mercoledì , 15 Gennaio 2025
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186. Recensione a: Costantino Esposito (a cura di), Il nichilismo contemporaneo. Eredità, trasformazioni, problemi aperti, Studium, Roma 2024, pp. 557. (Sarah Dierna)

Che il nichilismo costituisca un «problema permanente» del «nostro essere al mondo» (C. Esposito, p. 12) è confermato dalla fecondità scientifica con cui si continua a ragionare ancora oggi sull’argomento. Fecondità che ha portato alla luce, tra gli altri libri, Il nichilismo contemporaneo. Eredità, trasformazioni, problemi aperti (Studium, 2024) curato da Costantino Esposito.
Sono molti gli studiosi chiamati a interrogarsi, a riflettere e a ripensare un concetto tra i più antichi e affascinanti della tradizione filosofica di tutti i tempi. Nonostante la varietà dei contributi, il curatore è comunque riuscito a garantire al libro un’unità che non snatura affatto la complessità del tema, la preserva anzi mostrando l’inconsistenza di qualsiasi considerazione scettica, pessimistica o più semplicemente negativa di cui pure alcune posizioni ritengono depositaria la riflessione nichilistica.
Per comprendere il problema che abbiamo tra le mani bisogna prima di tutto coglierne la natura. Il nichilismo, afferma Esposito, è un «problema di tipo conoscitivo piuttosto che di comportamento pratico o di insufficienza morale» (C. Esposito, p. 536); esso tenta ancora di rispondere alla domanda metafisica fondamentale sul perché esiste l’essere piuttosto che il nulla, come tale la questione richiede un basamento ontologico in grado di pensare autenticamente il reale. Se la domanda di Leibniz continua a venire sollevata è anche perché nella storia del pensiero le risposte hanno perlopiù coinvolto l’essere a scapito del nulla che, d’altra parte, dotato di una propria consistenza ontologica e partecipando dell’entificazione del mondo richiede però di essere ripensato. Un tale ripensamento del discorso sul niente e del nichilismo del nostro tempo non suffraga naturalmente nessuna forma di pessimismo filosofico ed esistenziale, né suscita la facies passiva concepita da Nietzsche o, all’opposto, genera una certa rigidità poco disposta ad accogliere le nuove suggestioni che continuano ad essere elaborate sull’argomento. Credo che l’esito migliore di una riflessione rigorosa, seria ed elaborata sul nichilismo consista in ciò che con una formula heideggeriana ben riuscita si potrebbe definire come Ver-windung: «Si tratta di torcere, cioè avvolgere, involgere il nichilismo su se stesso meditandovi sopra, in modo da pervenire al fondamento abissale (Abgründig) nascosto e dimenticato che lo governa nell’essenza. […] Va permesso al nichilismo di operare un passaggio (Zuspiel) verso il fondamento che ne sta alla base» (U. Marcantonio, p. 163).
Nella sua interezza la domanda metafisica primaria prosegue spiegando il senso del porre una simile questione nel fatto che il nulla è più semplice dell’essere. Alla semplicità del suo statuto ontologico non corrisponde però un’eguale semplicità delle conseguenze esistenziali del niente fondativo sull’esserci dell’essere umano che si interroga sul senso del nostro stare al mondo. Nichilismo è anche riflettere su questo niente da cui la vita scaturisce e al quale ritorna, nel quale si mantiene e accade. Si tratta di un pensiero drammatico, avvilente e angosciante per l’umano che non è in grado di reggere la verità dell’essere e che, come tale, può suscitare due sentimenti opposti: «Per un verso si può vivere il nichilismo come dimenticanza, per altro verso come custodia. Lo stesso fenomeno, dunque, può essere colto in due modalità completamente, o meglio abissalmente, differenti» (U. Marcantonio, p. 164).
L’umano è l’ente consapevole che domanda del senso della sua presenza nel mondo, che vive sapendo di vivere e quindi anche di morire e articola la propria tensione esistenziale tra l’istinto vitale a esistere e il desiderio di conoscere gli elementi costitutivi del proprio esserci. La conoscenza, concessa come ausilio per la sopravvivenza della nostra specie, quando è elevata al rango di un sapere metafisico e teoretico, filosoficamente fondato, può talvolta diventare un coltello affilato che nel cogliere la verità di senso dell’esserci trasforma l’esperienza del nostro stare al mondo in una ferita esistenziale. «Il terreno su cui poggia la domanda dell’essere, e di cui anche quella del nulla, [infatti] rimane sempre l’esistenza umana nella propria storicità». Detto altrimenti «l’essere di cui ne va […] è sempre l’essere-proprio, l’Existenz in quanto rapporto estatico con l’essere-proprio». Pertanto, «l’essere e il niente di natura nichilistica […] non sono concetti rappresentati dalla ragione, ma bensì […] vengono sperimentati nella propria esistenza» (U. Marcantonio, p. 167).
