Il volume di Andrea Staiti, Husserl’s Transcendental Phenomenology. Nature, Spirit, and Life, pubblicato dalla Cambridge University Press, affronta un percorso di ricerca che ha trovato finora un’eco minore nel panorama degli studi in lingua anglosassone dedicati al fondatore del movimento fenomenologico. Tale indirizzo consiste nell’inquadrare l’evoluzione del pensiero husserliano all’interno del dibattito sulla la demarcazione tra Natur- e Geisteswissenschaften che coinvolse l’ambiente accademico tedesco tra la fine del Diciannovesimo e i primi decenni del Ventesimo secolo.
Nel suo ultimo libro Staiti, professore associato presso una delle più rinomate università cattoliche statunitensi, il Boston College, e attualmente ricercatore Humboldt presso l’archivio-Husserl dell’università di Colonia, arricchisce parte delle tematiche già sviluppate nella sua tesi di dottorato, intitolata Geistigkeit, Leben und geschichtliche Welt in der Transzendentalphilosophie Husserls (Ergon, 2010). Un tratto caratteristico che accomuna i due volumi, e che costituisce in un certo senso la cifra attraverso cui Staiti da sempre ha inteso la fenomenologia husserliana, è la messa in primo piano dell’orizzonte storico-culturale in cui il pensiero di Husserl s’innesta allo scopo di fornire una lettura non tanto esegetica, ma principalmente storico-filosofica dei testi del filosofo moravo. Non a caso già nelle pagine introduttive al nuovo volume Staiti critica una tendenza interpretativa, comune nell’orizzonte degli studi husserliani, che caratterizza il filosofo alla stregua di un pensatore isolato o in alternativa va alla ricerca di un dialogo astorico tra Husserl e coloro che l’hanno preceduto o seguito. L’idea-guida che informa tanto il volume del 2010 quanto la ricerca più recente di Staiti è che, per una comprensione effettiva della fenomenologia non solo in quanto istanza spirituale legata, com’è naturale, al suo tempo e alla storia (filosofica) che l’ha preceduta, ma anche come posizione teoretica propriamente detta, è necessario prestare dovuta attenzione ai rapporti che essa intrattiene con i principali autori, idee, teorie e dibattiti del suo tempo. Ed è per questo che Staiti può affermare: “the debate on the foundations of the natural and human sciences […] was an incubator for the development of Husserl’s mature thought” (p. 2). Tutto ciò non implica, tuttavia, un rapporto unilaterale tra la fenomenologia husserliana e il dibattito sulla demarcazione delle scienze. Al contrario, il libro intende valorizzare segnatamente l’apporto positivo che il pensiero di Husserl ha avuto nei confronti di tale dibattito. Si può quindi identificare un duplice intento alla base delle riflessioni di Staiti: da una parte, mostrare come il pensiero di Husserl abbia fatto proprie le questioni fondamentali e gli obiettivi a cui si richiamavano i principali autori del dibattito sulle scienze nei primi decenni del Novecento; dall’altra, mettere in luce l’originalità del contributo husserliano all’interno di questo stesso orizzonte storico-culturale.
Al fine di soddisfare questo duplice intento le riflessioni contenute nel libro possono essere suddivise in tre sezioni fondamentali (questa tripartizione non è resa esplicita dalla divisione in capitoli del volume, ma è facilmente deducibile dal contenuto di ciascuna sezione). I capitoli 1-2 espongono i caratteri fondamentali delle due principali scuole di pensiero che si fronteggiarono nel dibattito sulla demarcazione: la scuola neokantiana del Baden, a partire da Wilhelm Windelband, passando per Heinrich Rickert, Emil Lask fino a Franz Böhm, da un lato, e la Lebensphilosophie di Wilhelm Dilthey e Georg Simmel, dall’altro. La sezione che comprende i capitoli 3-6 confronta la fenomenologia husserliana con le posizioni dei neokantiani e dei filosofi della vita. Gli ultimi due capitoli contengono invece una trattazione approfondita della Weltanschauung inerente alla fenomenologia husserliana e delle sue implicazioni dal punto di vista etico e politico.
