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165. Recensione a: Antonio G. Balistreri, La scrittura come scoperta, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 226. (Enrico Palma)

Questo volume ha il merito di proporre numerose piste teoretiche e di svilupparle unendo le voci dei principali autori che si sono espressi su un tema assai importante, sarebbe il caso di dire fondativo e ontologico, quale è quello della scrittura, non mancando tuttavia di formulare ipotesi filosofiche originali. La scrittura viene declinata da Balistreri come quel dispositivo che più di tutti ci rende umani, ci rende anzi pensanti, esseri dotati di parola, e quindi di linguaggio, che creano, tentano di dare delle risposte all’enigma del vivere e di opporre una possibilità di senso alla dissoluzione del morire. La scrittura come idea incrocia quindi il perché del suo sorgere e la propria scaturigine, le forme in cui si articola (dalla poesia al romanzo), le attese che dovrebbe soddisfare e la definizione di ciò che l’essere è.
Come prima notazione, l’autore si sofferma sul bisogno del tutto naturale, intrinseco all’umano, di scrittura, di lasciare un segno nel suo cammino esistenziale che sia in grado di dire qualcosa di nuovo: «Si scrive dunque perché lo scrivere genera scrittura, per mettere in funzione il processo di partenogenesi della scrittura. Scriviamo perché abbiamo da dire cose che non sono state dette e che ci sono ancora ignote a noi stessi. La scrittura è un viaggio per terre incognite» (p. 12). Scrivere permette dunque di scoprire mondi e verità di noi stessi che altrimenti non si sarebbero rinvenuti, è un processo in cui l’essere si crea, in cui il mondo, le cose e gli eventi nominati giungono, per così dire, a una concretezza ideale: concretezza perché dalla nube pulviscolare di ciò che poteva essere significato la parola scritta intercetta l’ente e lo dota di un’espressione; ideale perché si trova a un livello sia di significazione sia di espressione che pertiene alle capacità astratte di attribuzione di senso dell’umano. La scrittura, in tal modo, è anche una via in cui il pensiero stesso si crea. Balistreri giustamente ricorda autori paradigmatici su questo tema, Schopenhauer su tutti, che si sono posti il problema della correlazione tra pensiero e scrittura, se la prima preceda la seconda o se invece sia un accadere unitario e che non può essere scomposto, di modo che il pensiero si farebbe soltanto scrivendo, quando assume una forma rigorosa, precisa e appunto ideale nella pagina, nell’esaustività di un codice.
La scrittura allora, come reca il titolo, è un viaggio di scoperta, un esperimento continuo, un attraversamento nel quale per ogni parola scritta accade un disvelamento di una verità sopita, oppure una creazione. L’opera letteraria, ad esempio, non precede l’autore, il quale la toglie come uno scultore dal blocco di marmo. L’opera diviene e avviene nel processo stesso della scrittura, in cui pensiero creativo e pensiero architettonico, progettuale, diventano tutt’uno. Sulle orme di Calvino, Balistreri afferma: «La letteratura non ha messaggi da mandare, nemmeno problemi da affrontare. Diversamente, si tradisce la funzione propria dello scrivere che è quella di aprire un nuovo ambito di conoscenza, entrare in un altro spazio, scoprire nuove realtà» (p. 28). A cui segue: «Si scrive quindi perché affidiamo alla scrittura stessa il compito che le è proprio, quello, cioè, di farci aprire nuovi mondi». È anche per tale ragione che l’atto dello scrivere risulta così affascinante e coinvolgente, poiché non si sa mai in partenza a cosa condurrà. E ciò ha a che fare con il suo potere maieutico, di estrarre e formulare verità del sé che senza scrivere non si sarebbero mostrate per quello che sono; oltre che con la sua facoltà creatrice, come detto la sola in grado di istituire e consegnare all’espressività e alla condivisione un senso nuovo.
La vita ha bisogno di scrittura per attribuire un senso a stessa. Più nello specifico, come aveva già intuito Ricœur, è nella costituzione ontologica dell’umano il bisogno di provvedere a una narrazione, di creare insomma una storia con cui definire se stesso. Se la temporalità, giusta la lezione heideggeriana, è il senso dell’essere dell’esistenza, in altri termini il suo orizzonte di senso e di possibilità, a essa si aggancia la narrabilità, il poterne fare una storia. È in questo punto che la letteratura e la vita si incrociano, che in senso teoretico l’esistenza diventa alla lettera biografia, scrittura della vita. La vita assume un significato solo se viene raccontata e se l’esistenza nella sua totalità è intrisa di storie che si trasmettono, si comunicano, si condividono. L’afflato relazionale di cui consiste l’essere-con dell’esistenza è anzi dettato dalla possibilità di raccontarsi a vicenda, diventando caso esemplare non appena la vita incontra la scrittura letteraria.
Secondo l’autore, partendo da un presupposto kunderiano, il definirsi della vita attraverso una storia è l’essenza del romanzo: «Così la vita si fa romanzo, ciò che di casuale c’è in essa diventa destino» (p. 30). Quella forma particolare di scrittura, che si suole anche definire forma d’arte, e che è la letteratura, soddisfa una delle più fondamentali richieste di senso dell’esistenza, quella di darle un destino, una significazione generata dalla riflessione che ripiega sulla vita, sul suo passato e sulla sua storia. «Quello che la letteratura si propone è fare della casualità e frammentarietà della nostra esistenza un’unità di senso compiuto, in cui cioè la nostra vita si dipana da un unico filo, trasformando così in destino ciò che altrimenti rimarrebbe solo mero accadere contingente» (p. 30). Insistendo nella metafora, la vita è fondamentalmente una storia che accade, ma diviene realmente se stessa quando la matrice biologica del suo accadere diventa scrittura, quando la parola la trasforma e la consegna a una dignità ontologica superiore, almeno per un paio di ragioni: poiché dotata di un maggiore significato, raccolto appunto in un unico filo; poiché se verrà conservata durerà oltre l’esistenza caduca e segnata inesorabilmente dal morire.
