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61. Recensione a: Carmine Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 204. (Marco Cavallaro)


La questione circa la natura dell’uomo è tanto antica quanto la filosofia stessa. Di fatto essa è stata sempre accompagnata dalla domanda circa la differenza specifica fra l’uomo e l’animale, in forza della premessa per cui la determinazione essenziale dell’essere umano sia fondamentalmente legata alla possibilità di separarlo dai suoi parenti più prossimi sulla Terra. Il recente volume di Carmine Di Martino, Viventi umani e non umani, affronta la medesima questione da un rinnovato punto di vista che integra le analisi fenomenologiche (in particolare husserliane) con i risultati più recenti provenienti da scienze sperimentali quali la primatologia, la paleoantropologia e la psicologia cognitiva. Il tutto per dare una risposta definitiva alla vexata quaestio, cosa rende unico l’uomo rispetto all’animale, il vivente umano rispetto a quello non umano?
Il volume contiene una serie di saggi con diverse unità tematiche e un punto focale unitario costituito dalla domanda antropologica fondamentale appena accennata.
Il capitolo primo pone la questione “Gli animali pensano?” e offre un’ottima introduzione ai più recenti risultati della ricerca primatologica. L’interlocutore principale di Di Martino, in questo come nella maggior parte dei capitoli del libro, è l’esperto di psicologia animale Michael Tomasello. Dalla fine degli anni Novanta Tomasello ha tentato di elucidare la questione circa la differenza antropologica, che trova il suo terreno di nascita nella filosofia, attraverso i mezzi della psicologia sperimentale. Pur consapevole della portata di quelle ricerche, Di Martino mette però in guardia il lettore contro un’assunzione acritica dei risultati delle scienze sperimentali. L’originalità dell’impostazione di Di Martino risiede difatti nel metodo attraverso il cui le teorie di Tomasello e di altri portabandiera delle scienze dell’uomo vengono analizzate nel corso del libro. In contrasto con il pensiero positivo della ricerca empirica, che si fonda sul postulato dell’esistenza di un mondo in sé separato dal suo apparire soggettivo, si tratta di assumere il punto di vista “fenomenologico” rispetto al quale il dato deve essere sempre ricondotto alle sue condizioni di “manifestatività”. Sulla scorta del principio fenomenologico per cui il manifestarsi del pensiero animale non è indipendente da colui al quale esso si manifesta, la domanda cruciale per Di Martino è “chi pensa le scimmie che pensano” (p. 25). In tal senso, la comprensione del vivente animale non può avvenire che per “trasposizione analogizzante”, per utilizzare un termine caro al fondatore della scuola fenomenologica Edmund Husserl. Di qui l’“inevitabile ‘antropocentrismo’ di ogni comprensione del mondo animale” (p. 27), il quale, lungi da essere l’ultimo approdo di uno specismo solipsista, costituisce piuttosto la presa di coscienza dei limiti strutturali del nostro “vedere”. Di Martino auspica quindi in tal modo il superamento dell’ingenuità delle scienze positive che consiste nell’ignorare la relatività incancellabile dei loro risultati, concetti e ipotesi. Il contributo che la fenomenologia (e la filosofia tout court) può dare al progresso scientifico è dunque di carattere prettamente metodologico. Si tratta per la precisione di impedire quella “ontologizzazione” dei risultati della ricerca che consiste nello sganciamento di questi dalle condizioni di manifestatività a cui sono per essenza legati. A tal proposito nota Di Martino: “dobbiamo sempre ricordarci che i cosiddetti ‘fatti’ non si danno mai senza i ‘modelli’ […]. ‘Che’ accade o sia accaduto qualcosa è senz’altro indipendente dai modelli; ma ‘che cosa’ è accaduto o accade si rivela sempre e necessariamente in una costitutiva relazione con una prospettiva interpretante, con un punto di vista” (p. 85).
