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168. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Zdanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande-Catania 2024, pp. 157. (Sarah Dierna)

Con un incipit che ha del céliniano Alberto Giovanni Biuso si ritrova a parlare ancora del presente e a farlo in modo inedito; inedito rispetto al racconto mainstream e mediato che l’informazione vuole lasciare intendere, sia chiaro. Anche per questo credo che la maggior parte dei lettori di Zdanov. Sul politicamente corretto, e non soltanto chi sta scrivendo, si accosterà a questo libro da neofita. In esso si fanno i conti con un presente silenzioso che scorre al fondo degli eventi ma che viene mascherato e obliato dentro una narrazione certamente più semplice ma assai più fittizia, dentro una favola forse a lieto fine ma assai lontana rispetto ai fatti della storia che realmente accadono.
Se si è disposti a concedere a «un mondo senza testa» una mente ben disposta, lucida e critica; se si è nello stesso tempo disposti a restituire il reale a una «testa senza mondo», ci si ritroverà alla fine «il mondo nella testa». Un Mondo nuovo, come quello raccontato da Aldous Huxley e molto simile a quello nel quale viviamo, agiamo e obbediamo. Dalla lettura di questo libro viene fuori però un mondo piuttosto buio rispetto a quello che ci si aspetterebbe; ma se è vero che la filosofia è «quell’ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, in «Opere», vol. IV/3, Adelphi, Milano 1967, p. 134), è anche tale ombra che Biuso tenta di mostrare.
L’autore riflette infatti sul diffuso, dibattuto e abusato tema del politicamente corretto mostrando la natura non soltanto linguistica della questione; sulla ‘missione distruttiva’ della cancel culture che nel tentativo di eliminare le discriminazioni semina di fatto ignoranza; sulla Gender Theory e il suo scopo di trasformare qualsiasi desiderio in un diritto, qualsiasi diritto in una libertà da perseguire a qualsiasi costo, pure a costo della libertà altrui; sull’ideologia Woke che nel ridestare l’umanità dal sonno della ragione rischia di renderla sonnambula e quindi più facilmente manipolabile. Di questi fenomeni Biuso mostra le ragioni ma soprattutto i rischi verso cui il piano inclinato intrapreso conduce. Il libro ha il merito di essere argomentato da «figure della conoscenza e non del potere» (p. 23), si distingue quindi dall’ennesimo impegno militante per discutere di tutto questo in modo filosofico e cioè tale da far emergere «la conoscenza come facoltà universale della nostra specie», quella in cui soltanto bisogna ricercare «l’individuazione e la soluzione dei conflitti, che sono un portato intrinseco, a volte distruttivo ma spesso fecondo, della natura umana» (p. 151).
E infatti uno degli elementi sui quali l’autore insiste a più riprese è proprio il progressivo impoverimento del sapere sempre più mutilato nelle sue parti storiche, linguistiche ed espressive. La cancel culture ostracizza la letteratura, la storia, la filosofia, la scienza; mortifica la grammatica italiana con l’acquisizione di nuovi simboli che non possono essere nemmeno pronunciati; impone un linguaggio asettico, neutro, standardizzato che nel tentativo di non creare discriminazioni rende di fatto ridicolo colui che lo parla. Il tutto è chiesto, inseguito e difeso per garantire la libertà di espressione ed eliminare qualsiasi discriminazione ma di fatto si risolve nella censura e nell’esclusione di coloro che dissentono, criticano e non si adeguano a simili misure; nella difesa, è vero, della «libertà di parola [ma] per le parole con le quali concordiamo» (p. 132).
Il linguaggio sul quale il politicamente corretto interviene non è soltanto uno strumento accessorio adibito alla comunicazione ma è un organo centrale e necessario del pensiero; non a caso Ernst Cassirer aveva ben identificato l’umano come un animale simbolico. Come egli chiarisce, il simbolo non è soltanto trasmettitore di contenuti ma anche loro facitore poiché costruisce e insieme plasma il significato che si vuole trasmettere. Ciò spiega l’urgenza di intervenire sulle parole introducendo un genere neutro preferibile al maschile e al femminile, di preferirne alcune e di evitarne altre; agire su di esse significa infatti agire anche sul pensiero. Cancellare la pluralità linguistica e favorire allo stesso tempo un’unica lingua di comunicazione significa veicolare il pensiero, garantire uniformità e conformismo; promuovere inclusione, accoglienza, integrazione, universalismo, globalizzazione, il che equivale alla «costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile» (p. 90).
Rendersi conto di tutto questo diventa più difficile se si cancellano saperi come la storia e la filosofia; se non ci si impegna a conoscere il passato che ritorna e si ripete; se il fatto educativo vuole mirare ad annullare qualsiasi differenza e garantire a tutti non le stesse condizioni ma gli stessi risultati. E invece è proprio la conoscenza che secondo Biuso affranca da tutto questo: «Bisogna ribadire con chiarezza che senza una conoscenza diffusa e condivisa della stratificazione culturale europea non è possibile diventare cittadini liberi e persone consapevoli. La conoscenza di tale stratificazione ridimensiona ogni pretesa esaustiva e definitiva del presente. Senza la conoscenza storica il presente viene idolatrato e questa è la forma più insidiosa di conservatorismo; senza di essa si smarrisce il senso della prossima distanza che gli autori antichi rappresentano: né esotici né attuali, essi costituiscono davvero l’inquietante diversità che ci consente di relativizzare ciò che siamo e quindi di comprenderci meglio» (p. 101); e nello stesso tempo l’inquietante vicinanza che ci consente inoltre di ‘vedere discosto’ come insegna Machiavelli al suo principe e di riconoscere nel presente che accade la via battuta da altri, le virtù da seguire e i percorsi da evitare.
