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176. Recensione a: Giovanni Cerro, Tra natura e cultura. Degenerazione, eugenetica e razza in Giuseppe Sergi (1841-1936), ETS, Pisa 2024, pp. 326. (Giovanni Frascà)

Giuseppe Sergi fu senza dubbio una figura di spicco del positivismo italiano tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento: il suo impegno nell’istituzionalizzazione della psicologia retta su fondamenti scientifici e la divulgazione delle opere di Herbert Spencer in Italia – risalgono al 1881 la sua traduzione dei The Data of Ethics e il saggio introduttivo ai The Study of Sociology – sono solo due dei motivi che giustificano l’urgenza del prezioso studio di Giovanni Cerro. I sei capitoli che compongono il saggio riservano una scrupolosa attenzione al concetto di degenerazione, all’eugenetica e all’idea sergiana dei gruppi etnici ponendo l’intera produzione intellettuale dell’antropologo messinese in rapporto al panorama scientifico europeo, a un tempo influenzato dai furori risorgimentali e inevitabilmente compromesso dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Attraverso un preciso confronto con l’antropologia criminale di Lombroso (cfr. Cap. I, pp. 37-94) e uno sguardo di ampio respiro sull’impellente questione meridionale passando per gli scritti di Niceforo e Gramsci (cfr. Cap. V, pp. 247-274), il volume intende rileggere tutta l’opera di Sergi come un tentativo d’interpretazione del rapporto fra natura e cultura «alla base non solo dell’antropologia, ma anche dell’eugenetica e, più in generale di gran parte delle scienze umane e sociali che sorgono o si consolidano tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento» (p. 7). A tal proposito, è senz’altro corretto sostenere con Cerro che il positivismo di Giuseppe Sergi vide in Spencer, prima che in Auguste Comte, una fonte privilegiata: al filosofo inglese andava il merito di aver compreso ed analizzato la società alla stregua di un organismo e che, in virtù del suo funzionamento, vi fosse un legame imprescindibile tra sociologia e biologia che in Sergi darà luogo alla prima riflessione sistematica sul concetto di degenerazione nel contesto culturale italiano attraverso un articolo sulla Stratificazione del carattere e la delinquenza risalente al 1883.
Sin dalle prime battute dell’introduzione (pp. 5-35), il lettore potrà constatare il ricco lavoro di dettaglio realizzato dall’autore nella ricostruzione dell’ascesa accademica di Sergi dagli anni della formazione sino all’arrivo all’Università di Roma: non soltanto la totalità dei suoi scritti è ricapitolata e messa in dialogo con il clima filosofico del tempo – oltre a Gentile e Ardigò, Francesco Acri, Luigi Barbera e Pietro Siciliani –, ma a ciò si aggiunge uno studio analitico di tutta la corrispondenza fra Sergi e le maggiori autorità accademiche, tra cui Francesco De Sanctis, Francesco Magni e Paolo Mantegazza. Nato a Messina nel 1841 da una modesta famiglia destinata a dimezzarsi in seguito ad un’epidemia di colera, Sergi intraprese gli studi liceali classici per poi iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza di Messina e abbandonarla nel 1860 per partecipare alla battaglia di Milazzo dalla parte dello schieramento garibaldino. Gli interessi di Sergi per la filologia comparata, lo studio del greco antico, del sanscrito e del pitagorismo che coltivò come autodidatta culminarono in una prima opera di sapore positivista intitolata Usiologia ovvero scienza dell’essenza, edita nel 1868 e volta a sottolineare le mancanze della «filosofia nazionale considerata ormai succube del pensiero tedesco» (p. 9) in generale e dell’hegelismo in particolare. Se il filosofo Terenzio Mamiani salutò di buon grado lo studio di Sergi, le antipatie di Giovanni Gentile anticiparono lo spregio degli intellettuali italiani con il quale l’intera produzione sergiana sarà costretta a fare i conti fin dopo la morte dell’autore.