Nel capitolo primo Staiti intende mostrare come il Neokantismo, e in particolare la scuola del Baden, abbia preparato il terreno per lo sviluppo dell’ontologia fenomenologica di Husserl. Per fare ciò, è costretto però a mettere in questione una tesi interpretativa alquanto diffusa relativa alla portata teorica della filosofia neokantiana: ovvero che essa si sia esclusivamente dedicata a questioni metodologiche riguardanti le diverse procedure d’indagine delle scienze empiriche, tralasciando così la questione specificatamente ontologica che sottende al dibattito sulla demarcazione. Staiti rintraccia così già all’interno della famosa Rektoratsrede di Windelband un’apertura delle riflessioni neokantiane nei confronti della problematica ontologica. La distinzione windelbandiana tra procedimento nomotetico e idiografico – distinzione chiamata a tracciare la linea di demarcazione tra scienze naturali e scienze storiche – deriva, secondo Staiti, da una “dissatisfaction with one specific form of ontological distinction of science [quella classica tra Natur e Geist] and not with ontological distinctions in general” (p. 22). Staiti intravede quindi nel dualismo metodologico di Windelband un’implicazione ontologica decisiva consistente nell’assunto per cui ogni oggetto del mondo può essere considerato sia come istanza singolare di una legge sia come “evento” (Ereignis), ovvero fatticità irriducibile alla sfera normo-ideale delle leggi. Il carattere generale della posizione windelbandiana lascia tuttavia irrisolto il problema di determinare quali oggetti debbano essere trattati secondo il metodo delle scienze naturali e quali secondo il metodo delle scienze storiche. A tale questione risponderà Rickert mediante il concetto di relazione-al-valore: un oggetto è degno di ricerca storica solo nella misura in cui esso presenti o sia espressione di un certo valore (artistico, culturale, economico, ecc.). Interessante soprattutto nella prospettiva di un confronto con la fenomenologia è la discussione, svolta da Staiti nel primo capitolo, della Zustandslehre dell’ultimo Rickert e della critica, ad essa complementare, al sensismo iletico kantiano e husserliano. Nell’interpretazione che ne dà Rickert, Husserl (alla stregua di Kant) avrebbe considerato il lato materiale della conoscenza come essenzialmente omogeneo, ovvero costituito dai dati forniti dagli organi di senso. A questo assunto fondamentale del “sensismo iletico” Rickert contrappone la sua dottrina degli stati puri (reine Zustände), la quale ha il compito di studiare i materiali conoscitivi originari al di qua della loro messa in forma categoriale. Ora, Rickert rintraccia all’interno della dimensione pre-categoriale degli stati puri una dualità originaria tra i componenti sensibili e quelli non-sensibili – dualità che per Rickert costituisce “a basic ontological fact” (p. 34). Il dualismo dell’ontologia materiale di Rickert viene approfondito e radicalizzato nella concezione del suo allievo, Emil Lask. Quest’ultimo opera all’interno dei suoi scritti un decisivo superamento dell’intellettualismo kantiano, ovvero della predominanza del formale sull’elemento materiale. Da un lato, Lask intravede un rapporto originale tra sfera delle categorie e sfera materiale, al di qua di una loro separazione netta; dall’altro, egli difende tuttavia il primato dell’elemento materiale, in sé differenziato e multiforme, rispetto al categoriale di per sé privo di differenziazione. In questo modo l’impostazione laskiana ammonta a un vero e proprio ribaltamento della dottrina del filosofo di Königsberg: per Lask, come precisa Staiti, “the materials shape their respective categories ‘from below’, as it were” (p. 41) e non il contrario. Ciò porta evidentemente a sottovalutare il ruolo svolto dal soggetto nella sintesi del materiale conoscitivo. Perciò, osserva Staiti, Lask condivide con Rickert l’assunto per cui o la sintesi è intellettuale o non ha affatto luogo. Contro tale principio si schiera Böhm nel suo scritto Ontologie der Geschichte. Secondo Staiti, Böhm “comes very close to acknowledging the necessity of a phenomenological approach in order to tackle the ontological problems open by Neo-Kantianism” (p. 45). La ragione di ciò risiede nella ripresa da parte di quest’ultimo del concetto kantiano di synthesis speciosa in quanto principio di organizzazione dei dati spazio-temporali operata dalla Einbildungskraft. L’organizzazione del materiale conoscitivo non è dunque, come per Lask, espressione di un apriori materiale (per dirla con Husserl), ma il prodotto di una sintesi messa in atto dalla soggettività conoscitiva che si differenzia dalla sintesi categoriale. Facendo notare come l’organizzazione del contenuto materiale degli oggetti storici sia direttamente dipendente da quelle che lui chiama “spontaneità extra-teoretiche”, Böhm mette di fatto al centro della problematica neokantiana la soggettività costituente e prepara così il terreno allo sviluppo della fenomenologia husserliana.
