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L’uscita del volume di Guido Cusinato, Periagoge. Theory of Singularity and Philosophy as an Exercise of Transformation, presso l’editore internazionale Brill, figura come la traduzione inglese del libro uscito in italiano nel 2014: Teoria della singolarità e filosofia come cura del desiderio. In realtà si tratta di un’opera per molti aspetti completamente nuova, in cui i temi dominanti nella riflessione teorica che da molti anni Cusinato dedica alla formazione dell’individuo come «singolarità» ricevono una ridefinizione essenziale, articolandosi, da un lato, in una lettura dell’esperienza esistenziale come processo antropogenetico, dall’altro, in un’analisi originale del ruolo che la filosofia può svolgervi come esercizio di trasformazione. Traspare, su entrambi i versanti, l’intento personale che muove la ricerca, conferendo anche agli aspetti più speculativi della trattazione il taglio sperimentale di un’esperienza vissuta.
L’autore sceglie un’immagine altamente drammatica, la periagoge del titolo, per focalizzare l’attenzione del lettore sul lato oscuro e violento del processo formativo (pp. 66-69). Nel contesto platonico da cui la trae (la cosiddetta “allegoria della caverna” nel settimo libro della Repubblica), la parola indica il movimento di «torsione» del collo che consente a un prigioniero, improvvisamente liberato, di distogliere lo sguardo dalle ombre di cui si nutrono i pensieri dei suoi compagni di prigionia, per rivolgere gli occhi agli oggetti e alla luce che lo aspetta fuori (Rep. VII 515c-d). Cusinato si appropria della potenza di questa immagine, che in Platone indica il momento in cui il filosofo si apre a una nuova modalità di pensiero attraverso un immediato distacco dal mondo delle opinioni comuni, e la usa per rappresentare la radicalità necessaria a un processo personale di formazione
Dal lato interpretativo, l’aspetto più interessante di questa operazione sta nel richiamare l’attenzione su ciò che avviene al prigioniero liberato prima che una possibile visione della realtà gli appaia alla luce del sole: evitando di costruire ipotesi metafisiche sulla rivelazione dell’Essere che, secondo una certa tradizione interpretativa, attende il prigioniero fuori dalla caverna, Cusinato pone in primo piano la dimensione soggettiva della crisi che un cambio di paradigma comporta e ne propone un’originale applicazione all’esperienza esistenziale dell’essere umano. È qui che la parola periagoge assume il significato più ampio di «conversione» e, appoggiandosi all’accezione “tecnica” che Platone le assegna come attitudine a mutare direzione allo sguardo (Rep. VII 518d3-7), diventa un procedimento che si può apprendere e praticare nei momenti chiave di un’esperienza di formazione, cioè quelli in cui una crisi costringe a prendere le distanze dal già noto e ad assumere una nuova prospettiva: «Therefore, there must be “a specific technique of conversion” (techne […] tes periagoges) that teaches how the soul can more effectively be turned around, bearing in mind that it already possesses sight but that, without this art, it cannot turn the gaze toward “the right direction” (R. VII, 518d). For Plato, the problem of philosophy becomes a problem of perspective and periagogic conversion» (p. 67).
Il riferimento a Platone, e, come si vedrà, a un Platone più aporetico che dotato di certezze dottrinarie, connota in modo significativo la ricerca di Cusinato, che si avvale di un’attenzione fenomenologica a ciò che il filosofo antico rappresenta dell’esperienza umana e alla portata teorica degli schemi da lui usati per interpretarla e dirigerla. Mi è sembrato perciò opportuno partire dall’immagine della periagoge, per evidenziare il modo in cui anche altri costrutti platonici vanno a caratterizzare snodi importanti nella struttura teorica del libro, di cui si cercherà di rendere conto senza pretesa di completezza. Non lo consente l’ampiezza di raggio della ricerca, che da un lato rintraccia radici antiche della questione formativa, esplorando i tratti cognitivi e emozionali della costruzione di sé in Platone, dall’altro si affaccia sul panorama contemporaneo di studi sulla persona, sulla cura di sé e del mondo, incrociando fenomeni di stretta attualità, come la deriva narcisistica dell’individualismo post-moderno e la perdita della dimensione affettiva nelle maglie sfuggenti di una socialità degradata.
