domenica , 1 settembre 2024
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177. Recensione a: Antonino Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, il Mulino, Bologna 2024, pp. 189. (Caterina Scianna)

In tempi in cui la solitudine è pensata come una condizione da evitare, uno stato negativo posto in opposizione al modo di vivere attuale, in cui le connessioni e l’esposizione agli altri sembrano invece l’unica ragione d’essere, Antonino Pennisi propone un saggio in cui non soltanto ci ricorda che la solitudine è una condizione essenziale per la mente umana, ma anche come questa coincida con la condizione di riposo del nostro cervello. Il saggio, unendo riflessione filosofica e dati delle neuroscienze cognitive, prende in analisi il tema della solitudine e del linguaggio interiore, attraverso un percorso che illustra i diversi possibili tipi di solitudine, per concentrarsi su quello che è il suo oggetto: la solitudine come riflessione su sé stessi, la solitudine che non è costrizione, non è prigionia, ma è capacità di pensare in proprio. Una solitudine che il testo – aggiungendo un ulteriore stato alle sette solitudini individuate da Nietzsche nello Zarathustra – indica come ottava solitudine, non una condizione straordinaria ma, al contrario, la condizione normale del cervello umano che, non occupato in altra attività, libero da qualsiasi incombenza comunicativa, si impegna a parlare con sé stesso.
La solitudine del cervello che si dedica al pensare interiore rappresenta un tema estremamente affascinante, molto caro alla tradizione filosofica e alla letteratura, che sempre hanno messo in evidenza come la solitudine sia un destino ineluttabile dell’essere umano, una condizione imprescindibile della nostra esistenza, nonostante la vita sia intessuta di relazioni, nonostante la socialità sia una delle caratteristiche centrali e determinanti della nostra specie. Una solitudine che, come il libro ci ricorda, si sperimenta soprattutto di fronte all’idea della morte, poiché l’essere umano, a differenza degli animali, ne ha cognizione linguistica, ha cioè consapevolezza di dover morire egli stesso. E accanto a quello che è il tormento di Quasimodo citato da Antonino Pennisi, possiamo ricordare le parole di Fabrizio De André, che fa della solitudine dell’animo umano uno dei suoi temi più cantati: «Cantammo in coro giù sulla terra / Amammo in cento l’identica donna / Partimmo in mille per la stessa guerra / Questo ricordo non vi consoli, quando si muore, si muore soli» (F. De André, Il testamento).
La solitudine come stato mentale è quindi quel pensiero solitario, sperimentato quotidianamente da tutti gli individui, cognitivamente e socialmente importante perché elemento che apporta linfa al dialogo e alle relazioni, in un intrecciarsi in cui la socialità non può essere tale senza una previa comprensione di sé stessi e dei fatti vissuti, e la riflessione solitaria, a sua volta, permette di affinare e innovare le conversazioni, rendendo così le interazioni produttive. «Attraverso il linguaggio interiore possiamo pianificare le nostre azioni, risolvere problemi, prendere decisioni e motivarci. Ci aiuta a organizzare i nostri pensieri e ci guida nelle azioni da intraprendere» (p. 135). In questo senso, il libro aggiunge un tassello nuovo agli studi cognitivi sulla socialità, spiegando come per capire la specie-specificità umana bisogna guardare al linguaggio non soltanto come il mezzo che ha permesso di sviluppare l’interazione e la cooperazione, ma anche come ciò che reso particolarmente fine la meta-riflessione. Un’idea che ha le sue origini nel Fedro di Platone, dove la parola è il nesso di connessione tra il monologo interiore e il dialogo con gli altri.
La solitudine è allora una capacità essenziale, che in quanto tale va insegnata e coltivata: essa aiuta a pensare cosa si vuole dire con precisione, a lavorare soggettivamente le parole, a “pesarle”, consentendo di mettere a fuoco senso e significato dei nostri discorsi. Se la capacità di pensare in proprio è fondamentale per essere giusti e corretti nei contatti con gli altri, il libro non può che rivolgersi alla generazione odierna, messa a conoscenza del rischio che corre di perdersi nella smania di comunicare, nella volontà di “esserci” dettata dai social e dalla rete, e di considerare così la riflessione interiore come qualcosa di dannoso, da evitare.
Se il linguaggio interiore è oggetto di riflessione da secoli, il suo studio scientifico è invece relativamente recente. I primi studi hanno genericamente permesso di comprendere che questo è un tipo di uso mentale del linguaggio, una simulazione del parlato che abbastanza spesso occorre consciamente e in assenza di un’articolazione linguistica manifesta; che pur essendo una funzione universale, prevede notevoli differenze individuali in termini di frequenza, contenuto e sofisticazione; ed inoltre, che le origini della sua natura sono sociali: il linguaggio interiore rappresenta la graduale internalizzazione del parlato degli adulti che diventa diretto a sé stesso. La svolta si è compiuta con l’individuazione del Default Mode Network (DMN), un insieme di regioni cerebrali distribuite nella corteccia parietale, temporale e frontale, dimostratesi più attive quando il cervello è a riposo, piuttosto che durante la performance