Nel secondo capitolo, Staiti prende in esame l’altro versante del dibattito sulla demarcazione rappresentato dalla Lebensphilosophie. Nelle filosofie di Simmel e Dilthey è ugualmente riscontrabile, secondo la lettura di Staiti, un certa predilezione nei riguardi della questione ontologica – la tesi principali di questo movimento di pensiero è facilmente riassumibile nel principio per cui la vita (Leben) costituisce una dimensione più essenziale e più originaria del pensiero discorsivo. In questo modo, i filosofi della vita intendevano andare contro un certo modo di intendere Kant, senza però arrivare ad un totale rifiuto del kantismo in quanto tale. È per ciò che Staiti afferma: “the anti-intellectualistic trait of life-philosophy does not amount to a rejection of Kantianism as such but rather to a different way of being Kantian” (p. 53). Ne sono la conferma le lezioni di Simmel presso l’università di Berlino dedicate al filosofo di Königsberg in cui l’intellettualismo kantiano viene interpretato non come la glorificazione del pensiero come unica istanza del conoscere e vivere umano, ma piuttosto come una comprensione ampliata della facoltà intellettuale attraverso la quale è stato reso possibile il definitivo superamento dell’alternativa tra razionalismo e sensismo. Nella lettura di Simmel, Kant avrebbe quindi aperto la via alla prospettiva lebensphilosophisch sulla vita. L’originalità del pensiero di Simmel, e con essa quella della Lebensphilosophie, emergono invece nello scritto di quest’ultimo intitolato Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892). Staiti mette in luce l’interpretazione simmeliana della storia in quanto avvicendamento di fatti psichici organizzati secondo determinati apriori universalmente validi. Simmel precisa che, malgrado l’identità dei propri oggetti di studio, psicologia e scienze storiche differiscono rispetto agli interessi teoretici che informano il loro procedere scientifico. Se lo psicologo si interessa segnatamente degli atti psichici e dei loro rapporti intrinseci, lo storico considera piuttosto l’evoluzione psichica dei contenuti degli atti. Nella spiegazione storica degli eventi umani viene dunque sempre assunto come valido un apriori psicologico su cui si fa leva per comprendere il fatto storico di volta in volta preso in esame. Staiti fa notare, inoltre, come la posizione di Simmel non possa essere accusata di ripristinare il dualismo cartesiano che è alla base della distinzione tradizionale tra natura e spirito. Al contrario, buona parte della radicalità del pensiero simmeliano risiede nel tentativo di superare il contrasto tra mondo naturale e mondo psichico in favore di una visione che ne esalti piuttosto la continuità, per cui Simmel non accorda alle scienze storiche, come prima di lui avevano fatto i neokantiani, un tipo specifico di leggi per principio diverso da quello delle scienze naturali; ma vede nei fenomeni storici il risultato di un aggrovigliato intreccio di cause di origine naturale. Nelle parole di Staiti, “Simmel anticipates positions in contemporary philosophy of mind that deny the existence of specifically mental causation, granting that all causal powers reside in the sphere of physical nature” (p. 69). Contro una tale ipotesi si schiera invece Dilthey, il quale, oltre a difendere in maniera più radicale di Simmel l’autonomia della sfera dei fenomeni psichici, inaugura con le sue Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894) un metodo innovativo per la loro indagine da parte delle scienze dello spirito. Operando una distinzione netta tra fenomeni psichici e fenomeni naturali, Dilthey non intende più fondare la demarcazione delle scienze su basi metodologiche. L’Erklären e il Verstehen rappresentano infatti per lui due funzioni conoscitive che si installano a partire da una distinzione ontologica già data tra fatti naturali e psichici. La principale caratteristica dei fenomeni psichici è di trovarsi continuamente inseriti in una connessione vivente (lebendiger Zusammenhang), che come tale costituisce l’oggetto precipuo della psicologia descrittiva introdotta da Dilthey. La classificazione e l’analisi delle differenti classi di occorrenze psichiche non esaurisce tuttavia il compito della psicologia. Dal momento che quest’ultima, nell’ottica di Dilthey, deve poter fondare le Geisteswissenschaften nella loro totalità, il problema è quello di determinare il carattere individuale di ciascuna connessione psichica e non solamente di sapere a quale legalità o apriori psichico possa essere ricondotta. Di conseguenza, alla psicologia puramente descrittiva Dilthey associa una psicologia comparativa che deve indagare le differenze esistenti fra gli individui nel loro avvicendarsi storico. In questo modo, fa notare Staiti, le differenze individuali vengono concepite da Dilthey “as purely quantitative, as different combinations of the fundamentally homogenous ingredients of a normally developed human psyche” (p. 76). Tuttavia, se da un parte il progetto diltheyano di una fondazione delle scienze dello spirito per mezzo della psicologia è testimonianza di un certo ottimismo riguardo alla possibilità di elucidare scientificamente le componenti basilari della psiche umana, dall’altra è presente in Dilthey anche la consapevolezza che la vita nella sua originalità più essenziale non possa essere colta dal pensiero discorsivo e quindi divenire oggetto di un sapere scientifico. Interessante è come Staiti riconduca questo tratto anti-intellettualistico del pensiero di Dilthey alla filosofia kantiana e, in special modo, al concetto del Ding an sich. Nondimeno, a differenza di quest’ultimo, di cui non è possibile secondo Kant avere esperienza alcuna, la “cosa in sé” diltheyana ovvero la vita, la connessione vitale, è esperita, data in un’esperienza intuitiva non discorsiva che non può e non potrà mai trovare espressione in concetti derivati dall’universo discorsivo, ma semmai attraverso quello che Dilthey chiama “linguaggio metaforico” (Bildersprache). Un ultimo punto affrontato da Staiti nella sua esposizione della filosofia diltheyana concerne il rapporto tra le profondità della vita e la natura. Staiti fa notare come il concetto di natura in Dilthey sia fondamentalmente ibrido: da una parte, con esso si intende il mondo fenomenale che appare nella percezione esterna ed è contrapposto al mondo interno della vita psichica; dall’altra, la natura è anche, per Dilthey, espressione degli istinti, delle emozioni e di altre forze irrazionali presenti nel cuore stesso della esperienza vitale.