In ogni momento del percorso, filo conduttore della ricerca è una trama concettuale precisa (definita in anteprima nel Glossario), che collega l’antropogenesi al progetto individuale di «formazione», vincolando i possibili sviluppi della «singolarità personale» alla radice ontologica dell’incompletezza, che non consente né di arroccarsi in un’«identità», né di pensarsi auto-sufficienti. La prospettiva offerta dal concetto di «singolarità personale» si delinea quindi in opposizione al modello identitario del «Sé autoreferenziale» (Self-referential Self), capovolgendo il valore negativo delle esperienze di crisi, nel rapporto con sé stessi, e privilegiando l’apertura alla condivisione emozionale con altri.
Un secondo filo conduttore è offerto dalle immagini che l’autore usa per rappresentare momenti cruciali di quello che può definirsi il suo romanzo filosofico di formazione. Dopo quella del prigioniero platonico, altre immagini illustrano da angolature particolari il panorama simbolico in cui l’autore si muove: L’onda di Hokusai, letta come rappresentazione del momento in cui il processo formativo subisce una paradossale accelerazione per effetto di un’esperienza traumatica; L’annunciazione, letta come figura della trasformazione ispirata da un richiamo inatteso o subita come un ordine; la Scala di Climaco (opera bizantina del VII secolo), letta come modello di un’ascesa dominata dalla superiorità schiacciante del divino; la Cena a Emmaus, episodio evangelico rappresentato da diversi artisti (tra cui Tintoretto e Rembrandt), letta come modello di un problematico riconoscimento o di un’improvvisa illuminazione. L’interpretazione di queste opere ha un ruolo significativo nell’elaborazione del discorso dell’autore, che da esse trae spunto per mettere a fuoco, in modo immediato e intuitivo, implicazioni e risonanze degli schemi teorici proposti.
Seguendo la cresta dell’onda di Hokusai, Cusinato illustra, nella prima parte del volume, una modalità di sviluppo della personalità individuale in netta antitesi rispetto alla conquista di una forma sostanziale di identità: un percorso che ammette una ricorrente deviazione dalle norme acquisite, mirante a superare i limiti del Sé auto-referenziale e a trovare nell’incontro e nella cura per l’altro le condizioni di una nuova «nascita». La personalità individuale diventa allora il frutto di un’esperienza vissuta singulariter, cioè in modo non conforme a schemi precostituiti e perennemente esposta a rettifiche e a nuove acquisizioni. L’unicità, come riproposizione identica di sé stessi, appare invece un feticcio: un mito che erige il Sé al di sopra di sé stesso, come un monumento innalzato a sua permanente difesa, inducendo la paura del cambiamento. A questo «acrobatico erigersi» al di sopra di sé stessi del processo identitario, modellato sul paradigma della conquista della posizione eretta, l’autore oppone una «singolarità» che si costruisce fallendo e cadendo in basso, cioè affrontando ripetutamente l’esperienza della crisi che dissolve le precedenti certezze. L’assunzione della cura per l’altro, in un contesto di deviazione dalle norme, può allora guidare l’individuo a uscire dal rapporto autoreferenziale con sé stesso e a vedere nell’altro un esempio di esperienza possibile, che, alla maniera di un socratico daimonion, indica la strada nuova da percorrere.
Nella dinamica erotica di stampo platonico, cui Cusinato in senso ampio si appoggia, l’altro è l’amante, da cui si riceve ispirazione e cura in un rapporto di stimolazione reciproca, o il maestro da cui si prende esempio e con cui si dialoga, ma è anche una figura della dialettica interiore, in cui l’alterità, che cerca di farsi strada attraverso il desiderio, contrasta la chiusura dell’identità. Come figura interna alla dinamica del Sé, l’altro rappresenta un modo di essere dell’Io che deve ancora nascere. In questo senso si può leggere anche il riferimento al platonico mito di Er (Rep. X), in cui la scelta del proprio daimonion prima della nascita prefigura la forma di vita in cui ci si troverà, a sua volta scenario di innumerevoli scelte. Attraverso il richiamo alla simbologia del demonico, l’autore sembra voler affidare lo sviluppo della singolarità a una dialettica interiore fortemente conflittuale, dove demonico è ciò che si oppone e punta alla dissoluzione del precedente equilibrio identitario, ma anche ciò che spinge a darsi reiteratamente una nuova forma, raggiungendo un risultato di percorso tanto originale da potersi definire una singolarità. L’attenzione alla logica di questo processo si affianca alla ricerca del significato antropogenetico dell’apertura verso il nuovo e verso l’altro, assumendo come orizzonte di senso il valore costitutivo delle relazioni nell’esperienza umana.