Il secondo capitolo propone una lettura più strettamente fenomenologica della questione antropologica fondamentale che costituisce il motivo conduttore dell’opera. Si tratta qui di rintracciare nel pensiero di Husserl l’articolarsi di quella questione e di vedere in che modo essa venga declinata all’interno dell’atteggiamento fenomenologico. Di Martino distingue qui tre modalità attraverso cui il vivente animale diviene questione per la fenomenologia (husserliana). Innanzitutto esso figura nell’ambito delle ricerche dedicate al problema della costituzione intersoggettiva del mondo della vita. È infatti noto come per Husserl i soggetti ai quali il mondo si manifesta come unità fenomenica possono essere di diverso tipo e più o meno adeguarsi alla norma rappresentata dall’ideale dell’adulto (europeo) dotato di razionalità. Tra la schiera dei soggetti cosiddetti “anomali” figurerebbero così non soltanto i folli, i vecchi e i bambini ma anche gli animali. Una seconda prospettiva attraverso la quale il problema dell’animale si pone per il fenomenologo è legata alla costituzione del mondo ambiente animale come contrapposto a quello umano. In ultimo, l’animale viene analizzato rispetto alla sua datità in quanto alter ego animale. La domanda cruciale in tal senso risiede nell’applicare lo schema generale per l’apprensione dell’altro al caso specifico dell’esperienza dell’animale non umano.
La via intrapresa da Di Martino è specificatamente la seconda. La motivazione di questa scelta risiede nel fatto che l’analisi fenomenologica del vivente animale non può prescindere da una descrizione della relazione peculiare che tale soggetto intrattiene nei confronti del proprio mondo ambiente. La questione sta dunque nel determinare il tipo di rapporto che intercorre tra struttura egoica animale e mondo ambiente corrispondente, così come tra essa e la struttura egoica umana e tra mondo ambiente umano e mondo ambiente animale. Il tutto deve essere infine ripensato attraverso l’analogia tra uomo e mondo ambiente umano.
L’ipotesi più immediata consiste nel ritenere che la differenza tra mondo ambiente umano e animale sia solo una questione di gradazione, ossia che si tratti solamente di una differenza quantitativa. Nel mondo animale ritroveremmo le stesse strutture e oggetti del mondo umano, solamente in uno stadio più primitivo. Husserl si oppone decisamente a questa ipotesi e pensa piuttosto ad una differenza qualitativa tra il vivente umano e quello animale sulla base dell’osservazione per cui l’uomo è soggetto di un mondo culturale il cui rispettivo è del tutto assente nel mondo animale. Tutto sta però nel chiarire il concetto di cultura che fa da guida alle analisi husserliane. Secondo la prospettiva fenomenologica, la cultura non è altro che l’insieme delle Leistungen (operazioni, produzioni, azioni) intersoggettive e dei loro corrispettivi prodotti, ovvero gli oggetti culturali. Quest’ultimi incorporano prassi umane che per loro mezzo divengono patrimonio stabile, disponibile e sempre modificabile da parte di altri membri del gruppo umano attuale o futuro in cui sono stati prodotti. La marca fondamentale della cultura umana non risiede tuttavia nella capacità di produrre strumenti in vista di scopi, dato che da una parte una tale prerogativa può essere rintracciata anche nelle scimmie più evolute e che, d’altra parte, un oggetto culturale non è necessariamente un oggetto prodotto artificialmente, ma può essere anche soltanto una cosa naturale, come un fiume o una montagna, la quale abbia assunto “predicati spirituali” (geistige Prädikate) per un determinato popolo. Ciò che più propriamente contraddistingue la cultura umana è il tipo di azione che sta all’origine di ogni oggetto culturale: si tratta infatti di un agire che si innalza al di sopra della situazione attuale e delle spinte pulsionali originanti dalla struttura istintuale comune ad ogni animale, per porre, perseguire e realizzare fini caratterizzati da un orizzonte di realizzabilità infinito. Se dunque l’animale si pone fini finiti volti alla soddisfazione dei suoi bisogni istintuali immediati, l’uomo persegue invece scopi la cui realizzazione non può aver luogo nell’immediato presente o immediato futuro. L’apertura infinita dell’orizzonte pratico dell’uomo, chiarisce Di Martino, si verifica a seguito dell’esperienza della parzialità di ogni soddisfazione legata all’hic et nunc “che motiva la ricerca e la creazione di nuovi valori rispetto a quelli già esperiti, nella direzione di una soddisfazione totale” (p. 69).