In seguito ad alcuni contributi filosofici apparsi sulla Rivista sicula di scienze, letteratura ed arti – Cerro ricorda l’articolo sul Sistema astronomico dei pitagorici del 1869 e i due saggi dedicati rispettivamente alla concezione della storia in Giambattista Vico e alla linguistica indoeuropea nel 1872 – è importante sottolineare la pubblicazione del manuale liceale sui Principi di psicologia sulla base delle scienze sperimentali tra il 1873 e il 1874: il volume anticiperà di un paio d’anni il faticoso dialogo con il Ministero della Pubblica Istruzione volto all’istituzione di una cattedra di psicologia nelle università e nelle scuole superiori, la quale avrebbe permesso agli insegnanti di filosofia di acquisire un metodo realmente scientifico – abbandonando finalmente le obsolete questioni metafisiche – e ai medici di ottenere un’idea più nitida dell’essere umano nella sua integrità. A tal proposito, è bene ricordare l’atteggiamento multidisciplinare di Sergi, che intendeva ridurre la distanza tra antropologia e psicologia, ora intesa come «una scienza antropologica che aveva per oggetto esclusivamente l’uomo in certe sue speciali manifestazioni, come la fisiologia» (p. 10). Tuttavia, il confronto con l’allora Ministro dell’istruzione Ruggiero Bonghi portò Sergi ad ottenere un semplice corso libero di psicologia all’Università di Messina nel 1878 – un anno prima della pubblicazione degli Elementi di psicologia, tanto apprezzati da Alfred Victor Espinas e Théodule-Armand Ribot, nonché della breve esperienza milanese legata all’insegnamento in Filosofia teoretica presso l’Accademia scientifico-letteraria – al quale seguirono l’abilitazione alla libera docenza in antropologia presso l’Università di Bologna e la collaborazione con l’Archivio per l’antropologia e la etnologia diretto da Paolo Mantegazza con l’articolo Sulla natura dei fenomeni psichici del 1880.
Il 1883 vide la nomina a Professore straordinario di antropologia nell’ateneo bolognese, presto accompagnato dal passaggio all’Università di Roma, dove la sua carriera ebbe un rapido sviluppo testimoniato, a titolo d’esempio fra i molti possibili, dalla pubblicazione delle Degenerazioni umane nel 1889 e dalla fondazione della Società romana di antropologia in seguito all’aspro distacco dalla scuola antropologica fiorentina e all’abbandono formale della Società italiana di antropologia ed etnologia di Firenze. Come è noto, l’equiparazione tra degenerazione, debolezza e atavismo esposta nelle Degenerazioni umane e la riforma craniologica debitrice dell’antropologia fisica di Blumenbach causarono una frattura fra Sergi e Mantegazza che segnerà un distacco fra le due scuole sino al Secondo dopoguerra; inoltre, la riforma volta a ridimensionare la craniometria costituirà il terreno preparatorio per la teoria della stirpe mediterranea presente nell’Origine e diffusione della stirpe mediterranea del 1895, grazie alla quale Sergi prenderà le distanze dai sostenitori dell’indogermanesimo come Poesche, Penka e Georges Vacher de Lapouge. Sergi unì al rifiuto categorico dell’arianesimo una decisa avversione al colonialismo e al militarismo: a questo proposito, è ben nota la condanna pubblica della campagna coloniale africana di Crispi e la conseguente proposta di abolizione degli eserciti nazionali (su questi aspetti cfr. pp. 143-156).
Allo stesso anno della stampa delle Degenerazioni umane risale la fondazione sergiana del primo laboratorio di psicologia sperimentale in Italia, in cui si formarono psicologi e pedagogisti di calibro internazionale come Sante De Sanctis, Francesco Saffiotti, Maria Montessori e Giuseppe Montesano. Amico del celebre biologo tedesco Ernst Haeckel – la legge della ricapitolazione costituisce notoriamente il nervo della teoria sulla stratificazione del carattere – Sergi contribuì all’organizzazione del XIII congresso del Libero Pensiero svoltosi a Roma nel 1904 inaugurando l’evento con un discorso dedicato alla funzione civile della scienza. Fu probabilmente la mancata propensione nell’anteporre la politica alla scienza a far sì che, durante il regime fascista, Sergi passasse dall’essere un protagonista nel movimento eugenetico internazionale – nel 1912 aveva guidato la delegazione italiana al primo congresso internazionale di eugenetica a Londra – ad occupare una posizione defilata, causata senz’altro dal mancato sostegno alla campagna natalista mussoliniana e dalle denunce degli effetti deleteri del conflitto sulla salute psicofisica dei soldati. Grande assente della Società italiana di genetica ed eugenica (Sige) di Corrado Gini – con Sergi e Niceforo aveva fondato il Comitato italiano per gli studi di eugenica nel 1913 – e del Comitato biologico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’ultima fase della produzione di Sergi sarà interamente dedicata all’evoluzionismo e alla promozione dell’eugenetica quale disciplina utile alla conservazione e al miglioramento dell’umanità: tra gli anni Venti e Trenta del Novecento vedranno quindi le stampe L’origine e l’evoluzione della vita (1921), La vita animale e vegetale. Origine ed evoluzione (1922), I mammiferi. Origine ed evoluzione (1923) e Il posto dell’uomo nella natura (1929). La sua ultima opera, I Britanni, venne quindi pubblicata nel 1936, anno della sua morte avvenuta a Roma all’età di novantacinque anni. Qui, Sergi dedicava le sue ultime energie intellettuali nel dimostrare l’appartenenza degli inglesi alla stirpe mediterranea. A tal proposito, di particolare interesse è il capitolo conclusivo del volume dedicato alla discussione e all’uso politico della teoria «camitica o eurafricana» (p. 275) da parte dei teorici del razzismo fascista: tra il 1938 e il 1942 il «mediterraneismo» (p. 277) di Sergi – secondo cui i popoli africani, orientali e settentrionali, e i popoli europei condividevano la medesima origine – divenne «un punto di riferimento obbligato per gli scienziati del razzismo».