Un’ipotesi cardine, su cui ruota per molti aspetti la ricerca del libro, è che la singolarità si sviluppi in funzione del desiderio, e che del desiderio occorra prendersi cura, diventando innanzitutto competenti delle proprie emozioni. L’obiettivo indicato è muoversi verso «un nuovo ordine del sentimento» (a new order of feeling), che sia in grado di contrastare il condizionamento delle agenzie educative disseminate in una società divenuta «liquida» (Bauman), ma in realtà molto attiva nel pilotare le emozioni e renderle funzionali a una forma di «allevamento» (breeding) non diversa da quella praticata con gli animali (§§ 3.4.7-12). Al rischio dell’omologazione si risponde, secondo Cusinato, risalendo alla dimensione originaria del feeling, cioè ai «sentimenti primordiali» che caratterizzano la percezione originaria della realtà: «At least three fundamental ramifications of feeling issue from the “trunk” of “primordial feeling” at the biosemiotic level: the feeling of the living body, of the social self and of the personal singularity. Feeling at the biosemiotic level and feeling at the level of the personal singularity are the least known, while ‘the feeling of the living body’ and ‘the social self’ have already been extensively investigated» (p.159).
Il sentimento di essere parte di una relazione con altri viventi, umani e non umani viene così collocato al livello «biosemiotico», che precede tutti gli sviluppi dell’affettività sul piano individuale, mantenendone l’impronta originariamente relazionale. Seguire a partire da qui gli sviluppi di una «personal singularity» permette di valorizzare il carattere intenzionale e qualitativo dell’esperienza, che in ogni suo aspetto non è mai affettivamente neutra, ma registra il modo in cui veniamo «toccati dal mondo», provando emozioni che conferiscono a ciascun aspetto dell’esperienza un valore e al soggetto che le prova una specifica posizione nella realtà. Indagare il modo in cui siamo toccati dal mondo significa entrare nel laboratorio antropogenetico da cui nasce la nostra personalità: «By metabolizing experience, the chisels of personal emotion sculpt the order of the heart. Every significant experience that touches me is metabolized into an additional piece in the puzzle of my physiognomy’s expressive process, or into the scar or trace of a disfigurement. Hence, to every significant experience corresponds a reconfiguration and enrichment of the singularity’s physiognomy» (p. 200).
L’obiettivo è raggiungere un «ordine del cuore», diventando consapevoli delle proprie emozioni e capaci di imprimere una direzione voluta al nostro «agire nel mondo». A questo impegno Cusinato vincola un programma di «cura del desiderio» che si sviluppa a contrasto con il più antico e suggestivo modello di dissipazione dell’energia psichica: l’immagine dell’«orcio forato», usata da Platone nel Gorgia per rappresentare l’insaziabilità umana o, più precisamente, l’idea di felicità dell’edonista estremo, basata su uno scorrere convulso dai desideri ai piaceri che non conosce misura o pienezza dell’anima (pp. 202-204). Per Cusinato, nessuna saturazione è possibile in termini di «riempimento», ma curarsi del desiderio significa imprimere un’intenzione e una guida alla sua forza vitale, che è «fame di nascere» (hunger to be born): «The care of desire expresses the intentionality of the hunger to be born. The ultimate end of the care of desire is the birth of the singularity and to ensure the continuation of its birth» (p. 220).
