Il volume qui in esame raccoglie una serie di contributi dedicati per i suoi 60 anni alla studiosa messinese Caterina Resta da un gruppo ristretto di allievi, che nel corso degli anni ne hanno accompagnato il cammino filosofico condividendo le ricerche e la pratica d’insegnamento presso l’Università degli Studi di Messina.
Attraverso l’indagine di alcune tematiche relative ad autori decisivi per l’intera filosofia del Novecento, il testo si propone di individuare i tratti peculiari che caratterizzano la riflessione di Resta, «il cui stile è il pudore: si incarna, infatti, non di rado nella scelta di celare il proprio gesto teorico nelle pieghe speculative dei “propri” autori» (p. 8). In altri termini, è solo grazie all’indagine della riflessione dei filosofi che delimitano lo spazio concettuale degli studi di Caterina Resta, che è possibile tracciare, attraverso un faticoso lavorio ermeneutico, le linee guida del suo pensiero. Riprendendo la suggestiva immagine di Bernardo di Chartres, Nietzsche, Heidegger, Levinas, Derrida, Jünger, Schmitt – solo per citarne alcuni – sono i giganti del pensiero sulle cui spalle poggia la riflessione filosofica di Resta: essi, da un lato, costituiscono il riferimento ineludibile del suo pensiero, dall’altro, rappresentano i pilastri poggiando sui quali è possibile scrutare oltre l’orizzonte tracciato dalle loro riflessioni.
I primi due saggi, quello di Rita Fulco e quello di Pierandrea Amato, potrebbero essere letti come le facce di un Giano bifronte: entrambi, sebbene, come vedremo, da prospettive per molti versi contrapposte, si occupano della relazione maestro-allievo; relazione che, d’altra parte, costituisce il movente teorico del volume qui in esame.
La filosofia, fin dalla sua origine nel gesto inaugurale socratico-platonico, passando per le intense pagine del De magistro di Agostino e della Questio de magistro di Tommaso, e giungendo infine alle straordinarie folgorazioni dello Zarathustra di Nietzsche, contempla come sua possibilità intrinseca, se non addirittura come sua necessità, il ripensamento essenziale del rapporto maestro/allievo che le appartiene come tratto distintivo. Assumendo come valida l’ipotesi heideggeriana di una complicità ontologica tra Platone e Nietzsche – e del pensiero occidentale tout court di cui essi sono, rispettivamente, l’inizio e la fine –, questa vicinanza teorica potrebbe addirittura essere pensata a partire dal rapporto maestro/allievo che la loro riflessione presenta: tanto l’Accademia platonica quanto l’insegnamento errante di Zarathustra sarebbero due aspetti della stessa “cosa”, e precisamente della filosofia come insegnamento.
Il primo saggio, quello di Rita Fulco, propone un’indagine accurata della filosofia levinasiana a partire dalla relazione allievo/maestro che in essa viene pensata. Questo aspetto particolare permette all’autrice di approfondire alcuni snodi decisivi dell’intero pensiero del filosofo di Kaunas; sulla scia della riflessione di Maurice Blanchot, la dissimmetria, che caratterizza la relazione im-possibile con l’Alterità, viene assunta da Levinas «quale carattere del rapporto maestro-allievo» (p. 14).
In altri termini, questo rapporto diventerebbe la cifra paradigmatica della responsabilità a cui l’uomo, non più pensato secondo l’autarchia e l’auto-nomia propria del soggetto della modernità (da Cartesio a Heidegger, secondo l’interpretazione levinasiana), è chiamato a rispondere trovandosi esposto di fronte all’esteriore nudità del volto altrui.
Proprio a partire da queste premesse, in ultima battuta, Fulco, rivelando un debito teorico con Agamben, si domanda quale insegnamento sia possibile (L’insegnamento che resta, è il titolo di un paragrafo decisivo del saggio) dopo l’esperienza che, in qualche modo, ha segnato la fine di tutte le esperienze possibili, portando così a compimento la parabola della Modernità: Auschwitz. Se si dà etica, in quanto filosofia prima, solo nell’impossibile rapporto con la nudità del volto dell’altro, che mi impone nell’assordante silenzio della sua ineffabilità il principio “non ucciderai”, se, d’altra parte, il rapporto maestro/allievo rappresenta la forma suprema di questa apertura all’alterità, allora, conclude Fulco, «Levinas pensa l’insegnamento come possibilità di salvezza dell’umano» (p. 33).