Proprio perché la chiave ermeneutica del libro non è politica, non è sociologica e non è militante ma volta soltanto a capire il presente e a descriverlo, Biuso spiega quanto sta accadendo come «un passaggio dalla centralità dell’ontologia, ciò che è e che si è, all’etica, ciò che si deve essere» (p. 75). Contro l’etica è rivolto infatti uno dei sei capitoli che compongono il libro. Se nell’ontologia la varietà del mondo, delle sue forme ed espressioni viene chiamata differenza, nell’etica gli stessi elementi vengono distinti entro due categorie possibili, ciò che è giusto e ciò che non lo è, con la conseguenza di dovere considerare poi il secondo insieme (l’ingiusto) negativo e quindi da superare, cosicché la differenza ontologica diventa discriminazione etica. Già con il parricidio del temibile Parmenide si era mostrata la necessità della differenza affinché si potesse dire qualcosa sull’essere e l’insostenibilità della stasi data invece dall’opposizione all’essere. Il diverso è un genere sommo che garantisce il movimento, qualcosa di cui la stessa presunta parte discriminata paradossalmente ha bisogno per esistere come tale.
«Una metafisica capace di rispettare il reale, tutto il reale, la realtà della differenza» deve inevitabilmente riconoscere «anche la realtà della differenza tra femmine e maschi» (p. 124), non come misconoscimento delle ragioni e dei sentimenti bensì come riconoscimento del primato dell’essere su ciò che si sente o si desidera essere. Ontologia è anche ammettere la struttura biologica e fisiologica dei corpi, la negazione della quale non soltanto rappresenta un’ennesima conferma della tendenza all’uniformità ma secondo Biuso si spiega ancora con il dualismo cartesiano, con la radice moderna e antropocentrica del pensiero. L’esito di questa negazione sarà il transumanesimo che l’autore definisce chiaramente come una «forma completa dell’iperumanismo, del tentativo di condurre a pienezza e potere l’unicità umana dentro il mondo» (p. 108) che di fatto si tradurrà nel trionfo dell’algoritmo e nell’estinzione dell’umanità.
La lucida analisi di Biuso ha, tra i tanti autori di riferimento, certamente presente quel capolavoro che costituisce uno dei capisaldi della scienza politica, Il Principe, nel quale Niccolò Machiavelli ha messo in evidenza la piena e necessaria autonomia del potere politico dalla morale. La politica non guarda a come le cose dovrebbero essere – non è morale appunto – ma a come effettivamente sono e a come quindi si devono considerare. L’agire del principe poteva infatti fare riferimento a dei criteri contingenti, orientati a seconda della fortuna dei tempi e dei sudditi su cui il principe deve di volta in volta governare. Non si tratta di non riconoscere sentimenti e desideri della comunità sociale ma di riconoscerli come tali, e cioè come sentimenti e come desideri sui quali la politica nulla dovrebbe dire e niente dovrebbe discutere.
Dinnanzi a tale quadro, del quale Biuso non si limita a tracciare le figure e sfumature di colore e di significato ma identifica anche la causa che sussume in sé queste dinamiche soltanto apparentemente slegate tra di loro, la pennellata luminosa proviene secondo l’autore da un impegno di natura metapolitica, inteso come un «impegno a pensare il reale, mostrarne i limiti i rischi e le possibilità affrancandosi totalmente dai media, dai giornali, dalle televisioni, dal flusso dominante della rete. Difficile, certo, ma nelle vicende umane la libertà non è mai stata un regalo» (p. 22). Occorre «demoralizzare il problema e ripoliticizzarlo», altrimenti il rischio che si corre è «la dissoluzione dell’Europa» (p. 44).
Come anche in Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, Viagrande-Catania 2022), libro che Biuso ha pure dedicato al presente e alle sue ombre, mi sembra che sia sempre troppo poca la responsabilità riconosciuta a coloro che obbediscono. Rispetto alle dinamiche descritte credo possano valere le parole di Machiavelli secondo il quale «sono tanto semplici gli uomini e tanto ubbidiscono alla necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare» (N. Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano 2019, cap. XVIII, pp. 177-178). Che sia la vicenda del Covid o l’ampio, variegato e pervasivo fenomeno del politicamente corretto, a me pare che alla fine la faccenda consista proprio nel fatto che chi inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Parlare di Politically Correct, Gender Theory, cancel culture e Woke, in un periodo storico in cui il problema è ancora morale e poco politico, avendo come unica musa la filosofia rende questo libro una guida assai utile per il presente, per farsi un’idea del proprio tempo apprendendolo però con il pensiero e non davanti al televisore.

(29 aprile 2024)

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