Fra tutti, l’antropologo Guido Landra – per altro assistente volontario alla cattedra di Sergio Sergi, figlio di Giuseppe, all’Università di Roma – abbozzò nell’estate del 1938 su indicazione di Mussolini il futuro testo del Manifesto degli scienziati razzisti, Manifesto del razzismo italiano o Manifesto della razza. Il contenuto dell’articolo di Landra, pubblicato sulla prima pagina del Giornale d’Italia, imputava un cambio di rotta al razzismo italiano: «esaltando l’origine ariana degli italiani e la loro omogeneità etnica e negando qualsiasi affinità tra mediterranei, africani e semiti, il Manifesto smentiva tutti i presupposti su cui si reggeva la teoria della stirpe mediterranea» (p. 282). In effetti, erano molti i punti di discontinuità fra le due prospettive: l’esistenza delle razze umane passava dall’essere una costruzione sociale ad una realtà fenomenica percepibile sotto il dominio dei sensi grazie alla somiglianza fisica e psicologica delle masse; il concetto di razza era quindi «puramente biologico» (p. 280) e sinonimo di patrimonio ereditario e perciò non basato su considerazioni storiche, linguistiche e religiose; l’attuale popolazione italiana doveva considerarsi per la maggioranza ariana mentre era scarsa la percentuale di genti d’origine mediterranea; l’apporto di masse ingenti di uomini migrati in Italia nei secoli scorsi non era un fatto, ma una leggenda senza alcun fondamento; infine, dovevano considerarsi «pericolose tutte le teorie che postulavano l’origine africana dei popoli europei e comprendevano nella razza mediterranea anche i semiti e i camiti poiché stabilivano relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili» (p. 281). Alla pubblicazione del Manifesto seguì la creazione dell’Ufficio propaganda e studi sulla razza che aveva, tra i vari compiti, il dovere di far circolare il documento tra i docenti universitari e le società scientifiche. Lo scredito di Landra – che definì l’impostazione sergiana anacronistica e priva di fondamento scientifico – e la pubblicazione da parte dell’antropologo Giuseppe Genna dell’articolo dedicato a L’idea razzista nel pensiero di Giuseppe Sergi nel 1940 – volto a ristabilire, senza successo, gli studi di Sergi dimostrandone le affinità col programma del Manifesto – diedero il via alla popolare polemica che interessò figure come Giovanni Marro, Giovanni Preziosi, Telesio Interlandi e Giacomo Acerbo e che «determinò una profonda spaccatura nel mondo del razzismo italiano, che si divise tra sostenitori e detrattori della teoria della stirpe mediterranea» (p. 310). Come ben sottolineato da Cerro, «la teoria della stirpe mediterranea fu usata dunque dalle varie correnti del razzismo fascista quasi esclusivamente come uno strumento di lotta politica e di delegittimazione dell’avversario. […] In questo articolato contesto, ciascuna corrente adattò ai propri scopi le opere di Sergi, spesso più citate che lette, corredandole sempre con modifiche e precisazioni a sostegno delle proprie tesi» (p. 311).
Il nuovo volume di Giovanni Cerro su Giuseppe Sergi è un’ottima occasione per ricordare un’importante figura del positivismo italiano ed è destinato a diventare uno studio di riferimento nelle ricerche dedicate al rapporto tra antropologia, politica e società tra Ottocento e Novecento, anche a fronte dell’esaustiva letteratura critica citata. Con un sincero atteggiamento illuminista, Giuseppe Sergi non rinunciò mai a rivendicare «la propria indipendenza, tenendosi fuori dalle scuole esistenti e non esitando a criticare Lombroso, Mantegazza e Pigorini, ovvero i pionieri ciascuno della propria disciplina: Lombroso dell’antropologia criminale, Mantegazza dell’antropologia fisica e Pigorini della paletnologia. L’autonomia di giudizio e di pensiero di Sergi, così come la sua idea che gli studi sui gruppi etnici e sull’eugenetica dovessero essere svincolati dalle contingenze della politica, era considerata inaccettabile e, probabilmente anche pericolosa, dalla maggior parte dei sostenitori del razzismo fascista».

(4 luglio 2024)

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