Se la prima sezione del libro di Staiti si occupa primariamente di rendere nota la posizione (ontologica) riguardante lo statuto della natura e dello spirito all’interno del dibattito sulla demarcazione scientifica nelle filosofie dei neokantiani e dei filosofi della vita, solo a partire dal capitolo 3 Staiti entra propriamente nell’alveo delle questioni che costituiscono il centro focale del suo libro. Si tratta qui di valutare se e in quale misura la fenomenologia husserliana abbia derivato il proprio armamentario concettuale nonché l’asse principale della sua problematica filosofica dal dibattito sulla demarcazione e se, in particolare, vi sia un’identità di intenti fra essa e la scuola neokantiana. Staiti sottolinea come, da un punto di vista il più generale possibile, si potrebbe affermare che fenomenologia e neokantismo siano guidati da un “common goal of removing the naivety of empirical research via a philosophical consideration of the tight link existing between the objects and the subjects of scientific activity” (p. 84). Entrambi, invero, considerano l’oggetto della conoscenza non come una realtà dogmaticamente posta, ma come un’entità “costituita” dal soggetto conoscente. Quest’aspetto testimonia della loro comune discendenza a partire dal trascendentalismo kantiano – Staiti ritiene, infatti, che la morte di Husserl segnerebbe la fine del “secolo lungo” della filosofia trascendentale iniziato nel 1781 con la Critica della ragion pura di Kant (p. 3). D’altro canto, però, al di là di questa omogeneità assolutamente generale, i neokantiani e Husserl offrono un’interpretazione differente del rapporto tra soggettività costituente e oggetto costituito, così come emerge in primo luogo nell’utilizzo di due termini diversi per indicare tale relazione: si tratta rispettivamente dei concetti di Standpunkt e Einstellung. Per i neokantiani lo Standpunkt è una prospettiva diretta all’oggetto e guidata da un interesse particolare. Staiti sottolinea come sia inesatto equiparare lo Standpunkt con l’opinione soggettiva del singolo individuo, dato che si tratta piuttosto di una “impersonal teleological construction” (p. 88): il telos che informa di sé lo Standpunkt sarebbe, nell’ottica dei neokantiani, l’interesse scientifico che fa sì che di volta in volta vengano presi in considerazione aspetti differenti del reale e su di essi venga eretto un sapere scientifico. Una posizione interessante e per certi versi anticipatrice di quella husserliana viene introdotta all’interno del dibattito neokantiano da Emil Lask. Questi afferma che il metodo scientifico presuppone un trattamento e, dunque, un’alterazione fondamentale del materiale fornito dai sensi. Ciò appare in maniera evidente nel caso delle scienze naturali, le quali sono portatrici di quella che Lask chiama “quantifizierende Tendenz”: l’oggetto da conoscere viene innanzitutto “quantificato” ovvero privato delle sue qualità primarie e dei valori ad esso associati.
La nozione husserliana di atteggiamento (Einstellung) esprime anch’essa, alla stregua dello Standpunkt neokantiano, il tipo di relazione che sussiste tra il soggetto che conosce e l’oggetto di volta in volta conosciuto. La novità radicale di questo concetto risiede nell’impiego che Husserl ne fa non solo per demarcare i differenti ambiti del conoscere scientifico (vedi le nozioni di naturalistische e personalistische Einstellung sviluppate soprattutto in Ideen II e nell’arco della serie di lezioni intitolate Natur und Geist), ma anche e in primo luogo per definire la fenomenologia stessa come metodo di indagine filosofica (vedi la distinzione tra phänomenologische e natürliche Einstellung). Nel fatto che la fenomenologia sia caratterizzata da Husserl innanzitutto come attitudine, Staiti vi vede una conferma della sua tesi principale secondo cui il progetto filosofico husserliano debba essere considerato come un’appendice del dibattito sulla demarcazione delle scienze (p. 98). In riferimento a quest’ultimo aspetto, Staiti mette qui in campo la distinzione tra atteggiamento naturalistico, che pertiene alle scienze naturali, e atteggiamento personalistico, che invece dovrebbe definire l’attitudine specifica dello scienziato dello spirito. Il principale contributo di Husserl al dibattito che aveva visto fronteggiarsi neokantiani e filosofi della vita è quindi da ricondursi all’introduzione di questa coppia di concetti.
Il capitolo 4 prosegue nell’analisi del confronto tra Husserl e la filosofia neokantiana concentrandosi in particolare sulla ricezione di Ideen I da parte di Rickert e Natorp. Il fulcro della critica rickertiana è costituito, secondo Staiti, dal concetto di Wesenschau introdotto da Husserl dapprima nelle Ricerche logiche (1900/1901) e in seguito ampliato nel volume del 1913. Per Rickert il problema risiede nel carattere intuitivo accordato da Husserl alla visione d’essenza. La conoscenza è e deve essere, per il neokantiano Rickert, essenzialmente discorsiva, mentre l’intuizione da sola non è affatto capace di fornire un conoscere nel senso genuino del termine. L’accusa di sensismo all’eidetica husserliana, come fa giustamente notare Staiti, non tiene conto però del fatto che in Husserl il concetto di intuizione (Anschauung) risulta differente da quello kantiano. Nondimeno, sebbene Rickert accolga in maniera positiva l’ampliamento del concetto di intuizione operato da Husserl già nelle Ricerche logiche – tanto che oggetto di intuizione possono essere non soltanto il materiale fornito dagli organi di senso ma anche i componenti non-sensibili dati nell’esperienza (ad esempio il valore, nella terminologia rickertiana) –, egli ad ogni modo non si spinge fino ad accettare un’equiparazione tra intuizione (non-sensibile) e conoscenza. Staiti mostra però come Husserl sia arrivato alla medesima conclusione di Rickert in Ideen I laddove viene introdotta la distinzione tra la Wesensschau e la Wesenserkenntnis: dove la prima fornirebbe una base intuitiva sulla quale è possibile sviluppare conoscenze eidetiche vere e proprie.