Il tema dell’esercizio e l’immagine dell’illuminazione dominano la seconda parte del libro, dedicata a definire un progetto di cura della singolarità, in cui la filosofia dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale come pratica di trasformazione. Definendo, nella parte introduttiva, «la filosofia come esercizio di trasformazione», Cusinato usa un’immagine suggestiva per sottolineare l’attuale difficoltà della nostra cultura a fronteggiare la costitutiva «insensatezza» (meaninglessness) dell’esistenza: «We are like glow-worms that have unlearned how to illuminate. In the age of repressive morals, thus until Nietzsche’s announcement of the death of God, human beings hovered around the magic lantern of the ascetic ideal. Now, in the age of narcissism, they buzz around neon advertising signs instead. They are “glow-worms” who have forgotten that they have within their own affective structure a precious potentiality of orientativity» (Introduction, p. 14).
Se le «lucciole» non sanno più servirsi della loro piccola luce, nessuna lanterna, più o meno ingannevole, potrà orientarle. Perciò, sottolinea Cusinato, non abbiamo bisogno di una teoria filosofica che definisca il senso della vita, ma di una pratica che ci aiuti a ritrovare un orientamento e una guida in rapporto con le nostre emozioni. Il compito che egli assegna a una «filosofia trasformativa» è appunto quello di identificare le tecniche più adatte a promuovere una maturazione affettiva, che renda capaci di comprendere e condividere emozioni; un compito in molti sensi opposto alla transizione post-umana messa in opera dall’intelligenza artificiale, da cui viene semmai una minaccia di estinzione per «l’essere umano in quanto “ens amans”» (p. 15).
Il tema della filosofia come esercizio di trasformazione è sviluppato nel lungo capitolo 6, che assume in prima battuta la pratica socratica della «cura di sé» come motivo ispiratore, escludendone una lettura intimista e impolitica, ma focalizzando l’attenzione sul valore di «esercizio» che essa ha per la formazione dell’individuo e per il suo modo di porsi in diversi contesti relazionali. L’elaborazione del metodo ha un riferimento importante in Hadot, per la critica a una tradizione filosofica che sembra aver dimenticato il suo ruolo antico di servizio alla vita, ma anche nelle prospettive di ricerca aperte dai filosofi della modernità che hanno costruito il loro percorso teorico a partire dal senso della propria esperienza (Cartesio, Spinoza, Kant, Schopenhauer, Kierkegaard).
Il riferimento a Platone torna importante attraverso un’interpretazione anti-dottrinaria della sua critica alla scrittura e una valorizzazione dell’aspetto confutatorio del dialogo socratico, in una prospettiva che collima con quella perseguita dall’autore, che assegna agli esercizi filosofici di trasformazione innanzitutto il significato di «purificazione» (katharsis) e di «svuotamento»: «Philosophy is an exercise of emptying, not filling. The generative moment is in emptying oneself in order to open oneself up to the new, while adipose saturation represents the passive, repetitive, and conformist moment» (p. 254).
Attraverso Platone, Cusinato conduce un interessante approfondimento sull’uso filosofico del concetto di katharsis (pp. 225-271), attingendo dal Fedone la problematica del distacco da sé (non solo dal corpo) e l’idea che imparare a morire sia un fondamentale esercizio di vita; dal Sofista, la prospettiva di un esercizio avanzato di purificazione della mente dall’ignoranza e dagli abbagli dei discorsi falsi. A questa prospettiva egli collega il rifiuto di una specifica forma di ignoranza, l’amathia, che aggiunge alla semplice mancanza di conoscenza (agnoia), la presunzione di sapere, chiudendo la porta al dubbio e al cambiamento. Di particolare interesse è la segnalazione della forte continuità di questo tema in Platone, ricavabile da un passo delle Leggi (731e-732b), in cui il rifiuto di apprendere viene associato all’indulgenza per sé stessi, cioè a quella forma eccessiva di amore di sé che chiude la porta a ogni critica e quindi ad ogni forma possibile di revisione del proprio presunto sapere. In questo senso l’amathia si presenta come una vera patologia dell’anima nel suo insieme, che include al suo interno un insanabile difetto cognitivo (§ 6.5.2). È dunque sotto l’egida del socratico “so di non sapere” che Cusinato assegna all’esercizio filosofico il compito di una ricorrente katharsis: una purificazione che svuoti l’anima dalle convinzioni che la riempiono, come un nuovo esercizio di morte, facendo emergere il sentimento della mancanza, la vergogna per la falsa presunzione di sé, il desiderio di aprirsi alla novità dell’esperienza.