di un compito. Quando il cervello non è concentrato su alcuno stimolo esterno, il Default Mode Network si rivolge a processi di pensiero focalizzati internamente, quindi alla riflessione su sé stessi, al sogno ad occhi aperti, al ricordo di esperienze personali e all’immaginazione del futuro. «È nata così in alcuni ricercatori l’idea di testare il cervello quando non sta facendo nulla. Dal punto di vista sperimentale, si monitora con la fMRI il cervello di un individuo che viene lasciato rannicchiato e solo all’interno del cilindro blindato in cui avviene la risonanza magnetica con, al massimo, un piccolo punto luminoso da fissare. È questo il caso non metaforico della solitudine cerebrale, chiamata tecnicamente attività intrinseca. L’abbiamo ribattezzata qui l’ottava solitudine» (p. 128).
La scoperta del Default Mode Network, accaduta una ventina di anni fa, ha rivoluzionato la comprensione del funzionamento del cervello umano, e ha dimostrato come, anche nel caso del linguaggio interiore, le neuroscienze possano fornire preziosi contributi ad annose questioni filosofiche. Gli studi sul Default Mode Network hanno consentito grandi avanzamenti sulla comprensione di come sono organizzati i circuiti cerebrali, sul modo in cui questi contribuiscono alle funzioni cognitive ed affettive, e su come il loro danneggiamento possa portare a psicopatologie. Oggi sappiamo che l’attività intrinseca è l’attività di default del cervello umano, e che il cosiddetto “stato di riposo” consiste in realtà in una varietà di funzioni. La risposta alla domanda su quali siano le funzioni del Default Mode Network è però ancora varia, e molto resta da comprendere. Il Default Mode Network non è un sistema omogeneo, esso comprende distinti sotto-networks che performano funzioni cognitive differenti. Senza dubbio, il linguaggio interiore è strettamente connesso con l’introspezione e l’esperienza in prima persona. Il pensiero è quindi maggiormente focalizzato su eventi della vita, piuttosto che su situazioni di fantasia e, combinando processi di memoria episodica, linguaggio e memoria semantica, genera una narrativa interna che riflette le esperienze individuali e che è centrale per la costruzione di un senso di sé, dando forma al modo in cui percepiamo noi stessi e interagiamo con gli altri. C’è un’intensa attività che riguarda la produzione di ricordi personali e la previsione/progettazione di eventi futuri, che coinvolge componenti cognitive, emotive e multisensoriali. Se riflettere su ciò che è accaduto permette di consolidare eventi significativi, riflettere su di un possibile futuro consente di prevedere situazioni di pericolo ed eventuali opportunità.
Un punto estremamente interessante è il fatto che il Default Mode Network sia coinvolto in diversi domini della cognizione sociale, come la percezione di stati emotivi altrui, il provare e il mostrare empatia, l’inferire intenzioni e credenze di altre persone e, ancora, l’avere giudizi morali sul comportamento altrui. Diverse componenti del Default Mode Network interagiscono quindi con le aree responsabili dell’incarnazione e della mentalizzazione. Il dominio della cognizione sociale naturalmente è ampio e il network cerebrale ad esso collegato include diverse altre regioni al di là del Default Mode Network, ma l’attività di aree comunemente attribuite al Default Mode Network durante compiti di cognizione sociale ha dato luogo all’interessante sfida di trovare una funzione computazionale comune per quelli che apparentemente sembrano due domini molto differenti. La teoria della mente, ad esempio, è naturalmente una componente cruciale nei contesti sociali, consentendo di attribuire ad altri stati mentali e di distinguerli dai nostri, ma ha un ruolo fondamentale anche nella rappresentazione del sé, poiché per poter simulare e comprendere la mente altrui, dobbiamo immaginare noi stessi nella situazione in cui si trova l’altra persona e usare la nostra esperienza pregressa. Il Default Mode Network è pertanto pensabile come un network attivo e dinamico del “sense-making”, che integra l’informazione in entrata con la precedente informazione intrinseca per formare ricchi modelli di situazioni indipendenti dal contesto, svolgendo in questo modo un ruolo chiave nell’integrazione dei diversi elementi che permettono di dare senso alle situazioni nuove e in costante mutamento. «La solitudine biologica del DMN ha dimostrato anche che una funzione fondamentale della nostra cognizione è l’attività intrinseca del cervello, cioè quell’attività che si svolge all’interno del nostro sistema cognitivo e che non interviene come reazione a uno stimolo esterno ma come una procedura costante che mobilita il nostro stato interiore. Nulla di vago o indefinito: una rete di comunicazione fitta tre le aree del linguaggio “chiare” (l’area di Broca e quella di Wernicke) e quelle “oscure” (ma ora non più) come l’hub del giro angolare che “incarna” i significati nella storia della nostra vita, nei suoi ricordi, nelle sue emozioni, perché diventino “vissute”, prima di ripassarle al circuito “chiaro” in cui ridiventeranno concetti astratti da rimettere in comune, in una nuova interazione, con gli altri, potenziati dalla nostra personale rielaborazione» (p. 166).

(28 agosto 2024)

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