In questo senso si lega un ulteriore predicato essenziale del mondo culturale umano, ovvero la sua storicità. Dato che i fini dell’agire propriamente umano non sono di norma realizzabili nel qui e ora dal singolo, l’uomo non soltanto dipende dalla comunità degli altri viventi nella realizzazione dei propri scopi vitali, ma essi possono di fatto appartenere ad una generazione a venire e non ancora in atto. Il processo del tramandare un fine da una generazione all’altra genera dei cambiamenti nel fine stesso che fanno che sì che esso si muti nel tempo rendendo così possibile la dimensione storica dell’agire umano.
Gli animali invece vivono in un mondo ambiente senza storia nella misura in cui i loro fini pratici sono legati rispetto alla loro origine e realizzazione possibile al qui e ora. Essi sono, come nota Husserl, “mero essere del presente (pures Gegenwartswesen)” (Ms. A V 24, 11a, citato a p. 64), incatenati nella soddisfazione dei propri bisogni al momento presente. Gli animali superiori posseggono indubbiamente un’apertura temporale verso un orizzonte futuro più o meno limitato; ciò è dimostrato sia dalle ricerche pioneristiche di Wolfgang Köhler sia da quelle più recenti di Tomasello, entrambi interessati alla capacità dell’animale di impiegare utensili e adattare il proprio ambiente circostante in vista della realizzazione di scopi pratici immediati. Tuttavia, una tale apertura è determinata da un bisogno o stimolo pulsionale che ha sede nel presente immediato. Il vivente animale è dall’altro lato incapace di rimemorazione, ovvero di una riattivazione deliberata della propria vita passata (cfr. capitolo quinto); in tal modo gli restano precluse quelle condizioni che gli permetterebbero di porre dei fini al di là dell’orizzonte limitato della propria esistenza immediata e di progettare la sua vita in conformità alle proprie scelte e prese di posizione (Stellungnahmen). Solo l’uomo è infatti nella condizione di piegare la totalità del proprio agire e volere ad un valore unico, ovverosia di autoplasmare la propria vita in accordo con un certo valore o ideale – possibilità che all’animale resta essenzialmente preclusa in virtù del suo orizzonte temporale limitato.
Il capitolo terzo intitolato “Tecnica e antropogenesi” intavola una conversazione con le teorie rivoluzionarie del paleoantropologo André Leroi-Gourhan, autore del famoso volume Il gesto e la parola. Questi è stato il primo a mettere in questione la tesi per la quale si credeva fosse il cervello e dunque l’intelligenza la spinta propulsiva per il salto evolutivo dalle scimmie all’uomo. Invertendo tale paradigma cerebralista, Leroi-Gourhan fa notare come piuttosto sono state la stazione e locomozione eretta le condizioni che hanno poi favorito lo sviluppo dell’intelligenza umana negli “ominini”. Attraverso di esse si verificarono infatti due eventi gravidi di conseguenze fondamentali: la liberazione delle mani dalla loro funzione locomotiva e la liberazione della bocca da certi compiti di prensione legati alla nutrizione.
