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47. Recensione a: G. Riconda, Filosofia della tradizione, La Scuola, Brescia 2016, pp. 96. (Igor Tavilla)

Il saggio Filosofia della tradizione, pubblicato da Giuseppe Riconda nella collana Orso blu dell’editrice La Scuola di Brescia, muove dalla contrapposizione tra “pensiero secolaristico” e pensiero tradizionale ed esprime l’esigenza di un oltrepassamento dell’odierno relativismo, dimostratosi incapace di assicurare all’uomo la pace e la tolleranza di cui si era autoproclamato garante. 
Nel primo capitolo, intitolato Tradizione e pensiero tradizionale, l’autore procede a una definizione del concetto stesso di tradizione. Per pensiero tradizionale Riconda intende quella concezione antropologica che, ispirata dalla Rivelazione cristiana, tenta di comprendere l’uomo nel suo rapporto originario con l’essere e la verità, presupponendo l’a priori teologico del peccato originale. Questa definizione abbraccia tanto la filosofia di matrice greco-cristiana – di cui fanno parte la patristica e l’umanesimo – quanto alcuni sviluppi del pensiero moderno, che appaiono in controtendenza rispetto all’orientamento ateo e nichilista assunto dalla filosofia occidentale. Tra questi l’autore rammenta Cartesio, Pascal, Malebranche, Rosmini, ma anche Kierkegaard, Dostoevskij, Schelling, i pensatori russi (Solov’ev) e gli esponenti dell’esistenzialismo religioso (Berdjaev e Marcel). In tempi più recenti il pensiero tradizionale ha trovato espressione nelle filosofie di John Milbank, Richard Swinburne, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor, per quanto riguarda il mondo anglosassone, mentre artefici della sua ripresa in Germania e Francia sono stati, rispettivamente, Robert Spaemann e gli eredi della riflessione fenomenologico-religiosa di Levinas. In Italia il pensiero tradizionale ha trovato invece accoglienza nel personalismo ontologico di Luigi Pareyson e nell’ontologismo di Augusto Del Noce.
Il secondo capitolo – già nel titolo – rivendica l’endiadi Verità e libertà come cifra del pensiero tradizionale. Nella visione tradizionale, infatti, i due valori si implicano a vicenda. Senza verità non ci può essere libertà, giacché quando la libertà prescinde dalla verità degenera nell’arbitrio. Allo stesso modo, non può esserci verità senza libertà, nel senso che la verità non s’impone all’uomo mediante un atto di autorità, ma può essere accolta dalla persona unicamente attraverso una libera scelta. Tuttavia, tolleranza non significa permissivismo o indifferenza alla verità stessa, la quale dev’essere necessariamente presupposta come esigenza fondamentale di ogni autentico dialogo. Se è vero, infatti, che «una comunicazione che non salvaguardi l’alterità dell’interlocutore non è una comunicazione», non lo è nemmeno «un dialogo che non tenga conto di un comune orizzonte di verità» (p. 40). La verità concepita come “origine” e non come “oggetto” consente poi di salvaguardare l’assolutezza della verità stessa senza per ciò sacrificare la molteplicità delle prospettive esistenziali che alla verità aderiscono, pur conservando l’unicità e l’irripetibilità che connota ogni esperienza personale. È questo – vorremmo aggiungere, facendo tesoro della lezione di Riconda – il senso della “verità soggettiva” di cui parlava anche Kierkegaard, il quale certo non era un relativista, ma esigeva da ogni singolo uno sforzo di appropriazione personale in direzione dell’unica verità per la quale valesse la pena vivere e morire: il Cristo crocifisso e risorto. A dispetto di ogni tendenza secolaristica volta a razionalizzare la morale, la dignità della persona umana e il principio di tolleranza che da esso discende non possono a ben vedere che basarsi sull’idea del divino che è in ogni persona, pena ridurre l’agire dell’uomo alla sfera dei rapporti meramente strumentali. In questa prospettiva, dunque, l’etica non può fare a meno di postulati religiosi, come la morale kantiana ha dimostrato in maniera esemplare. 
Nel terzo capitolo Riconda focalizza Il problema politico con il quale una visione tradizionale del mondo deve necessariamente confrontarsi, dato il carattere intrinsecamente relazionale della persona umana. A partire dal riconoscimento della democrazia come valore acquisito della modernità, l’autore evidenzia come tale sistema di governo sia fatalmente esposto al rischio di uno svuotamento del proprio contenuto ideale – la tutela e la promozione della dignità della persona umana – appiattendosi sul rispetto di una mera forma procedurale. Responsabile di questo svilimento è, almeno in parte, la dimenticanza del fatto che le democrazie moderne sono nate sul terreno della libertà religiosa. Declinato nei termini dell’endiadi verità e libertà, il male sociale del nostro tempo consiste nella separazione di questi due valori e nella conseguente perdita di significato di entrambi. La verità senza libertà (libertas maior) si è infatti tradotta storicamente nella tirannia, mentre la libertà senza verità (libertas minor) nell’anarchia.