“Si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari”. Queste parole tratte da Così parlò Zarathustra di Nietzsche, in cui la relazione tra maestro ed allievo diviene possibile solo attraverso un continuo tradimento, una fedele infedeltà (un vero maestro, d’altra parte, è solo chi ti mette in guardia innanzitutto da se stesso), rappresentano l’asse portante attorno a cui ruota il discorso condotto da Pierandrea Amato nel suo contributo.
Attraverso un’indagine di alcuni testi del giovane Nietzsche, in particolar modo le Considerazioni Inattuali, lo scopo precipuo del testo di Amato è mostrare come il rapporto tra Nietzsche, che in questo contesto è il nome della filosofia nella sua forma più “autentica” – se mai è possibile parlare di autenticità in relazione a ciò che per essenza non ha essenza –, e l’università si dia come un rimando reciproco di inclusione/esclusione, per culminare infine in un’opposizione netta e senza possibilità d’appello.
La filosofia, se vuole essere filosofia, non deve avere nulla a che fare con l’accademia (“io sono uscito dalla casa dei dotti” sentenzia Nietzsche nello Zarathustra, riferendosi al suo abbandono del posto da insegnante presso l’università di Basilea), in cui, inevitabilmente, «si insegna il già conosciuto; ciò che è stato storicizzato e archiviato» (p. 38). In questo contesto, Amato, pensando probabilmente alla sottile differenza semantica nella lingua tedesca tra Beruf e Berufung, sottolinea che «la filosofia per il giovane Nietzsche non è un mestiere, ma una vocazione» (p. 40).
Mettendo in evidenza come in Nietzsche si logori il nesso tra filosofia e conoscenza, espellendo, sulla scia del filosofo di Röcken, Kant dall’Olimpo dei filosofi, in quanto costui si sarebbe limitato ad essere un professore universitario, conclude Amato, coerentemente con la lezione nietzschiana, che filosofo, in ultima analisi, è «chi dà l’esempio con la propria esistenza» (p. 55).
Se i primi due saggi, a partire dal ‘magistero’ di Caterina Resta presso l’università di Messina, hanno come scopo precipuo un ripensamento essenziale della relazione allievo/maestro, gli altri contributi, sebbene in maniera più o meno diretta rimandino a questo nesso, presentano l’indagine di alcune tematiche, che delimitano lo spazio teorico dell’impianto ermeneutico restiano.
L’intento del contributo di Valentina Surace è di mostrare le ascendenze luterane nella lettura heideggeriana degli inni di Hölderlin. Attraverso un puntuale ed approfondito confronto con la bibliografia primaria e secondaria, Surace mostra come l’indagine di alcune poesie hölderliniane, condotta nei testi successivi alla cosiddetta Kehre, permetta a Heidegger di approfondire specifiche tematiche luterane, che erano state analizzate nei primi corsi friburghesi, come ad esempio la critica all’ontoteologia e l’idea di un ateismo di principio.
A partire dalla cornice teorica tracciata da questo confronto critico, il tema principale del contributo di Surace è, tuttavia, la relazione reciproca, spaesante e mai dialetticamente risolvibile, tra proprium ed alienum che caratterizza la gettatezza dell’uomo, pensato come Dasein, nella propria storicità. Non un’immagine fissa di un io stabilito una volta per tutte, ma lo sfiancante compito di dover trovare se stesso nell’inattuale, perché sempre inattuabile e im-possibile, lotta per l’autenticità [Eigentlichkeit]. Allora, in conclusione, «è l’esposizione al massimamente estraneo, all’altro, all’impossibile, la passività originaria che – secondo Surace – è la verità dell’esistenza» (p. 84).
Il saggio di Sandro Gorgone propone un’indagine puntuale ed innovativa della filosofia heideggeriana e jüngeriana in relazione agli aspetti geofilosofici che in esse è possibile individuare; in particolar modo il concetto di abitare, pensato non semplicemente come un mero permanere in un luogo ma come relazione essenziale di ‘familiare estraneità’, viene assunto come cifra paradigmatica per proporre un nuovo ethos della terra.
A partire dalla riflessione heideggeriana e dall’interpretazione che di essa dà Jean-Luc Nancy – altro autore centrale nella costellazione filosofica di Caterina Resta –, Gorgone mostra il nesso essenziale tra etica, pensata come qualcosa che eccede e precede qualsivoglia morale precettistica, e ontologia. Al di là degli stucchevoli e sterili discorsi circa la possibilità di individuare, oltre l’ontologia, un’etica nel pensiero di Heidegger, Gorgone scrive: «Etica ed ontologia, dunque, invece che escludersi a vicenda starebbero in un rapporto di essenziale co-implicazione» (p. 87).
