degli uomini sulla terra è tesa fra questi due estremi polari: il Regno e il Giardino.

(30 gennaio 2024)

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