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20. Recensione a: Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina, Milano, 2014, pp. 104. (Emanuele Clarizio)

Tecnologie della sensibilitàIn una recente conversazione sul suo ultimo libro, Tecnologie della sensibilità, Pietro Montani ha raccolto il suggerimento di chi lo intervistava (cfr. «Sull’interattività. Conversazione con Pietro Montani», a cura di Marie Rebecchi, in alfabeta2, 07 dic. 2014,  — www.alfabeta2.it/2014/12/07/sullinterattivita- conversazione-pietro-montani), affermando che questo volume rappresenta l’ultimo di «una vera e propria trilogia», le cui altre parti sarebbero L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile e Bioestetica. Il tema generale di questa trilogia consisterebbe, a grandi linee, in un’interrogazione delle pratiche estetiche da adottare per intrattenere un rapporto critico con il mondo o, detto altrimenti, quali siano i modi consapevoli di usare le immagini, sempre più diverse per genere e numero, che popolano la nostra esperienza, dandole così forma. Questa autocomprensione, da parte dell’autore, del proprio percorso intellettuale racconta tuttavia una mezza verità circa l’argomento del libro, poiché se ad un capo della nostra esperienza troviamo le immagini, all’altro troviamo l’immaginazione come il loro inevitabile correlato. Montani, inserendosi nello zoccolo duro della tradizione estetica kantiana, mediata dalla lettura autorevole di Emilio Garroni, non propone un’ontologia delle immagini o una teoria dell’arte, ma un’autentica teoria dell’immaginazione, che è ad un tempo un’estetica e un’antropologia. In questa chiave di lettura, si sarebbe allora tentati di individuare una trilogia di lungo corso, in cui l’ultimo libro è preceduto dagli altri due importanti studi sull’immaginazione: L’immaginazione narrativa e L’immaginazione intermediale. «L’immaginazione interattiva» sarebbe forse il titolo che lo stesso autore avrebbe scelto, se avesse accentuato questa prospettiva, chiamando in causa più il profilo della soggettività che lo statuto delle immagini a confronto delle quali essa si costituisce. Ma, ancora, sarebbe stata una mezza verità, mentre il titolo del libro in questione – Tecnologie della sensibilità – punta l’indice verso quel fuori-campo del soggetto che è il luogo prediletto di ogni soggettivazione. La lunga indagine sull’immaginazione dice così, già solo riconoscendole di volta in volta una pertinenza differente, la plasticità di questa facoltà tanto originaria e, di conseguenza, dell’animale umano che la esercita. Si tratta ad ogni passo di cogliere in un unico movimento la specificità dell’immagine (la narrazione, l’immagine cinematografica, l’immagine in «realtà aumentata») e la corrispondente prestazione della facoltà umana, nella consapevolezza che, se l’immagine non è l’opera esclusiva di un soggetto sovrano, tantomeno le forme del soggetto sono univocamente determinate dalle forme dell’immagine, la cui costituzione è sempre un processo interattivo dove condizione e condizionato si scambiano costantemente di ruolo. Per citare le parole di Montani, la nostra immaginazione «ha la tendenza a esternalizzarsi in una tecnica (o in diverse tecniche) e a farsi potentemente istruire e guidare nella sua interazione col mondo reale da questi processi di esternalizzazione tecnica senza perdere la sua attitudine creativa» (p. 12). Qualsiasi nostalgia soggettivista, così come ogni avanguardia postumanista, sono insomma messe fuori causa da questo paradigma antropologico critico e storicizzante, che affonda saldamente le proprie radici nella riforma del trascendentale operata da Kant, nella Critica della facoltà di giudizio. Se il giudizio riflettente si produce, infatti, in una dimensione che si oserebbe quasi definire esistenziale dell’esperienza – poiché presuppone un incontro effettivo del soggetto con la contingenza del mondo e richiede una certa ricettività dell’immaginazione come capacità di lasciarsi modificare e indirizzare dall’oggetto –, l’immaginazione interattiva rappresenta una radicalizzazione di questa struttura ibrida, nella misura in cui il suo luogo naturale non è tanto mentale, ma è l’azione come spazio d’incontro fra i tratti salienti dell’oggetto (tecnico) e