Il nichilismo è l’esito di questa riflessione filosofica esistenzialmente fondata sull’essere e sul nulla. La risposta più sofferta – ma passibile ancora di un risvolto felice – conduce inevitabilmente all’abbattimento di qualsiasi illusione che l’umano ha invece elaborato per fare «fronte al dolore per ciò che la vita e il mondo sono effettivamente, vale a dire, nell’ottica nietzschiana, caos e disequilibrio giacché l’essenza della vita e del mondo è di matrice dionisiaca»; sottolinea Sara Drioli come «[egli] ha sentito l’esigenza di produrre una carrellata di visioni del mondo che si ergono “al di sopra”, quali, per esempio, una “vita dopo la morte” oppure uno “svolgimento progressivo delle idee o dell’umanità o del popolo”: espedienti utili a preservarsi dalla sofferenza ma del tutto fasulli e, sotto il profilo del percorso storico della cultura occidentale, soggetti a rivelarsi, prima o poi, come tali» (S. Drioli, p. 77). Nichilistico non è soltanto l’abbandono di queste sovrastrutture di significato ma anche la dimenticanza del proprio reale orizzonte di senso nel quale si staglia una più vera comprensione dell’essenza del mondo.
Il nichilismo come dimenticanza, per richiamare la sopracitata distinzione suggerita da Umberto Marcantonio, scaturisce dunque da una comprensione inautentica, ontica e non ontologica dell’esserci degli enti: un «oblio dell’essere, che giunge al suo culmine nell’evo tecnologico» (A. Bauckneht, p. 36). L’era digitale compie infatti ciò che Eugenio Mazzarella ha definito una ri-ontologizzazione, un trionfo ontico e nichilistico mediante il quale, di fatto, la nostra specie tenta di fuggire proprio quel senso che fonda il suo essere nel mondo. L’epoca digitale dell’oblio ontologico – sulla quale insistono in modo chiaro e deciso i contributi di Andrea Bauckneht e Sandro Gorgone – condiziona, modifica e desidera rimuovere la dinamica più propria dell’esserci, quell’«evento di appropriazione in cui l’esser-ci viene reso proprio e autentico dalla verità negativo-abissale dell’essere» (U. Marcantonio, p. 175).
Evento che Enrico Palma descrive con zelo e precisione attraverso un’ermeneutica materialistica della metafisica mistica di Emil Cioran, la quale consente di cogliere il significato doloroso che scaturisce dall’avere appreso il niente che sta a fondo dell’essere e a cui, quindi, anche l’esserci fa ritorno. «La vita» viene pensata dall’apolide metafisico come «un’anomalia dell’inorganico, una conformazione della materia la cui origine rimane un enigma» (E. Palma, p. 312); essa scaturisce dal niente e al niente ritorna cosicché la storia in cui si costruisce il sé di qualsiasi sostanza individuata è destinata a disperdersi nell’abisso del niente. «L’intollerabile», spiega Palma, «è farsi carico anche di questa consapevolezza, di essere un accidente della materia che sa del suo stesso finire, che è capace di comprendere la dinamica insita a tutti gli enti, di formarsi, cessare di avere quella forma e mutare incessantemente» (E. Palma, p. 312).
La dinamica ontologica alla base dell’accadere ontico non è dunque altro rispetto al niente. Se logicamente il niente esclude il pensiero dell’essere, come opportunamente mostrano le tesi di Severino qui riproposte da Tarquini, ontologicamente il niente è «la necessità ineluttabile della verità dell’essere come velamento». Ciò significa, come spiega Marcantonio pur nella difficoltà del pensare heideggeriano, che «l’essere si dà come nulla e il nulla descrive il dispiegamento essenziale (Wesung) dell’essere» (U. Marcantonio, p. 162). La conoscenza autentica è in grado di cogliere quest’origine nientificante in cui si regge l’esistenza. Si tratta di un nihil positivum, come scrive Mariachiara Valentini, poiché è costitutivo dell’esistere stesso, è fondativo del reale, vela l’essere e, così facendo, rende l’esistenza – sempre con le parole di Marcantonio – «essenzialmente segnata dal ritiro abissale dell’essere. La separazione dall’essere» insomma «è dovuta all’abbandono dell’ente da parte dell’essere stesso»; ciò significa che la ferita esistenziale è assai più profonda perché è una ferita originaria: «L’esser-ci può pervenire alla sua appropriatezza, alla sua proprietà, solo se capisce che non gli appartiene il possesso dell’essere: l’ap-propriazione (Ereignung) consiste nel comprendere l’es-propriazione (Ent-eignung) originaria dell’essere» (U. Marcantonio, p. 177).
