L’origine, la genealogia, la pluralità di significati che i concetti di mente e di sé possiedono nelle lingue europee sono il frutto del modo in cui i Greci elaborarono l’indagine sull’umano. Conoscere se stessi – la nostra natura, le sue possibilità e i suoi limiti – è assai più difficile di quanto il successo della formula delfica tenda a nascondere. La poesia e la filosofia elleniche intuirono che l’obiettivo non può essere conseguito da una scienza soltanto empirica, la quale chiarisca le strutture biochimiche che ci costituiscono, ma può farlo invece una prospettiva scientifica più ampia, che tenga conto di ciò che la filosofia della mente contemporanea definisce i qualia –l’effetto che fa il percepire –, il cui prodursi è sempre in profonda relazione con la vita emotiva, con i rapporti interpersonali, con il più ampio essere nel mondo.
«Razionalità, irrazionalità, desiderio, passione, motivazione, pensiero pratico o teoretico» (p. 12) sono alcuni dei concetti e dei paradigmi che il pensiero greco ha trasmesso alla successiva riflessione sulla mente e sul sé. Tale pensiero ha avuto una storia, uno sviluppo, anche degli autentici capovolgimenti, dei quali l’agile e rigorosa sintesi di Antony A. Long dà conto in modo non banale.
L’Autore rifiuta anzitutto una concezione progressiva e storicistica, che veda ad esempio in Omero un ‘primitivo’ rispetto alle successive elaborazioni teoretiche di Platone. Una lettura attenta delle concezioni del mentale nell’Iliade, nell’Odissea e nei tragici mostra, al contrario, che «i nostri modelli mentali potrebbero esser più vicini alla poesia epica greca che alla filosofia greca» (8). La ragione è abbastanza chiara e consiste nella profonda unità psicosomatica dei personaggi omerici, la cui identità «è interamente corporea o fisica» (20). Nessun dualismo tra soma e psyche agita la vita, le passioni, le decisioni dei guerrieri che combattono sotto Troia né quelle di Odisseo. I mortali sono tali – brotoi in opposizione agli athanatoi, gli immortali – proprio perché la loro esistenza si conclude con la morte. Essi sono ‘corpo in tutto e per tutto’, sono enti che abitano il tempo che la Necessità ha loro concesso, sono esseri incarnati, collettivi e temporali, «la loro vita è per il qui e ora» (28). Ciò che di tali personaggi rimane dopo il morire è un triste ologramma, un’ombra inconsistente. La psyche omerica è questo spettro; il sé non coincide con essa ma con il thymos, con l’ ‘animo’, con l’energia del corpo, il respiro dei polmoni, con la consapevolezza che il corpo ha di esserci. Qualcosa di simile al sé nucleare di cui parla Antonio Damasio. Un sé che esiste e funziona in relazione all’intera corporeità e a ciascuno dei suoi organi. Ancora una volta si tratta di un intero psicosomatico.
Se «Eschilo e Sofocle, due poeti tragici, assomigliano a Omero per la loro reticenza a dividere gli esseri umani in due parti, in due entità distinte chiamate corpo e anima» (23), come fu possibile che in un limitato arco di tempo si producesse un capovolgimento profondo nella percezione della mente e del sé, che sono passati «da un essere centrato sul corpo, che vive nel tempo e trova nella morte il limite della propria esistenza umana, a un essere che identifica nell’immortalità spirituale e incorporea il proprio destino finale?» (15). Che cosa è accaduto nella transizione da Omero a Platone?
Tra le diverse risposte riassunte e proposte da Long, la più innovativa sembra quella che fa riferimento alla retorica, al suo sviluppo e ai suoi fini. Gorgia nutrì un interesse profondo per il plesso soma/psyche, termini nei suoi testi a volte coniugati e altre volte disgiunti. Uno degli esempi più chiari ed efficaci è l’Encomio dedicato a Elena di Troia. In questo testo, fra i più importanti che il mondo greco ci abbia lasciato, viene per la prima volta tematizzata in modo sistematico la distinzione tra soma e psyche. Tra le ragioni che rendono Elena innocente vi è il potere del corpo, il suo dominio sulla psiche umana. Elena, infatti, s’innamorò delle belle forme di Alessandro Paride e fu oggetto del suo desiderio. La vista, afferma Gorgia, è un organo potentissimo, al quale gli umani si sottomettono sempre. Ma anche la lingua è un piccolo corpo che nel suo agire è capace di raggiungere i risultati più grandi. Viene così posta la distinzione tra un elemento dominante e uno dominato; l’unità omerica si spezza anche se ancora a vantaggio della fisicità.
Platone fa propria tale distinzione e la capovolge, attribuendo alla psyche un primato pervasivo e persuasivo, se non si vuole fare dell’umano un’espressione di pura animalità. Governare se stessi e comprendere il mondo ha come condizione il dominio dell’elemento più oggettivo, astratto, puro e formale di cui siamo fatti: il logos. A questo punto, «in contrasto con Omero, l’identità umana non è psicosomatica, ma essenzialmente ‘psichica’, nel senso che essa ha a che fare con le caratteristiche mentali e morali e non con il vigore della dimensione fisica» (40). Platone proietta tutto questo sulla dimensione politica dell’equilibrio tra le parti che compongono il Corpo sociale. L’unità corpomentale di Omero si è così trasformata in un equilibrio intrapsichico tra la razionalità, le emozioni, la volontà.
Ma talmente forte rimane l’influenza di Omero e dei tragici sulla cultura greca che le scuole ellenistiche si pongono in continuità anche con quell’antica unità dell’intero psicosomatico e non soltanto con l’equilibrio tra gli elementi psichici. Infatti, «anche la mente, nella dottrina stoica, ha una struttura fisica, diversamente dall’anima incorporea dei platonici» (127).
Una vicenda, come si vede, assai ricca e complessa. Una vicenda, soprattutto, che determina il modo in cui ancora pensiamo l’umano. Aveva ragione Gorgia e ha ragione Nietzsche: «Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo» (Così parlò Zarathustra, II parte,‘L’ora più silenziosa’; in «Opere» VI/1, trad. di M.Montinari, Adelphi, Milano 1968, p. 180).