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54. Recensione a: Andrea Tagliapietra, Esperienza. Filosofia e storia di un’idea, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 286. (Antonio Catalano)

Esperienza. Filosofia e storia di un’idea è l’ultima fatica di Andrea Tagliapietra. È opportuno avviare una discussione sul libro partendo proprio dal titolo, anzi dal sottotitolo: Filosofia e storia di un’idea. È nient’affatto casuale la scelta di porre in rilievo la specificità di un approccio di storia delle idee, a dispetto di un altro, più canonico e tradizionale di storia della filosofia. L’intenzione esplicitata sin dalla prima battuta è quella di prendere le distanze da chiunque si attenda dal libro un sorvolo oggettivo su cosa i vari autori e le varie scuole di pensiero hanno inteso per esperienza, dunque da quello sguardo puro, from nowhere che spesso le storie della filosofia, di tipo manualistico, esibiscono; diversamente si tratta di un’esposizione che nel suo incedere si rivela sempre più situata e incarnata, a tal punto che l’autore stesso non si esime dal proporre la propria idea di esperienza, discussa, criticata, confutata, riaffermata, al costante vaglio con i giganti del pensiero occidentale. Conformemente a quanto scrivevano Deleuze e Guattari (Che cos’è la filosofia, 1995), se compito della filosofia è sempre e di nuovo quello di creare, costruire, firmare concetti, è esattamente la firma, la creazione, la costruzione di Tagliapietra stesso che si vuole in tale sede far emergere, lasciando al lettore del libro il compito di valutarne, sondarne, esperirne il percorso dal Pozzo di Talete al Cielo di Austerlitz.
La questione sollevata fin dall’introduzione è quella relativa alla datività dell’esperienza, al suo carattere patico e liminare, al suo non potersi che declinare al dativo (a me), il cui incontro si fa violento proprio in quanto accade, capita, avviene prima che vi sia un io che pensi, una coscienza cosciente di sé. In questo prima (che ha una valenza tutta trascendentale e nient’affatto cronologica) devono essere collocate le nozioni di singolarità e di evento in cui Tagliapietra risolve la sua idea di esperienza, una singolarità, o meglio, evento che accade ad una singolarità prima che questa si pieghi in un soggetto in grado di dire io: «Singolarità di ciascuno a prescindere dalla generale maschera teoretica della soggettività e delle particolari maschere sociali dell’io raccontato dalla sua biografia» (p. 189). L’esperienza è sempre l’esperienza di un singolo, non di un individuo, di una singolarità, una vita, che lungi dall’essere una sostanza, non fa altro che individualizzarsi, incarnarsi, coincidendo con l’atto stesso delle sue continue e indefinite individuazioni, le quali mai si risolveranno in un fatto o un dato. «Rimane la differenza tra chi prova il dolore o ne subisce l’evento e chi ne parla come un fatto» (p. 16). Chi prova il dolore o ne subisce l’evento è una singolarità, chi ne ricostruisce l’accaduto è già un individuo, un soggetto; non v’è alcuna astratta separatezza fra i due, la singolarità vivente non è altrove che nei volti teoretici e sociali in cui a seconda dei casi la imprigioniamo e tuttavia è sempre un passo indietro rispetto a essi, è ciò che ne garantisce la finzione, il divenire, la finitezza. Ancora a proposito della nozione di singolarità, nodo centrale del libro, è sorprendentemente radicale Tagliapietra allorché si appella a delle “invarianti” dell’esperienza, quell’esperienza che potremmo definire come l’auto-affezione di ciascun vivente, la pienezza che un organismo prova ad essere l’organismo che è, un’esperienza residuale, la quale «ci connette con la natura e con la vita del pianeta, un fondo di resistenza che la società non riesce a controllare e a condizionare; e che questo residuo, per quanto elementare e indeterminato possa essere, vale per incalzare la cultura e le sue forme di dominio e sottoporle a una critica che ne contesta l’assolutismo e la destinalità» (p. 18).