Qui la ricerca di Cusinato incrocia il tema importante della «meraviglia», che in Platone e in Aristotele segna l’inizio della ricerca e in qualche modo distingue, come tratto caratteriale specifico e identificativo, chi ha disposizione all’esercizio della filosofia (pp. 276-285). A Cusinato interessa valorizzare soprattutto la versione offerta da Platone nel Teeteto, dove l’apertura alla meraviglia appare un modo di porsi di fronte all’esperienza complessa del vivere e del filosofare, mentre in Aristotele è soltanto lo stato mentale dell’ignorante, destinato ad essere superato, una volta conseguita la conoscenza delle cause di ciò che ha suscitato stupore. Per Cusinato, alla meraviglia bisogna rivolgersi come a un antidoto, per contrastare l’amathia, che è «il paradigma immunitario costruito dall’Io» a protezione della sua presunzione di sapere: «For the Platonic Socrates, the objective is not to completely overcome not-knowing (agnoia) in order to arrive at philosophy as a wonder-free sophia, but rather to purify and immunize the young Theaetetus from the not-knowing that claims to know, that is, from the seductions of amathia, on which is based the immunitarian paradigm that is constructed by the ego to protect itself from the wound that the trauma of philosophical wonder inevitably produces» (pp. 278-279).
Mantenere l’apertura alla meraviglia significa quindi, ancora una volta, valorizzare quella che nel linguaggio platonico è l’aporia, lo scacco, la confutazione teorica o pratica di quello che era sembrato un punto forte di una determinata visione delle cose. Nel contesto di questa ricerca, significa, in particolare, affrontare la negatività della crisi come un’occasione per cercare nuove risorse e, in quanto individui consapevoli della propria singolarità, per proporsi una nuova nascita.
Un universo di simboli e immagini iconiche tratte dalla tradizione antica viene associata all’esperienza perturbante della meraviglia (a partire da Iris, figlia di Thauma), anche per attutirne l’effetto devastante di «orrore» e in qualche modo suggerire che, abbandonando le proprie certezze, ci si apre alla possibilità di una «illuminazione». Cusinato si serve di un’approfondita analisi di alcune opere pittoriche per spiegare in che modo un soggetto può disporsi a un’esperienza illuminante, accogliendola o rifiutandola, a partire dal volgere lo sguardo per vederla. Un esempio è la Cena a Emmaus, nella versione di Tintoretto (p. 289, fig. 6.3), che offre il modello per parlare di un’illuminazione mancata (gli sguardi dei discepoli divergono dalla figura centrale di Gesù che spezza il pane, per occuparsi di altro). Cusinato lo applica suggestivamente a un modo di fare filosofia che distoglie lo sguardo dalla problematica realtà dell’esistenza per catturare un’impossibile verità metafisica: «This may also be what happens with the celebrated question that concludes Heidegger’s inaugural lecture at the University of Freiburg (1929) What is Metaphysics? “Why is there the existent [Seiende] in general, and not rather Nothing?” Those who remain within the optics of this question have not yet been touched by the world. If I ask a question and am in search of an answer, this is because I do not yet see. And I do not see, because, like the two disciples, I have turned in the wrong direction: in the absence of periagoge, my posture is still self-referential. Thus, the question “why is there the existent in general, and not rather Nothing?” transforms itself into the dead end of twentieth-century philosophy, since the questioning attitude that sustains it looks in the wrong direction. This question is not the fundamental question of philosophy as transformation, but, if anything, of the metaphysics of creatio ex nihilo. If, in contrast, in grasping existence outside the ego’s self-referential perspective, I feel the shock of being touched by the world, then I experience the fact of existing as an absolutely gratuitous surprise that transcends every principle of justification and ‘silences thought’, and this is so insofar as I suddenly experience the incredible fact that the existence of my singularity is absolutely without foundation. In this case, I stop questioning myself, and, seized by vertigo, I exclaim: “I exist!”. The question mark of the Grundfrage comes to be replaced by an exclamation point. Those who remain within the optics of this question have not yet been touched by the world» (pp. 298-299).