Se l’antinomia tra progresso e conservazione, che ha catalizzato il dibattito politico ottocentesco, appare ormai superata, il pensiero tradizionale si fa oggi promotore di un’azione riformista che, messa da parte l’utopia del “perfettismo” e le sue tentazioni totalitarie, mira a diminuire l’incidenza del male sull’uomo e sul mondo in cui egli abita. Sebbene il male – contro cui ciascuno deve comunque sforzarsi di lottare – sia l’ineliminabile conseguenza della colpa originaria, nella formulazione di Riconda il pensiero tradizionale si smarca dal pessimismo antropologico di un Lutero o di un De Maistre, i quali traevano dalla dottrina della caduta la piena legittimazione dell’autoritarismo politico. L’analisi di Riconda conduce anzi al “rifiuto” della politica basata sull’accettazione dell’esistente, identificatosi – in seguito al fallimento delle rivoluzioni novecentesche e al tramonto delle ideologie – con la gestione tecnocratica del potere. In difesa dell’individuo, minacciato dal “totalitarismo del mercato”, l’autore chiama in causa la filosofia di Schopenhauer – avversario del pensiero unico hegeliano – e la teoria critica dei filosofi Francofortesi, condivisa per altro da Augusto del Noce. L’impegno politico passa dunque attraverso lo smascheramento delle seduzioni mass-mediatiche, la difesa della libertà d’insegnamento e la promozione della famiglia, da attuarsi – specialmente quest’ultima – nell’ambito di una più ampia strategia di difesa delle “associazioni intermedie”, quale antidoto contro l’atomizzazione sociale, su cui – come ha dimostrato Hannah Arendt – il totalitarismo ha sempre trovato terreno fertile.
Nel quarto e ultimo capitolo, Corpo e natura, l’autore approfondisce il tema della corporeità nell’orizzonte cristiano, mostrando come il cristianesimo – religione dell’incarnazione e della resurrezione della carne – abbia enfatizzato il corpo più di quanto comunemente non si pensi, anche a causa del prevalere di alcune tendenze ascetiche che ne hanno misconosciuto l’importanza. Sottolineare la positività del corpo non significa però celebrare il culto della corporeità. L’esaltazione delle prestazioni fisiche, l’ipersofisticazione estetica e la manipolazione genetica perdono di vista, infatti, la totalità della nostra esperienza corporale, irrimediabilmente segnata dalla sofferenza e dalla morte. L’autore assume a paradigma l’antropologia tricotomica di Paolo di Tarso, secondo la quale fra le tre dimensioni fondamentali dell’essere umano – la carne (sarx), l’anima (psyche) e lo spirito (pneuma) – esiste una reciprocità funzionale, dove è lo spirito ad assicurare l’integrità del tutto. Da qui la necessità di evitare che il corpo venga assolutizzato, pena la dissociazione della persona stessa.
Il tema della corporeità è strettente legato a quello della sessualità. A tale proposito, Riconda guarda alla famiglia come al luogo privilegiato in cui la sessualità è vissuta personalisticamente. Al di fuori del contesto matrimoniale, infatti, la sessualità si degrada a mero rapporto strumentale, andando a ledere la dignità dei soggetti coinvolti. In questo senso la teoria gender appare oggi come una banalizzazione della sessualità, stante nella riduzione della differenza sessuale a mera significazione linguistica e nella separazione del sesso dal mistero della vita. Quest’ultima riflessione offre all’autore uno spunto per approfondire il rapporto tra la persona e l’habitat naturale all’interno del quale essa è inserita. Il rispetto per la natura e per la vita che in essa si agita contrasta con l’approccio della tecno-scienza, la quale mira esclusivamente a strumentalizzare l’esistente in vista dei propri scopi. Come richiamato nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, il concetto teologico di creaturalità sta, al contrario, alla base di una visione contemplativa del mondo che, malgrado la corruzione del peccato, è in grado di riconoscere in ogni singolo filo d’erba e fuscello il riflesso stesso della divinità.
In conclusione, il saggio di Riconda si presenta come una rifondazione del pensare e dell’agire umano su canoni tradizionali, in controtendenza rispetto alle suggestioni che saturano la società odierna. Se da una parte la rivalutazione del personalismo ontologico pone un argine contro la manipolazione subdola e omnipervasiva del mercato, dall’altra le implicazioni teologiche che il concetto di persona porta con sé contrastano le tendenze individualistiche su cui – non a caso – l’ideologia dominante fa maggior presa. Deposti i vessilli reazionari di una nostalgica e sterile apologia del passato, il pensiero tradizionale assume perciò le sembianze di una riflessione critica – come ogni filosofia deve essere – che nell’atto stesso di denunciare le contraddizioni dell’ora presente reclama attenzione per quella “figura muta e impalpabile” che è la Verità. 

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