Proprio in virtù di questa co(i)mplicazione l’abitare, pensato in relazione alla figura heideggeriana del Geviert, il gioco simbolico dei Quattro (terra, cielo, mortali e divini), diviene il modo più proprio di soggiornare dell’uomo nella radura dell’essere nell’epoca del dominio totale della volontà di potenza tecnica, in una parola nell’epoca del nichilismo compiuto. Abitare, nell’interpretazione di Heidegger proposta nel saggio, è, allora, un altro nome per indicare la custodia dell’essere a cui è chiamato l’uomo nel suo spaesante [un-heimlichen] permanere nella Lichtung; «la salvezza della terra avviene, pertanto, nel preservare la sua essenza e far sì che essa, all’interno della quadruplice relazione del Geviert, alberghi e venga custodita nelle cose in cui si dispiega un mondo» (p. 100).
Se l’interpretazione del pensiero di Nietzsche, Heidegger, Levinas in Italia ha una tradizione abbastanza consolidata e stratificata, uno dei grandi meriti di Caterina Resta è stato quello di introdurre – insieme a pochi altri, mi riferisco soprattutto a Di Martino, Regazzoni, Facioni – ed approfondire la riflessione di Jacques Derrida, «oggi interlocutore fondamentale del pensiero restiano» (p. 9).
Il saggio di Silvia Geraci scandaglia il rapporto di Derrida con la psicoanalisi, e in particolar modo «l’alleanza rivoluzionaria che Derrida stringe con Freud» (p. 117). Il contributo si muove su due direttive principali: individuare uno spazio comune tra Freud e Derrida a partire dall’indagine della pulsione di crudeltà che soprattutto in Speculare – su Freud il filosofo franco-algerino analizza in relazione alla psicoanalisi freudiana e, al contempo, proporre, con Derrida, uno spazio al di là della crudeltà, «una piccola porta aperta alla vita e alla morte come all’a-venire, a partire da cui pensare altrimenti la psicoanalisi, l’etica e la politica» (p. 142).
Il tema della crudeltà, centrale nel testo di Freud Al di la del principio di piacere, rappresenta in Derrida, grazie anche alla mediazione teorica di Nietzsche, la parola chiave per analizzare la questione della sovranità. Attraverso l’analisi del concetto di auto-immunità, presente soprattutto in Stati canaglia, Geraci mostra come nel pensiero di Derrida sia impossibile pensare una soglia differenziale netta tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, tra piacere e crudeltà; questa indistinzione è ciò che «Derrida chiamava la vita la morte: un intreccio indecidibile di vita e morte, che non le oppone più, ma nemmeno le identifica» (p. 133).
Il contributo di Geraci, tuttavia, non si limita a ricostruire le tappe del debito contratto da Derrida con Freud; al di là del principio di crudeltà si situa, infatti, un impossibile, uno spazio imprevedibile e sempre inattuale che, riprendendo un’espressione cara a Caterina Resta, viene definito come un «affidarsi all’incalcolabile dell’evento dell’altro» (p. 142).
Il saggio di Claudia Terranova, a partire dall’analisi del pensiero di Carl Schmitt, autore che Resta, insieme a interpreti come Galli, Marramao e Cacciari, ha contribuito a sganciare da una certa interpretazione di “destra”, propone un discorso sulla globalizzazione e al contempo un «nuovo pensiero dell’alterità capace di riscrivere un’altra storia nella quale l’ethos comune diventi l’orizzonte di senso che possa emancipare l’uomo dall’unificazione coatta della logica del dominio globale» (p. 167).
Il discorso di Terranova, tuttavia, non presenta esclusivamente un’indagine del pensiero del giurista tedesco, ma propone una serie di rimandi (Galimberti, Cacciari, Zolo) che intessono una trama concettuale capace di prospettare la possibilità di pensare la politica al di là dello statuto proprio della sovranità e della soggettività moderna.
In questa sede, infine, vorrei segnalare con particolare attenzione il saggio di Francesca Saffioti, la quale attraverso un’indagine decostruttiva, compiuta sotto l’egida di Heidegger e Derrida e caratterizzata da un’inedita prospettiva geofilosofica di matrice restiana, propone un’analisi dettagliata e teoreticamente densa dell’idea d’origine pensata in relazione ai concetti di radice, erranza e ritorno.