È in gioco dunque la discussione sulla possibilità di sostenere l’effettualità di una non umana essenza trascendentale (la singolarità appunto), la quale sola ci accomuna in un piano di perfetta immanenza a ciascun altro singolo vivente (vegetale o animale che sia): «Così, per rispondere alla domanda “cosa si prova ad essere un pipistrello?”, bisognerà pensare alla gioia di un essere che vive appieno la sua stessa vita, non alle differenze oggettive che mi appaiono confrontando la mia condizione di essere umano con quella di pipistrello. Altrimenti la cecità sarà la nostra non la sua» (p. 15). Nella gioia qui da Tagliapietra evocata è inteso non semplicemente il sentimento di una singolarità ma ciò con cui essa coincide senza riserve, la spinoziana potenza che realizza sé stessa, la gioia così come Nietzsche ne tratta in alcuni Frammenti postumi, la joie di Bergson, ovunque insomma si alluda all’immanente auto-godimento di una vita che vive. Nient’altro che questo sembra essere il messaggio di Diogene ad Alessandro, almeno nel commento che nel libro viene proposto del celebre aneddoto che li riguarda e che vede la risposta sprezzante del filosofo cinico alle richieste magnanime e prodighe del giovane condottiero: «Diogene offre al giovane sovrano l’ammaestramento dell’esperienza che entrambi stanno facendo, richiamandolo all’inapparente immanenza e, vuoi anche, alla povertà della sua ineludibile singolarità di contro all’individualità ricca e opulenta del suo rango reale […] Un’esperienza semplice come il sole che scalda il corpo del filosofo, appagato dal minimo indispensabile, ma che pur reca con sé l’essenziale della vita e del pensiero, la gioia, l’esperienza della pienezza dell’essere» (p. 23). Niente di banalmente ottimistico in questa esperienza = gioia, la quale al contrario serba in sé la tragicità di una pienezza che talvolta è tale e tanta da piegare l’organismo nel quale si individua, quel «fare esperienza, quel patire in prima persona, che nietzscheanamente sa farsi carico anche del dolore, della fatica, del fallimento e persino della morte stessa», «una assai spesso dolorosa sovrabbondanza della vita» (p. 180), come scrive Tagliapietra a proposito di Benjamin. Eppure, come sopra si scriveva, si tratta pur sempre di un libro di storia delle idee, ragion per cui l’autore, dopo aver costruito la propria idea d’esperienza, il protagonista del racconto di cui sta tessendo l’intreccio (ossia l’idea dell’esperienza come singolarità, evento, gioia), non può esimersi dal farlo anche con i relativi deuteragonisti e antagonisti, ossia con quelle idee d’esperienza che minano dalla radice le possibilità di verità di ciò che egli ha proposto in prima persona. È quello che succede nel densissimo capitolo su Hegel, là dove la svolta irreversibile messa in luce è quella da un’esperienza ingabbiata dalla rappresentazione, proprietà di una coscienza, a un’esperienza che è la coscienza nel suo metamorfico costituirsi e superarsi costantemente lungo un cammino che è sempre insieme storico, individuale e sociale. «L’esperienza è un tutto teorico-pratico in cui la natura, la storia, e lo spazio sociale sono tenuti insieme» (p. 171), quel tutto dentro cui siamo, ci siamo, dove tutto è in relazione, e ogni parola, ogni pensiero, ogni idea, ogni prassi, trova la sua genesi e anche la sua morte: «L’esperienza è un esserci, un esser dentro (dabei sein) del pensiero che rovescia la pura esteriorità dei saperi formali, dalla matematica alla metafisica, fino allo sguardo da nessun luogo della scienza moderna» (p. 175). Con Hegel muta l’orizzonte trascendentale di comprensione dell’empirico, non siamo più al cospetto dell’Io penso o Esso pensa di Kant, ma appunto a quell’esperienza che altro non è che l’umanità al lavoro, l’operare di tutti e di ciascuno che nel suo ritmo incessante dà vita ad ognuno dei significati che ci circondano, per poi fagocitarli e andare oltre: «Il questo dell’oggetto nell’esperienza non si pone mai come assoluto e irrelato, ma nell’infinità delle relazioni che ne istituiscono il senso. Ecco allora che un tale questo, preso di per sé stesso, non è che un fantasma empirico, una cristallizzazione illusoria del movimento relazionale della coscienza, come se qualcuno, entrando in una stanza dove c’è uno specchio, scambiasse la sua immagine riflessa per un’altra persona e si mettesse a chiamarla» (p. 169). Un’interpretazione di Hegel molto vicina a quella di Carlo Sini, ove quest’ultimo in particolare parla di potere invisibile delle cose, alludendo all’effetto complicato e continuamente complicantesi di ciò che tutti fanno e che in loro e attraverso loro si fa (Inizio, Jaca Book, Milano 2016).
