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57. Recensione a: Matteo Pietropaoli, Uomini e dèi. Saggi su Heidegger, ETS, Pisa 2016, pp. 120. (Giulio Ginnetti)

«Uomini in quanto dèi», così può essere definito l’invito teoretico della persuasiva riflessione che Matteo Pietropaoli presenta nel testo Uomini e dèi. Saggi su Heidegger. L’autore infatti, in questo volume, ripercorre e interpreta attraverso cinque saggi altrettanti corsi di lezione tenuti da Heidegger dal ‘34 al ‘46, dedicati rispettivamente a Hölderlin, Schelling, Nietzsche, Parmenide ed Eraclito, facendo scorgere un filo interpretativo fondamentale che domina nel corso di questi dieci anni il pensiero heideggeriano, al fine di trarne così un potenziale sviluppo filosofico di carattere originale.
Alla base dell’analisi esposta in questo lavoro riposa la questione della svolta dell’ontologia fondamentale in metaontologia, quale superamento e approfondimento proprio della domanda fondamentale sull’essere. Il testo perciò si presenta fin dal titolo come un’analisi di quella che per Heidegger è la controparte essenziale della questione dell’essere, ossia la questione del “dio” e del divino, una theologia da intendersi non come religione o dottrina determinata. Essa infatti, in quanto innanzitutto domanda sull’ente nella totalità, è ancora più originaria o, per meglio dire, teologia originaria rispetto al dettame religioso e quindi condizione di possibilità della stessa verità di ogni credenza. Heidegger recupera il significato aristotelico di theologia come filosofia prima, riflessione sull’in vista di del theos che muove come causa finale. Tale questione però non può essere posta senza rivolgersi all’ontologia fondamentale, alla domanda sull’essere in generale, e per questo, come nel titolo, il nostro domandare non potrà che rivelarsi a un tempo duplice, richiedendo una riflessione che rapporti reciprocamente entrambi i termini a cui si rivolge, ossia l’intero dell’ente e l’estensione dell’essere. In ogni capitolo, infatti, emerge una duplicità tra essere e totalità, tra mondo e “dio”, che diviene condizione dei due membri proprio perché fondamento e fondato non possono essere tali se non nella loro relazione reciproca, la quale si apre e si determina proprio nel riconoscimento dell’uomo come estensione, al fondo come esistenza: esserci. I due aspetti di uomini e dèi si rivelano così condizione di possibilità l’uno dell’altro come autentico se stesso, in quella duplicità che è in ultimo il richiamo costante nella finitezza tra fondamento ed esistenza. Questa l’operazione che, a partire dal pensiero heideggeriano, Pietropaoli sviluppa nel rapporto tra “uomini e dèi”, un rimando che comporta la determinazione essenziale in ordine a un orizzonte d’apertura, l’esistenza stessa, dove l’uno e l’altro vengono fondati come tali.
Ogni ente d’altronde, in quanto fondato, riposa già in Heidegger su un fondamento posto come condizione di possibilità della totalità degli enti; la metaontologia però rovescia questa affermazione mostrando come vi sia un ente che dispone l’orizzonte di senso di tale essere. La riflessione si radicalizza ponendo il limite di tale domandare, una sorta di “resistenza originaria” a questa apertura che ne permette un’orientazione e che la caratterizza in ultimo come “finita”. Tale limite però non è da intendersi quale mero impedimento, anzi, è proprio questa resistenza il fulcro di ogni possibilità dell’autentico pensiero che si fa libero, ossia a un tempo proprio e pratico, in quanto contrappone all’estensione, all’esistenza, un confine come completezza e senso: al fondo il tema heideggeriano dell’essere per la morte.