La critica di Natorp intende invece mettere in questione la definizione stessa che Husserl dà della fenomenologia in Ideen I in quanto scienza eidetica della soggettività trascendentale. Staiti fa notare come per Natorp il problema consista nel conciliare il carattere “fluido” della molteplicità dei vissuti della coscienza assoluta con il metodo eidetico. Secondo il neokantiano quest’ultimo, infatti, opererebbe una “fissazione” e “cristallizzazione” del flusso dei vissuti, compromettendo così la possibilità stessa di una conoscenza genuina e non mediata di esso. Staiti intende replicare alla critica di Natorp facendo uso di elementi ripresi dalla stessa filosofia husserliana (p. 28). Egli sostiene, da un lato, la necessità assoluta di una conoscenza eidetica anche per colui che intenda affermare il carattere fluido dei vissuti coscienziali: una tale affermazione sarebbe infatti possibile solo a partire da un punto di vista eidetico. In secondo luogo, fa notare come vi sia una differenza essenziale nel concepire la “fluidità” dei vissuti come un flusso torrenziale senza forme o come un flusso ordinato che segue precise leggi eidetiche. Husserl, inoltre, avrebbe reso possibile con la sua fenomenologia genetica una cognizione eidetica del flusso e, quindi, superato la critica di Natorp a Ideen I.
Nel capitolo 5 Staiti riporta la critica husserliana alla filosofia neokantiana di Rickert così come appare in due serie di lezioni, rispettivamente del 1919 e del 1927, entrambe intitolate Natur und Geist. Nel primo corso di lezioni del 1919 Husserl fa notare come ogni demarcazione scientifica presuppone a suo fondamento una distinzione ontologica delle rispettive regioni d’indagine. In questo senso l’impostazione di Husserl sembrerebbe suggerire qui una sorta di dualismo originario tra le regioni ontologiche di natura e spirito. Staiti, tuttavia, mette in evidenza come in realtà Husserl intenda far valere una sorta di gerarchia fra le due sfere che deriva dalla circostanza per cui ad ogni momento è possibile isolare in un dato oggetto i rispettivi “predicati di significato” (Bedeuungsprädikate) e così, facendo astrazione da essi, rintracciare il suo strato originario puramente naturale. Alla luce di tale possibilità, la conclusione di Staiti è che per Husserl “nature designates the most fundamental sphere of reality upon which the sphere of significance (reality in the broader sense) is founded” (p. 144). Nel corso del 1927 Husserl prende le mosse dalla constatazione che l’esperienza pre-predicativa e pre-scientifica alla quale deve essere in ultima analisi ricondotto il dualismo tra natura e spirito è un’esperienza mondana ovvero l’esperienza di un mondo. Questo punto è centrale nella ricostruzione che Staiti propone della critica di Husserl all’impostazione neokantiana del problema della conoscenza. Secondo Rickert la dimensione esperienziale che precede il conoscere scientifico rassomiglia ad una molteplicità infinita vaga e senza struttura che necessita un’attiva “messa in forma” da parte del soggetto conoscente. Tale concezione monistica e uniforme della sfera pre-concettuale rappresenta agli occhi di Husserl il pregiudizio fondamentale dell’epistemologia tradizionale. In virtù di ciò è stato impossibile per quest’ultima chiarire la “motivazione” o giustificazione da un punto di vista conoscitivo dell’applicazione all’esperienza di categorie e concetti per principio ad essa estranei. In questo senso la posizione di Husserl, come fa notare Staiti, si avvicina di più a quella dei filosofi della vita, per i quali vi è un’essenziale continuità fra vita e conoscenza, esperienza e pensiero.
Nel capitolo 6 vengono messi in luce i punti di divergenza tra la fenomenologia di Husserl e la filosofia della vita di Dilthey e Simmel. In particolare Staiti individua tre aspetti critici nel pensiero di quest’ultimi che avrebbero inficiato il loro progetto di fondazione delle scienze dello spirito. Il primo aspetto riguarda la riduzione della storia all’interiorità dei singoli individui. Contro una tale concezione Husserl fa valere la distinzione fondamentale tra il mondo storico oggettivo come risultato di un processo costitutivo e il soggetto (trascendentale) che opera questo processo. In secondo luogo, la posizione dei filosofi della vita rimarrebbe secondo Husserl ancorata ad una Individualpsychologie e, pertanto, risulterebbe incapace di rendere conto della dimensione intersoggettiva costitutiva del mondo storico. Infine, Staiti denuncia come principale difetto nel tentativo di fondazione delle Geisteswissenschaften da parte dei filosofi della vita l’assenza in quest’ultimi di una delimitazione assoluta del campo d’indagine della psicologia. Una tale delimitazione, secondo Staiti, può essere (e viene) messa in atto solamente dall’epoché fenomenologica. La psicologia (non fenomenologica o, dovremmo dire, pre-fenomenologica) risulta essere una scienza non indipendente, dato che il suo campo d’indagine, i vissuti soggettivi, non è assolutamente delimitato nei confronti del campo d’indagine di altre scienze. Staiti si riferisce qui al problema di determinare lo statuto di un particolare tipo di vissuti soggettivi, ovvero le sensazioni. Nella prospettiva della psicologia di fine Ottocento, infatti, i dati sensibili costituiscono la risposta a uno stimolo esterno veicolato attraverso gli organi di senso: essi rappresentano quindi una dimensione a cavallo fra il mondo dello “spirito” (la vita psichica) e il mondo naturale. In questo modo la psicologia, che si occupa anche di questo tipo di vissuti, è una scienza il cui campo d’indagine rimane “aperto” dal momento che lo studio delle sensazioni presuppone lo studio dell’interazione tra corpo e ambiente e presuppone quindi la validità, all’interno dell’orizzonte degli studi psicologici, delle leggi fisico-causali studiate dalle scienze naturali. Il problema di determinare il carattere autonomo delle ricerche psicologiche e, perciò, di “chiudere” il campo d’indagine della psicologia viene ora risolto attraverso l’introduzione dell’epoché della tesi generale circa l’esistenza del mondo operata dalla fenomenologia husserliana. Attraverso la messa fuori circuito di ogni esistente mondano, e dunque anche della causalità psico-fisica che stava all’origine della spiegazione psicologica delle sensazioni, viene finalmente portata a termine quella delimitazione del campo d’indagine della psicologia che i filosofi della vita non erano stati capaci di compiere. Fenomenizzando il corpo e l’essere del mondo, il concetto psicologico fondamentale di sensazione viene sganciato una volta per tutte dalla legalità (psico-)fisica e considerato nella propria autonomia di vissuto psichico soggettivo.