Coerentemente a una tale idea di esperienza, a un tale Erfahren, ove non c’è che l’assoluto dentro dell’infinita relazionalità dei significati, e degli strumenti, delle operazioni, delle pratiche, che li istituiscono e li tolgono, può ancora avere senso appellarsi a delle «invarianti» dell’esperienza stessa, come prima si è fatto definendola attraverso le nozioni di singolarità, evento, gioia? O non dovremmo piuttosto arrenderci e riconoscere che, per quanto dicano di noi, si tratta pur sempre di parole, significati, destinati a trapassare, il cui senso è il risultato di un intreccio infinito di pratiche di vita, di saperi, di discorsi, di strumenti, i quali ci mettono nella posizione di pensarli e dirli, nell’illusione che siano un che di definitivo. È questa la posta in gioco filosofica che emerge dal libro di Tagliapietra (il cui sottotitolo recita anche Filosofia oltre che storia di un’idea), la possibilità di riportare nel discorso filosofico l’idea genuina e positivamente ingenua di un’esperienza singolare, eventuale, patica, inintenzionale, che non è relativizzabile esclusivamente alle parole, alle pratiche, ai discorsi che la incarnano, nonostante non possa prescindere dall’incarnarsi in siffatte parole, pratiche o discorsi. È in gioco la possibilità di pensare una coscienza non fatta di parole e che tuttavia di esse non può fare a meno per affermarsi, «una singolarità esposta, soggetta al tempo e fatta di tempo» e che per essere espressa nondimeno ha bisogno di determinazioni spaziali; ad essere in ballo è la possibilità di pensare «l’interazione profonda con l’ambiente e i viventi che non è giustificabile nell’ordine dei significati, ma è comprensibile nell’ordine effettuale e affettivo del senso» (p. 272), «un pensare che non sussume in sé l’empirico, ma anzi si scioglie in esso, rimanendo in prossimità del corpo e della pazienza dei sensi» (p. 238). Consapevole della cruciale e spinosa questione Tagliapietra guarda a due differenti percorsi attraverso cui affrontarla, i quali occupano gli ultimi due capitoli del libro. Da una parte si tratterebbe di volgersi verso la narrazione, l’arte di narrare, non però come l’ultimo disperato atto di una filosofia che abdica alla sua coerenza concettuale e forza argomentativa, bensì come un loro rafforzamento, là dove la questione sia appunto quella di toccare l’esperienza nella sua immanente e singolare costituzione. «L’arte della narrazione comunica esperienze in quanto le fa provare, in quanto è esperienza» (p. 232), un’esperienza dativa, che non può che accadere a, al personaggio narrativo come a quello immedesimativo, ascoltatore o lettore che sia, sempre e inscindibilmente legata alla dimensione di quell’evento che non è ciò accade ma in ciò che accade. L’altra via prospettata da Tagliapietra è l’accostamento ad una serie di autori, tra cui Henri Bergson e William James, i quali hanno pensato l’esperienza in termini puramente immanentistici. La bergsoniana durata creatrice, il jamesiano flusso di coscienza, elevano l’intuizione a metodo filosofico rigoroso, essa sola infatti ci restituisce il feeling di quel continuum naturculturale, come lo definisce Tagliapietra, nel cui indiviso scorrere ogni singolarità vivente (umana, animale, vegetale che sia) vive con pienezza della stessa vita di tutte le altre, insistendo nondimeno nella propria radicale differenza. In una intuizione del genere a rispecchiarsi è «un’ontologia della realtà come relazione continua per cui l’esperienza del lampo è anche l’esperienza del buio che precede e di quello che segue, senza quella discontinuità discreta che la forma del linguaggio trasferisce sulle percezioni inducendo l’illusione ipnotica dell’eterno come immobile e immutabile senza tempo. L’esperienza non è determinata come l’oggetto e la parola che la nomina» (p. 272). In conclusione, si è evidentemente scelta una chiave teoretica e speculativa per discutere un libro che è, rimane, e vuol rimanere di storia delle idee, e che in quanto tale va letto, sebbene le vie di fuga che apre (come brevemente si è cercato di scrivere) siano diverse, stimolanti, e degne di essere esperite.

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