Rivelando il debito contratto con la riflessione di Heidegger e Derrida, l’autrice propone di pensare l’origine come «il carattere sradicante di ogni radicamento» (p. 172); se il soggetto della modernità è caratterizzato dalle determinazioni di identità e proprietà, pensare al di là della logica della metafisica occidentale significa, allora, assumere l’estraneità come cifra distintiva di un’umanità non più nichilisticamente connotata. Si dà origine solo come rimando continuo, incessante, spaesante e mai dialetticamente risolvibile tra identità ed estraneazione, vicinanza ed allontanamento; con un’espressione di matrice heideggeriana: essere a casa nel non sentirsi mai a casa.
Questa cornice teorica trova la sua estrinsecazione geofilosofica nel ripensamento del Mediterraneo come spazio per eccellenza di differenza e alterità; ogni esperienza – nel termine tedesco Erfahrung risuona chiara l’idea del viaggio, fahren – nel/del Mediterraneo, luogo sommamente estraneo e familiare, è al contempo un ritorno (nostos) verso l’origine e una fuga (exodus) verso l’alterità.
Nelle pagine di Saffioti avviene, dunque, una Um-kehrung che nomina il passaggio dall’idea di cammino di pensiero (Denkweg) ad un pensiero del cammino (Denken des Weges), un pensiero sempre errante che fa dell’inquietudine la cifra distintiva del proprio dispiegamento e trova nella legge “impossibile” dell’accoglienza dell’alterità e della differenza il luogo della propria attuazione.
Proprio a partire da queste premesse è interessante il discorso condotto da Saffioti sul “femminile”, in quanto nome della differenza. Al di là dei vuoti cliches femministi post-sessantottini, il femminile è declinato, in maniera radicale ed ontologicamente pregnante, come lo spazio estremo a partire da cui pensare una familiare estraneità. Se la filosofia occidentale pensa il femminile a partire da una mera assenza (basti ricordare, su tutti, Aristotele, che considera la donna non “politica” ma solamente “economica”, dunque mera zoè), è solo grazie a una riconsiderazione di ciò che attraversa in maniera silenziosa – in quanto denegata – la storia dell’occidente che è possibile una riproposizione essenziale dell’“umanità dell’umano” oltre le staccionate metafisiche della soggettività; in altri termini, chiarisce Saffioti, «il femminile indica un’alterità capace di accogliere l’estraneo perché essa stessa estranea alla fondazione filosofico-politica della soggettività, visto che ne è stato l’oggetto rimosso» (p. 191).
In ultima battuta, la lingua – che è sempre materna, in opposizione alla terra che è sempre “patria”, dunque legata al mito maschile dell’autoctonia del possesso –, viene pensata nel saggio di Saffioti come lo spazio nevralgico a partire dal quale proporre un pensiero dell’alterità e della differenza: «non si tratta tanto di parlare la lingua dell’Altro, quanto […] di parlare la propria lingua, la lingua materna, come una lingua straniera, ascoltando fino in fondo l’Estraneo dal quale proviene» (p. 184).
Il percorso da me compiuto attraverso i vari saggi che compongono l’impianto del volume era teso a dimostrare l’ampiezza, l’eterogeneità, la problematicità delle tematiche che, a partire dagli insegnamenti di Caterina Resta, i suoi allievi hanno sviluppato nel corso degli anni. L’impossibilità di proporre una reductio ad unum e presentare il volume nella sua unitarietà rivela il carattere aperto, fecondo – e anche aporetico – dell’insegnamento restiano, che, tra le pieghe degli autori da lei studiati e, nel contempo, nelle proposte ermeneutiche avanzate dai suoi allievi, tiene vivo uno spazio di grande rilevanza all’interno dell’attuale dibattito filosofico.
Indice
Introduzione (p. 7)
R. Fulco, L’alterità nostra maestra di giustizia. Levinas e la questione dell’insegnamento (p. 11)
P. Amato, Verità e cultura. Il giovane Nietzsche e l’università (p. 35)
V. Surace, Alienum et proprium. Ascendenze luterane nella lettura heideggeriana degli inni di Hölderlin (p. 61)
S. Gorgone, Per un nuovo ethos della terra. Filosofie dell’abitare in Martin Heidegger ed Ernst Jünger (p. 85)
S. Geraci, Pulsione di crudeltà. Derrida e la psicoanalisi (p. 115)
C. Terranova, Con Schmitt e oltre Schmitt: verso una politica a-venire (p. 145)
F. Saffioti, Radice, erranza, ritorno. Un viaggio geofilosofico attorno all’idea di origine (p. 171)
Bibliografia scientifica di Caterina Resta (p. 201)