Un’esistenza autenticamente vissuta è quella che comprende che vita, pensiero e scrittura sono parti uguali di un tutto, manifestazioni di un’unica entità. La vita e il pensiero sarebbero confusi, opachi e aleatori se non ci fosse uno strumento in grado di offrire la definizione di cui necessitano per dirsi realmente tali, per raggiungere l’obiettività e l’equilibrio. È vero che l’esercizio della scrittura è sempre un’approssimazione verso il concetto, che probabilmente sfuggirà sempre nella sua purezza; ma tale approssimazione sarebbe anche difficile da pensare se a mancare fosse la scrittura come sua condizione di possibilità. Dal nostro punto di vista, le parole di Balistreri a questo proposito sono da ritenersi esatte: «È come se la scrittura andasse a captare la nebulosa iniziale del pensiero e la costringesse a formare un sistema solare. La scrittura agisce così da condensatore rispetto alla vaporosa inconsistenza del pensiero nascente. Senza di essa il pensato rimane non pensato, puramente virtuale, perché ci si accorge di avere dei pensieri solo quando trovano espressione linguistica ed in particolare quella scritta. La scrittura è lo scandaglio che porta in superficie i pensieri annidati nel fondo della nostra mente» (p. 35).
Molti scrittori, da Marco Aurelio a Kafka, hanno sottolineato l’importanza della scrittura per affrontare tutto il problematico dell’esistenza, uno strumento di verità che sonda nel buio per dare un’espressione alla tenebra del sé. Molto cose sfuggono alla scrittura, essa non è onnipotenza su di sé e sugli enti, come ogni cosa umana è segnata dal limite e dall’imperfezione. Ma sarebbe vano non accoglierne la necessità, che va molto oltre la mera utilità: «Scrivendo le idee si connettono, si compongono, si trasformano in pensiero strutturato e la scrittura diventa la forma di manifestazione del pensiero. Anzi di più: la scrittura è ciò per cui si dà il pensiero» (p. 35). Si tratta di una posizione metafisica molto forte, quasi paradossale, passibile delle stesse critiche che furono mosse a Derrida e alla sua accanita opposizione contro il cosiddetto logocentrismo. Eppure, questo è un modo tra i più penetranti per inquadrare la questione, ovvero che noi pensiamo in quanto scriviamo. Se non scrivessimo, non sapremmo pensare con la raffinatezza e l’eleganza che contraddistinguono le grandi opere letterarie ma più in generale l’umano. «La scrittura gioca un ruolo capitale, quello cioè di dare nuova forma al pensiero, fino ad identificarsi con la stessa forma pensante. La scrittura modifica il pensiero, ne crea un altro di tipo diverso, ordinato secondo una struttura logico-sintattica che il pensiero associativo o simultaneo non conosce» (p. 91).
La scrittura ha l’obiettivo, implicito o dichiarato, di giungere a ciò che il linguaggio stesso, mostrandosi, sottrae, quell’inesprimibile verso il quale si è comunque in continua tensione: «La scrittura aspira a misurarsi con compiti che vanno oltre ogni limite e per i quali non esistono forze umane sufficienti. La meta della scrittura è ciò che sta oltre il linguaggio» (p. 42). Ciò da cui il linguaggio ha origine, che attira come un gorgo trasformando in parole quello che ha attirato dentro si sé. Il linguaggio, come ben sapeva Wittgenstein, è la gabbia dentro la quale ci si dibatte e che si è costretti comunque a usare se si vogliono significare il mondo e le cose. La scrittura è allora la catena con cui ottenere la liberazione dal velamento che le è da imputare. Secondo Balistreri, questo è il compito dello scrittore: «Laddove, quando si parla, il linguaggio nasconde la cosa, lo scrittore si propone invece di darci la cosa, nascondendo il linguaggio, rendendolo trasparente al punto da non avvertirlo più» (p. 46). Molto spesso la grande letteratura, specie quella del Novecento, si incarica di mostrare ciò che non può essere definito con precisione, attingendo comunque al suo quid più profondo attraverso la narrazione. Se un concetto, un’idea, non possono essere definiti, possono essere oggetto di narrazione, della quale, ad esempio, Beckett e ancora Kafka sono stati indubbi maestri. Ma nella narrazione, nel fare cioè scrittura, si può pervenire, come suggerisce Balistreri, a una definizione.
La riflessione di Balistreri tocca anche la relazione tra la scrittura e il sacro, essendo infatti la parola scritta il principale veicolo della comunicazione tra il divino e l’umano. Le religioni più diffuse e affermate del mondo sono non a caso religioni del libro. La scrittura è allora il geroglifico dell’essere, la più potente facoltà di cui l’umano dispone per attribuire un senso a se stesso e al mondo, dal punto di vista ontologico è anzi il luogo nel quale l’essere si dà e si concretizza. Dio parla ai profeti, si è incarnato come parola nelle varie figure messianiche. Ma con radicalità Balistreri afferma: «La realtà divina si rivela attraverso il Libro. E Dio si serve della scrittura per dare carattere eterno e imperituro alla sua rivelazione. O addirittura Dio stesso è la Scrittura» (p. 150). In ogni caso, penetrare filosoficamente la scrittura e i fenomeni che a essa sono legati significa comprendere l’essere, il sacro, e il posto che l’umano ha al suo interno se vuole vivere consapevolmente aspirando a una redenzione.

(18 marzo 2024)

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