In questo stato di abbandono la vita può mantenersi nell’oblio di questa es-propriazione oppure nella custodia, appunto, del niente originario, finale e sempre presente. Palma descrive con acutezza l’analitica di dolore che l’essere umano patisce per questa sua gettatezza insolvibile la quale può trovare ristoro solo nel ricongiungimento col niente pleromatico e acosmico.
Dalla cognizione del dolore in cui consiste il vivere deriva l’esito fattuale forse più estremo, sensato e ovvio che estende la domanda sul senso dello stare al mondo alle generazioni future. D’altronde la prole che precipita nel tempo non può che vivere e ripetere lo stesso destino inesorabilmente tragico. L’antinatalismo non è dunque il risultato di una distanza tra ‘essere’ e ‘bene’, come viene proposto ed articolato nella prospettiva di Alfonso Lanzieri che assegna al bene, per il solo fatto di essere tale, la preferenza dell’esistere. Teoreticamente fondato, in altri termini, il nichilismo della riflessione antinatalista si scopre nei termini di una custodia dell’essere e non dell’oblio.
Più in generale, «il fatto che esistere sia la matrice della sofferenza non significa che dalla vita si debba fuggire: l’unica “fuga” consiste in una riappropriazione dell’essenza dell’uomo e della vita» (M. Valentini, p. 337). Non si tratta, detto altrimenti, di cercare una soluzione al nichilismo quale fuoriuscita dalla crisi verso il ritrovamento di una nuova proposta di senso. Con le parole del curatore: «La soluzione alla crisi del nichilismo coincide con l’accorgerci della cosa più evidente ma anche meno riconosciuta: accorgersi del fatto che ci siamo al mondo. Non per enfatizzare la nostra volontà di potenza, ma per riappropriarci dell’originale potenza del nostro io che coincide con il rapporto con l’essere» (C. Esposito, p. 539). Mantenersi insomma nel nichilismo quale ferita che consente l’accesso a questa riappropriazione. Già Friedrich Nietzsche, attraverso la nozione di nichilismo attivo, Albert Camus, attraverso quella di Bon Nihilisme, ed Ernst Jünger, mediante quella assai evocativa di realismo eroico, hanno in modo diverso richiamato all’esigenza non di un oltrepassamento ma di una ricomprensione del nichilismo che non diventi una condizione antivitalistica, negativa e sminuente l’esistente. Bisogna abitare il nichilismo nella sua verità, non rinunciare ai torbidi della conoscenza «ma in una maniera ben precisa: vivere la vita ed esercitare il sapere nell’approssimarsi quanto più possibile allo statuto del Cosmo, lo sforzo di far coincidere la metafisica con la fisica, ripianare questa separatezza originaria. Solo in questo modo l’esistenza è sostenibile, si allevia il peso della coscienza che finisce alla lunga per logorare la fibra della vita» (E. Palma, p. 307). Una conoscenza che non rinuncia quindi al portato affermativo della vita, che può ancora rispondere di sì all’assenza di senso nella schiusura al proprio fondamento. Accettare questa condizione e accogliere il nulla in cui il nostro destino si compie, nell’elaborazione di nuovi significati che soddisfino il bisogno di senso connaturato al nostro esserci senza per questo cadere nell’inganno di nuovi mondi o di cieche speranze; rimanendo fedeli invece all’originarietà di questo mondo: «“è un mondo che possiamo amare perché solo ora ci appare come quello con cui possiamo riconciliarci come il nostro stesso destino – amor fati”» (S. Drioli, p. 94). Drioli richiama opportunamente uno dei concetti nietzscheani tra i più luminosi che il pensatore abbia elaborato per esprimere la possibilità di una scienza che sia gaia.
Si potrebbe suggerire, heideggerianamente, che il nichilismo è la casa dell’essere. E tuttavia, a differenza del filosofo di Meßkirch, è possibile pensare a un esito meno stazionario in cui il dolore non resta inconsolabile (U. Marcantonio, p. 177) ma, attraverso un sapere partecipato, autentico e angoscioso, è in grado di mantenersi «sulla croce del tempo, là dove fiorisce la sua rosa» (E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Il melangolo, 2004, p. 165).

(13 gennaio 2025)

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