La chiusura dell’ambito d’indagine della psicologia costituisce il primo punto di divergenza tra la fenomenologia di Husserl e la Lebensphilosophie. Il secondo punto è rappresentato dalla teoria husserliana dell’Einfühlung. Staiti fa notare come Husserl abbia, più o meno implicitamente, criticato la concezione di Dilthey e Simmel, per i quali l’esperienza dell’altro deve essere intesa nei termini di un’inferenza (logica) circa l’esistenza dei vissuti altrui a partire da un confronto tra la percezione del mio corpo e quella del corpo dell’altro. Al contrario, uno dei punti saldi della fenomenologia husserliana dell’intersoggettività consiste nell’interpretare l’Einfühlung nei termini di un’esperienza percettiva e non di un ragionamento logico. Ciò che rende interessante la lettura di Staiti è il collegamento tra teoria dell’intersoggettività e problema della costituzione del mondo storico. Secondo Staiti, per comprendere come le due tematiche sono strettamente intrecciate in Husserl, occorre tenere conto di due aspetti fondamentali della classe dei vissuti denominati presentificazioni (Vergegenwärtigungen), di cui l’empatia non rappresenta che un caso particolare. In ogni presentificazione è possibile distinguere tra un ego “latente”, come lo chiama Staiti, ed un ego presente. Ad esempio, nel caso del ricordo l’ego latente è rispettivamente l’ego dell’esperienza ricordata, mentre l’ego presente è l’ego dell’esperienza attuale del ricordare. Husserl ammette una sintesi di coincidenza (Deckungssynthese) fra questi due ego, la quale rende possibile l’unità (egologica) del flusso temporale di vissuti. Questa sintesi non è semplicemente posta a priori (come avviene ad esempio nel caso dell’appercezione trascendentale in Kant), ma viene essa stessa esperita. Ora, applicando questo modello alla presentificazione empatica è chiaro che la sintesi di coincidenza tra l’ego empatizzante e l’ego empatizzato non può aver luogo, dato che si tratta qui di due ego distinti. Tuttavia, a partire dall’attimo in cui l’empatia ha avuto luogo, le vite di entrambi gli ego entrano in una connessione intenzionale così che, scrive Staiti, “empathizing with other subjects opens up for me an entirely new horizon, one that extends my own life-possibilities beyond my self” (p. 204).
Per la costituzione del mondo storico non è tuttavia sufficiente fare riferimento al fatto che l’esperienza dell’altro mi apre, per così dire, a un nuovo orizzonte di senso. Un mondo storico è prima di tutto un mondo che si definisce per il suo carattere temporale. È così che Staiti affronta la problematica della costituzione della temporalità storica e lo fa attraverso un confronto serrato tra le posizioni di Husserl e Simmel. Husserl rimprovera a Simmel di aver irrigidito la processualità del tempo storico considerando quest’ultimo solo la condizione di possibilità per l’individuazione delle oggettualità storiche. La concezione simmeliana rimane, nell’ottica del fenomenologo, “troppo formale” dal momento che non tiene conto del carattere teleologico e processuale che pertiene ad ogni “creazione” dello spirito e, di conseguenza, anche alla storia. Accanto alla fluidità Husserl concepisce come tratto essenziale della temporalità storica la sua plasticità. Quest’ultima sta ad indicare la presenza di un certo “ritmo” e periodicità nell’avvicendarsi degli eventi storici che Husserl associa per analogia ai ritmi (biologici) dell’individuo, quali la veglia e il sonno o all’esperienza dell’alternarsi del dì e della notte.