Alla prospettiva deviante della domanda heideggeriana sull’Essere o il Nulla, Cusinato oppone la consapevolezza operativa che consegue alla scoperta del fatto straordinario che semplicemente «Io esisto!» e in qualche modo rispondo a me stesso della gratuità della mia esistenza, nella sua infondatezza.
Tralascio, per brevità, di segnalare alcune toccanti suggestioni offerte da altre rappresentazioni pittoriche dell’episodio evangelico e quelle che Cusinato trae dal confronto tra i due modelli di Annunciazione esaminati (Botticelli e Tiziano), per precisare il senso dell’esercizio filosofico come pratica trasformativa. Mi soffermo invece su di un tema che presenta alcune problematicità. Cusinato infatti individua due modalità (fortemente alternative) in cui ci si può porre in relazione con l’altro per accoglierlo come stimolo allo sviluppo della propria individualità: «l’esemplarità», intesa come fonte di ispirazione «autorevole» (authoritative), che lascia il soggetto libero di muoversi in ogni direzione; il «modello» (model), come esempio che si offre in modo «autoritario» (authoritarian) all’imitazione di chi dovrebbe seguirlo, senza possibilità di scarto dalla norma che esso rappresenta. L’antitesi è presentata come decisiva per l’autonomia del percorso di costruzione di sé (pp. 91-92).
Ora, benché sia chiara l’intenzione dell’autore di sfuggire a modalità di pensiero e di azione già codificate nell’ambito del «senso comune» e di promuovere l’originalità interpretativa nel modo di aprirsi all’altro, credo che l’antitesi posta tra «esemplarità» e «modello» non sia priva di ambiguità. In primo luogo perché niente permette di distinguere prima facie i tratti autorevoli o autoritari di qualcosa o qualcuno che ci si presenta con una connotazione esemplare; niente, se non la volontà del soggetto di trascendere l’attrazione provata, attraverso un lavoro profondo su sé stesso. In secondo luogo, perché una definizione così ristretta e rigida del concetto di modello rischia di escludere (o rendere incomprensibile) il valore “normativo” che un modello può assumere come rappresentazione o progetto di una realtà desiderabile e praticabile insieme ad altri. È il ruolo che Platone assegna alle grandi idealità, collocandole come fonti di ispirazione per i soggetti che sono in grado di vederle: le idee del giusto e del buono, di cui si dice nel Fedro che susciterebbero «tremendi amori» se fossero visibili nella loro interezza, o la bellezza, che ha invece il pregio di rendersi «visibile» e di esercitare il suo fascino anche in forma di traccia (Phdr. 250c-d); o ancora il «paradigma» della kallipolis, città giusta e bella, di cui i «fondatori» discutono la ratio costitutiva (nei libri IV e V della Repubblica) e da cui ci si attende un effetto pragmatico trainante, una volta che il discorso l’abbia resa visibile e desiderabile come un «paradigma in cielo» (Rep. IX, 592b). Credo che in questa accezione, progettuale e normativa insieme (quale è quella proposta nei dialoghi platonici), l’uso dei modelli meriterebbe una considerazione più attenta, nel contesto di una ricerca sulle modalità interattive di «conversione» della mente. Se ne potrebbe discutere, proprio alla luce della rilettura di Platone in chiave fenomenologica (e non metafisica), che il libro propone.
Tornando al filo conduttore principale del libro, direi che, fino alla fine, l’indagine sulle possibilità offerte dalla «conversione» della mente mantiene fede a questa raggiunta consapevolezza esistenziale, destinando alla cura di sé un impegno non identitario e non protettivo, aperto a diversi tipi di influenze e interazioni, ma non all’accettazione di autorità esterne o di codici precostituiti.
Una curiosità, che forse segnala l’intenzione di sovvertire l’autoritarismo dei modelli etici anche negli abituali pregiudizi di genere, è l’uso del pronome personale femminile tutte le volte che nel testo ci si riferisce a un soggetto umano. A partire dal prigioniero della caverna, che diventa evidentemente una prigioniera: «She turned her head and thus shifts her gaze» (p. 12). Forse da una donna ci si attende che cominci un vero esercizio filosofico di trasformazione.
(25 marzo 2024)[:]