La liberazione della mano costituisce una condizione necessaria – seppur non sufficiente – per lo sviluppo del tecnicismo umano. Quest’ultimo, spiega Di Martino, è legato da un doppio filo allo sviluppo dell’organismo umano. Da una parte ogni strumento tecnico rappresenta un’estensione dell’organismo: il ciottolo utilizzato per scalfire la pietra può essere inteso come l’estensione di un’attività e un meccanismo locomotorio svolto in origine dalla mano. Dall’altra parte all’ampliamento tecnico della mano corrisponde anche la sostituzione attraverso lo strumento delle capacità corporee. Ciò comporta che passo dopo passo la tecnica ha rimpiazzato una serie di attività svolte originariamente dall’organismo umano. Di Martino analizza questo interessante fenomeno alla luce delle ipotesi di due ulteriori autori, l’antropologo tedesco Paul Alsberg e il grande pensatore dei media Marshall McLuhan.
Alsberg sviluppò all’inizio degli anni Venti del secolo scorso una teoria dell’antropogenesi come conseguenza dello sviluppo tecnico umano. Una tale ipotesi ribalta il rapporto tra carenza organica e sviluppo tecnico-culturale teorizzato dalla linea Bolk-Portmann-Gehlen (cfr. p. 101). Non è la carenza organica costitutiva dell’uomo ad aver determinato il progressivo allontanamento del vivente umano dal suo progenitore animale; al contrario, sono stati l’invenzione e l’impiego di strumenti tecnici sempre più sofisticati ad aver prodotto una regressione delle capacità pratiche insite nell’anatomia umana stessa. La tecnica ha portato in altri termini a quella che Alsberg chiama “Körperausschaltung”, ovvero la disattivazione del corpo e delle sue possibilità pratiche in favore dell’impiego di utensili che non costituiscono solamente un prolungamento degli organi corporei ma anche una sostituzione di essi nell’ambito dell’attività umana nei confronti del proprio ambiente circostante. Nelle parole di Di Martino, il fare tecnico ha reso possibile di per sé l’antropogenesi in virtù dei suoi caratteristici “effetti retroattivi autoplastici, o autopoietici” (p. 104) ovvero delle sue “conseguenze autoplastiche preterintenzionali” (p. 105). L’impiego dell’utensile ha cioè fatto sì che l’uomo, o meglio quell’essere in divenire che si stava facendo uomo, abbia potuto evolvere in un certo modo. In tal modo Di Martino intende far propria anche la lezione di McLuhan, il quale parlò di “effetti reciproci sul fruitore” causati dall’utilizzo dei media o utensili di vario tipo. Riassumendo: “gli strumenti artificiali sono estensioni capaci di ‘effetti di ritorno’ sui loro utenti, che trasformano tali utenti in esseri che essi non erano già e che, in mancanza di quegli effetti, non sarebbero potuti diventare” (p. 104). In questo modo “[i]l fare rimbalza indietro a plasmare l’agente: esso trasforma preterintenzionalmente l’identità umana di coloro che, in vista di altri scopi, lo realizzano” (p. 118).
In questo percorso attraverso i vari processi evolutivi caratterizzanti l’antropogenesi mancava il riferimento ad uno strumento per certi versi fondamentale quale è il linguaggio. A tal proposito Di Martino si riallaccia alle ricerche dello psicologo russo Lev Vygotskij circa l’evoluzione del pensiero nel bambino. La tesi vygotskijana fondamentale è che l’acquisizione del linguaggio rappresenta per il bambino la porta d’ingresso verso le funzioni cognitive di ordine superiore. Ancora una volta le conseguenze retroattive dovute all’utilizzo di uno strumento, qual è il linguaggio inteso come creazione e manipolazione di segni, sono alla base di un passaggio evolutivo – ontogenetico nel caso del bambino, filogenetico nel caso dei primi “ominini”. In quest’ottica, scrive Di Martino, “l’uomo è in un certo senso premessa e conseguenza del linguaggio: egli ‘inventa’ i segni nella stessa misura in cui i segni, permettendogli di rispecchiarsi, di avere il significato dei propri gesti, ‘inventano’ lui, cioè fanno emergere un io autocosciente” (p. 114).