Il capitolo 6 prosegue con la tematizzazione di quello che Staiti definisce come terzo apriori della storia, ovvero la legge della motivazione. Nei confronti della Lebensphilosophe di Dilthey e Simmel, per la quale il concetto di motivazione gioca un ruolo fondamentale nella caratterizzazione dell’universo dello spirito in contrapposizione a quello della natura retto dalla legge della causalità, Husserl apporta due principali innovazioni: da un lato, estende tale concetto alla totalità della vita psichica; dall’altro, ammette l’esistenza di un tipo di motivazione intersoggettiva. Per quanto riguarda il primo punto, Staiti fa notare come Husserl allarghi l’applicabilità della legge della motivazione non solo alla totalità degli atti della coscienza in cui l’ego funge attivamente (motivazione razionale), ma anche e soprattutto all’universo della coscienza passiva (motivazione irrazionale o, meglio, arazionale). La seconda dimensione, oltre ad operare fondamentalmente grazie all’interazione tra presente e passato della vita psichica dell’individuo, prepara per così dire il terreno sul quale l’attività “razionale” dell’ego e la sua motivazione corrispondente possono entrare in funzione. Il secondo aspetto innovativo della teoria husserliana della motivazione concerne la “scoperta” da parte di Husserl di un tipo di motivazione che oltrepassa la sfera isolata del singolo soggetto e mette in comunicazione fra loro una pluralità di individui. La motivazione intersoggettiva si riassume nelle tre possibilità fondamentali che il singolo ha di comprendere le motivazioni degli altri, di appropriarsi – cioè fare proprie – le motivazioni altrui e di cercare di motivare gli altri soggetti attraverso la comunicazione linguistica o non linguistica.
Nel capitolo 7 Staiti introduce quella che lui stesso definisce la “Kantian liberation narrative”. Si tratta in altre parole della tesi secondo cui Kant abbia liberato il pensiero occidentale dalla Weltanschauung naturalistica e operato, quindi, la famosa “rivoluzione copernicana” in virtù della quale al centro dell’universo non vi è più la natura con le sue leggi causali, ma il soggetto trascendentale legislatore della natura stessa. Secondo Staiti una tale “narrazione” è identificabile anche in taluni passi delle opere dei filosofi della vita, dei neokantiani e, non da ultimo, in Husserl. Tuttavia, sebbene questi autori condividono una critica serrata alla visione del mondo naturalistica, differiscono per quanto riguarda la loro concezione del rapporto tra Weltanschauung e pensiero filosofico. Staiti sottolinea come la Lebensphilosophie di Dilthey e Simmel si comprenda, infatti, come superamento del naturalismo delle scienze e della filosofia in virtù della messa in opera di un pensiero che debba partire dalle fonti della vita e, in tal senso, dalla Weltanschauung pre-razionale e pre-discorsiva. Quest’ultima rappresenta dunque il terminus a quo della riflessione filosofica, la sua fonte per eccellenza. In contrasto con la posizione dei Lebenphilosophen, il primo Rickert concepisce la Weltanschauung non più come origine ma come compito e produzione del pensiero, ossia come terminus ad quem della filosofia. Solamente in epoca tarda s’impone nelle riflessioni di Rickert la necessità di tenere separati la filosofia come conoscenza scientifica, da un lato, e la Weltanschauung, dall’altro. Staiti mostra come nel pensiero di Husserl si assista invece alla mutazione in senso contrario rispetto al caso di Rickert della concezione del rapporto tra Weltanschauung e filosofia. Se nel primo periodo, perlomeno fino a Philosophie als strenge Wissenschaft (1911), Husserl contrasta la propria filosofia scientifica con ogni tentativo di equiparare filosofia e Weltanschauung, nell’ultima fase della sua vita intellettuale, e soprattutto in seguito all’esperienza della prima guerra mondiale, la posizione di Husserl si avvicina sempre più a quella del primo Rickert, secondo cui la filosofia ha il compito di edificare una Weltanschauung in grado di contrastare quella preminente del naturalismo. In questo modo la tesi centrale del libro di Staiti può ben essere riassunta nell’affermazione seguente: “phenomenology, from the years of WorldWar I onwards, can be read as an attempt to work towards this Weltanschauung” (p. 237).
Staiti coglie un nesso essenziale tra il progetto della fenomenologia nel periodo tardo della produzione husserliana, ovvero lo sviluppo di una Weltanschauung in grado di contrastare quella del naturalismo dominante, e l’interesse di Husserl per la tematica della Lebenswelt e più in generale della fenomenologia della costituzione mondana. La realizzazione del primo risulta infatti possibile solo attraverso lo spiegamento della seconda (cfr. p. 241). È per tale ragione, quindi, che Staiti intraprende nel capitolo 7 una descrizione della fenomenologia statica e genetica dell’intuizione (Anschauung) del mondo (Welt) com’è possibile riscontrare nei manoscritti recentemente pubblicati nel volume XXXIX dell’Husserliana. Dal punto di vista della fenomenologia statica il mondo appare nell’apprensione di ogni singolo oggetto mondano, rivelandosi già nelle strutture dell’orizzonte interno ed esterno dell’oggetto come orizzonte di tutti gli orizzonti possibili. L’interpretazione husserliana dell’intuizione del mondo cambia angolatura una volta intrapresa la via della fenomenologia genetica. Il mondo è qui inteso principalmente come correlato della soggettività trascendentale costituente e come prodotto delle “validità” (Geltungen) di un’esperienza che progredisce continuamente attraverso sempre nuove “fondazioni” (Urstiftungen) e “rifondazioni” (Nachstiftungen).