Di particolare interesse per delucidare questi aspetti si rivela il quarto saggio, dedicato al corso del ‘42-’43 su Parmenide ed Eraclito. Nella lettura di Pietropaoli Heidegger riconosce la trasformazione che opera Parmenide del concetto di verità in personalità, in dea. Una simile trasformazione significa che la verità sarebbe, per il suo essere, non essenza metafisica data, bensì tale soltanto in quanto libertà, ossia nella sua determinazione originaria come condotta. Il dio non è essenza somma, bensì quell’ente che, col suo sguardo preliminare rispetto alla teoria e alla pratica, dispone la veduta dell’essere, ossia al fondo la sua verità. Theao in greco è propriamente questa offerta di veduta, questa anticipazione che orienta il senso dell’orizzonte d’essere. Il divino qui offre questa veduta che può essere compresa, mutatis mutandis, nel richiamo all’estetica trascendentale kantiana. Il tempo infatti costituisce, in quanto primaria forma pura della sensibilità, l’orizzonte trascendentale kantiano e quindi l’ineludibile finitezza non solo della conoscenza ma dell’intera esperienza umana. La temporalità però, come la stessa apertura dell’essere, eccede l’uomo concreto ricomprendendolo nella sua caratterizzazione solo a partire dall’estensione aperta da tale veduta orientata. Il divino è quindi, similmente all’intuizione pura kantiana, qualcosa che anticipa e precorre, in quanto condizione di possibilità, lo stesso uomo attraverso cui guarda. Il divino è allora al contempo lo stesso guardante, come Phanes, il dio della luce che permette la veduta in quanto luce ma, lui stesso, è presenza osservante riconosciuta dalla vista dell’uomo quale necessaria condizione della veduta. Questi dunque permette l’apparire degli enti eccedendo la totalità di essi, ricompresi in un’orientazione, ma può essere individuato solo a partire dagli enti che riconoscono questa veduta, ossia dall’uomo che si fa carico della sua designazione di esserci.
Si è parlato della verità rappresentata come libertà. Pietropaoli lo chiarisce esplicitando il frammento 123 di Eraclito: «Il sorgere dona il favore al velarsi». Donare il favore è perciò Eros, il preferire, il dare la preferenza. In quanto preferenza, il sorgere stesso come physis, l’apparire alla presenza, si mostra come libertà che decide di trattenersi dall’accecare per delineare dei contorni. Il sorgere illumina mantenendo però il velamento come contraltare dello svelamento, affinché vi sia la determinazione reciproca dell’uno in quanto questo e dell’altro in quanto quello. Ecco il ruolo della resistenza originaria, del conflitto essenziale tra velamento e svelamento: non ostacolo bensì condizione di possibilità. Ecco che linearmente diviene comprensibile il «circulus vitiosus deus»: il dio ricompreso in quanto personalità offre, secondo misura, lo svelamento e il trattenersi nel velato di cui fruisce lui stesso. E l’uomo? L’uomo è già sempre gettato nella libertà dispiegata del divino, è già immerso, come nella temporalità, in questo orizzonte che è a un tempo suo proprio e così posto come “pro-getto” dell’esistenza.
Si rivela ora necessario ritornare alla questione iniziale, alla circolarità della determinazione reciproca di uomini e dèi. Chi è il dio se non colui che dispone la veduta, che si decide per essa, per orientare l’apertura estesa e così darle senso? Proprio in quanto libertà la personalità si decide per la misura, per l’equilibrio tra velato e svelato. Cosa significa ciò? Significa assumere nell’attimo della decisione, dispiegata dalla completezza dell’esistenza fino alla morte, il mondo come proprio mondo. In questa assunzione riposa il riconoscimento dell’uomo come daimon, l’oltrepassamento di se stesso e dell’estraneità del mondo. In questo libro Pietropaoli richiama infatti, all’inizio dell’importante saggio dedicato a Nietzsche, un passo di Al di là del bene e del male che recita: «Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa dramma satiresco; e intorno a dio tutto diventa – che cosa? “mondo”, forse?» Questo è, secondo Pietropaoli, il punto nodale del rivelarsi della divinità del mondo, ossia il diradarsi tra velamento e svelamento di un’apertura di mondo che permette a un tempo all’uomo di superarsi come mero ente e riconoscersi nella sua dimensione divina.
Possiamo concludere quindi che il profondo lavoro di Pietropaoli, oltre ad offrire un’analisi che si fa carico delle tematiche fondamentali in senso stretto del pensiero heideggeriano, mette in mostra uno sviluppo estremamente interessante. L’aspetto più prezioso di tale studio è certo rappresentato dalle nuove prospettive che, a parere di chi scrive, possono essere ritrovate in queste riflessioni e utilizzate per dare nuova linfa a un pensiero filosofico che mostra di avere ancora molto da dire, con Heidegger e oltre Heidegger. Certo, indipendentemente dalla condivisibilità o meno che verrà concessa ad uno sviluppo prepotente e nuovo, questa eredità non ci lascia indifferenti, bensì ci investe direttamente nel nostro abitare il mondo e così ci influenza come uomini anche quando siamo rivolti ad altro.

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