i suoi tratti «sopravvenienti», ossia quelli che vengono attivati dalla manipolazione creativa del soggetto stesso. Quest’ultimo è ormai totalmente estatico senza per questo perdere la propria creatività, di modo che non si saprebbe davvero dire se il predicato dell’interattività spetti più all’immaginazione o agli oggetti tecnici. D’altronde, allorché Kant ammoniva che l’immaginazione è una facoltà tecnica (künstlich) e quindi sempre in fieri, spianava già la strada a un tradimento della filosofia trascendentale – che è anche l’unica possibile fedeltà. Dalla kantiana facoltà delle idee estetiche alla tecnoestetica di Simondon il passo è breve, e Montani lo guada con eleganza e precisione: «questa delocalizzazione protetica della sensibilità non è che un effetto del suo collegamento strutturale con l’interattività dell’immaginazione» (p. 35). Ecco perché l’argomentazione abbandona il terreno scivoloso dell’immaginazione per spostarsi su quello della sensibilità, che più della prima si presta ad essere esternalizzata e a confondersi con le sue stesse protesi tecniche. In un simile processo, ad essere messo a soqquadro non è solo il soggetto trascendentale e le sue forme a priori, ma anche la concezione dell’arte che coerentemente ne deriva: se l’opera disinteressata del genio kantiano tendeva ad occultare il procedimento tecnico di invenzione e costruzione per lasciar emergere i suoi tratti spirituali, in una separazione ideale dell’artistico dall’artigianale, al contrario una concezione dell’immaginazione come facoltà sempre in opera e, per di più, esternalizzata, deve necessariamente recuperare il senso pragmatico dell’arte e intenderla come tecnica, i cui prodotti non sono più fini a se stessi, ma hanno anzi un considerevole impatto politico nel modo in cui mediano il nostro rapporto con il mondo.
A questo punto, l’interlocutore privilegiato di Montani diventa Benjamin, secondo una movenza cui i suoi lettori sono già avvezzi, ma che prende qui strade inedite: il compito infinito dell’artista politico diventa, in quest’ottica, quello di perlustrare le possibilità storicamente aperte dalle nuove tecnologie della sensibilità, il che significa, nella nostra contingenza, che egli deve lavorare con le immagini mediali. In regime di interattività, però, l’autonomia che Kant riservava all’opera d’arte, la cui forma di vita si perpetuava nelle interpretazioni dei suoi fruitori, deve trasformarsi in qualcosa di più complesso, ovvero in una «forma di vita tecnica» (p. 75) che rifugge essenzialmente la chiusura e rimane aperta a una vastità di usi e di ibridazioni possibili. L’opera d’arte sarebbe ormai comprensibile preferibilmente come un oggetto tecnico dallo statuto aperto, che si modifica costantemente in un regime di interattività con colui che un tempo era il suo spettatore, ma ora è il suo attore. Tutto sta, allora, nel fare in modo che l’attore sia davvero tale e riesca a mantenere un commercio con l’oggetto tecnico che non sia riduttivo per nessuna delle parti in causa, ma costituisca per entrambi l’occasione d’individuazioni autonome: la possibilità per l’attore di riconfigurare la propria sensibilità nei modi che riterrà più opportuni e per la forma di vita tecnica di evolvere senza atrofizzarsi in forme ripetitive o riduttive. In fondo, la posta in gioco, politicamente intesa, è unica e consiste nel lasciare campo libero alla «creatività politica dei processi interattivi» (p. 80) senza permettere alla tecnica di «ottimizzare le nostre prestazioni» (p. 91) (ossia offrirci un mondo più uniforme e per così dire già processato). Se la tecnologia della sensibilità cinematografica ha ormai largamente disatteso le speranze emancipatrici che nelle sue potenzialità riponeva un artigiano come Dziga Vertov, Montani individua in Google Glass la nuova forma di vita tecnica, nella cui evoluzione si gioca la partita di un uso libero delle protesi tecniche. Tracciando un movimento paradossale che ricorda l’adagio di Hölderlin reso famoso da Heidegger, secondo cui è proprio nel pericolo che si annida ciò che salva, l’autonomia dell’uomo nei confronti della tecnica si guadagna, e non può che guadagnarsi, in un processo interattivo con la tecnica stessa.

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