Nell’ultima grande opera di Husserl, la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1935-1936), il progetto fenomenologico di critica e superamento della Weltanschauung naturalistica diviene ancor più esplicito. L’intento di Husserl consiste qui nel mostrare per mezzo di una genealogia “decostruttiva” il processo attraverso cui la scienza moderna è riuscita ad imporsi non solo come paradigma del sapere, ma anche e soprattutto come visione integrale del mondo capace di sostituire alla realtà intuitiva della vita quotidiana un mondo di idealità costruite. Staiti mostra come un tale processo si è articolato in cinque tappe fondamentali: 1) astrazione dai contenuti sensibili in direzione delle forme pure; 2) idealizzazione delle forme geometriche così ottenute; 3) matematizzazione delle qualità sensibili; 4) formalizzazione: le entità ideali del pensiero matematico sono ora rimpiazzate da simboli; 5) sostituzione del mondo reale dato alla percezione intuitiva con il mondo costruito matematicamente. La natura matematizzata rappresenta così per il naturalismo la realtà tutta intera. Nonostante Husserl critichi la pretesa universalistica del naturalismo a imporre il proprio concetto di natura come determinazione assoluta della realtà vera del mondo, la matematizzazione della natura rappresenta ai suoi occhi un processo legittimo in quanto si fonda innanzitutto sulle strutture del mondo percettivo intuitivo. In questo modo è possibile ravvisare in Husserl almeno due concetti distinti di natura: la natura in quanto prodotto culturale o spirituale del processo di matematizzazione portato avanti dalla scienza moderna; la natura in quanto nocciolo (Kern) intuitivo che precede ogni matematizzazione e può essere colto fenomenologicamente solo attraverso un’astrazione di ogni tipo di formazione culturale e predicato di significato (Bedeuntungsprädikat). Una tale duplicità nel concetto di natura risulterebbe invece del tutto inconcepibile nell’ottica neokantiana. La natura rimane per Rickert e gli altri sostenitori della scuola del Baden il prodotto della categorizzazione intellettuale del dato sensibile e in quanto tale non avrebbe senso parlare di una natura “intuitiva” come invece fa Husserl. Staiti identifica quindi una delle principale innovazioni operate da Husserl all’interno del dibattito sulla demarcazione delle scienze il fatto di aver messo in luce l’ambiguità inerente al concetto di natura e di aver mostrato come le Naturwissenschaften e il naturalismo, che da esse scaturisce, abbia la propria fonte di senso nel mondo dell’esperienza naturale pre-scientifica.
Nell’ultimo capitolo del suo lavoro Staiti affronta la questione circa lo statuto etico e politico delle riflessioni husserliane concernenti la sua critica al naturalismo e l’imporsi della visione del mondo che scaturisce dalla fenomenologia trascendentale. Come primo passo, Staiti propone di interpretare il “rovesciamento” (Umkehrung) dell’atteggiamento naturale richiesto dal metodo fenomenologico in analogia con la conversione cristiana (metanoia). Allo stesso modo in cui quest’ultima produrrebbe un rinnovamento della mente per cui le stesse cose sono ora vista da una prospettiva differente, l’atteggiamento fenomenologico trasformerebbe il nostro modo di concepire noi stessi come soggetti nel mondo. In altri termini, la fenomenologia svolgerebbe secondo Staiti anche un compito fondamentalmente etico nel momento in cui essa mostra e porta quindi a conoscenza lo statuto della soggettività in quanto fonte trascendentale della costituzione del mondo e, in particolare, della natura. La fenomenologia sarebbe dunque riuscita a portare a termine quel superamento della Weltanschauung naturalistica che i filosofi neokantiani e i filosofi della vita auspicavano: nella nuova visione fenomenologica del mondo il soggetto non è più concepito come parte dell’ingranaggio della natura fisico-causale, ma, sganciato da essa, viene una volta per tutte riabilitato nella sua “dignità d’essere” (Seinsdignität).
Dal punto di vista della dottrina politica, la fenomenologia husserliana in ultima analisi approderebbe secondo Staiti in un universalismo umanista capace di non soverchiare le differenze dei singoli individui così come delle singole nazioni o mondi familiari (Heimwelte). Da una parte, il singolo non si fonde del tutto nel concetto di umanità, ma semmai ne costituisce un momento indipendente. Dall’altra, le singole nazioni sono parte integrante ma, ancora, indipendente dell’unico mondo che le racchiude nella loro totalità. L’umanità e il mondo, perciò, non sono innanzitutto colti come semplici datità, ma rappresentano per Husserl due concetti teleologici fondamentali che orientano il divenire storico dell’essere umano. Analogamente a Kant, la fenomenologia husserliana ha intravisto uno sviluppo teleologico nella storia; quest’ultimo, però, viene interpretato in maniera ancor più radicale che in Kant, dal momento che la teleologia non è una semplice prospettiva imposta dall’alto agli eventi storici, ma una loro componente fondamentale e costitutiva.
Il pregio maggiore del libro di Staiti sta nel aver ricostruito concetto dopo concetto un dialogo tra la fenomenologia del tardo Husserl e il pensiero dei Neokantiani e dei filosofi della vita che non soltanto pone sotto una nuova prospettiva il tradizionale dibattito sulla demarcazione delle scienze, ma soprattutto fa valere la posizione di Husserl al suo interno sia nel suo lato critico-negativo sia in quello positivo. In tal modo Staiti ha però anche compiuto un passo decisivo nell’ambito degli studi husserliani grazie alla sua tesi storico-filosofica secondo cui la fenomenologia troverebbe la sua massima espressione nella Weltanschauung scientifica elaborata da Husserl nel secondo periodo della sua produzione filosofica. È tale tesi che, in ultima analisi, la comunità husserliana avrà il compito e il dovere di prendere in esame ed eventualmente di mettere in questione.