Un esempio fondamentale di come l’agire tecnico condiziona e trasforma il sapere e l’esperienza dell’uomo è dato perciò dall’invenzione dell’alfabeto e dal conseguente passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta. Tale cambiamento nel modo di approcciarsi al sapere è per Di Martino, che riprende qui le tesi di Eric Havelock, fondamentale alla nascita della cultura occidentale in quanto cultura legata ai parametri della logicità. È soltanto con il passaggio dall’orecchio all’occhio, entrambi intesi come organi di conservazione e apprendimento del sapere, che si instaura per la prima volta in Occidente quello schematismo mentale che oggi siamo abituati a chiamare “logica”. La mentalità logica è dunque prodotto di un fare tecnologico e non viceversa.
Il capitolo quarto del libro si concentra sul linguaggio e sulla questione circa la sua origine. Le analisi di Di Martino si pongono in aperta polemica con quelle del paleoantropologo Ian Tattersall, per il quale all’origine del linguaggio sarebbe da rintracciare un gene “linguistico” specifico insorto per caso e rimasto latente fino all’insorgere della cultura. Di Martino sottolinea il carattere contraddittorio delle tesi di Tattersall: il linguaggio, che dovrebbe spiegare l’unicità della cultura umana, è originato da un’attività umana già fondamentalmente culturale. Contro l’impostazione genetista circa l’origine del linguaggio, si schiera invece Tomasello secondo cui il linguaggio umano si è evoluto in quanto strumento attraverso cui gli uomini hanno realizzato la propria necessità fondamentale di stringere legami sociali.
Di Martino individua tre dimensioni caratteristiche del linguaggio umano: la dimensione intersoggettiva, per cui il significato di una parola viene inteso sia dall’emittente che dal destinatario del messaggio linguistico; il “significare in assenza”, per cui attraverso il linguaggio posso riferirmi a cose, eventi o persone assenti; la funzione universalizzante del linguaggio: attraverso la parola ‘rosa’, per esempio, viene inteso il significato ideale, mai l’essenza singolare e contingente di ciò che ci sta di fronte quando pronunciamo la frase ‘Questa rosa ha oggi un colore diverso da ieri’.
Ora, secondo Di Martino, che qui segue da vicino i risultati delle analisi di Tomasello, questi tratti distintivi della comunicazione linguistica nell’uomo non sono rintracciabili neppure nei più prossimi progenitori dell’uomo, le scimmie antropomorfe. Quest’ultime sono sì in grado di sviluppare “tipi cognitivi” per rappresentarsi le intenzioni dei propri simili e compiere così inferenze causali relativi alla natura degli eventi fisici osservati. Tale prerogativa non è tuttavia sufficiente alla formazione di un apparato comunicativo linguistico vero e proprio dotato di quelle caratteristiche fondamentali sopra enunciate.
Facendo proprie le ipotesi dello psicologo neozelandese Michael C. Corballis, Di Martino mostra come il processo che ha portato all’origine del linguaggio propriamente umano passa attraverso il gesto. Fondamentali a tale riguardo sono le esperienze dell’additare e del mimare, ovvero i gesti deittici e iconici. I gesti deittici da un lato rappresentano il primo passo verso la scorporazione del significato dal suo contesto reale di enunciazione e l’inaugurazione della dimensione ideale del linguaggio. Dall’altro lato la peculiarità dei gesti iconici risiede nella loro capacità di rappresentare un’entità, azione o situazione che sono al di là dell’orizzonte percettivo attuale del ricevente. Conseguentemente all’utilizzo del gesto iconico si verifica quindi una categorizzazione o schematizzazione dell’oggetto, azione, situazione, dato che l’imitazione coglie solamente quelle proprietà dell’entità imitata che risultano assolutamente necessarie al suo riconoscimento immediato, facendo astrazione dal rimanente. In ciò si manifesta la funzione principale del linguaggio, che è precisamente quella di permetterci il superamento del legame con la situazione vissuta così come del soggettivismo intrinseco di quel legame. Con la costituzione e l’apprendimento di significati ideali il soggetto parlante può infatti elevarsi al di sopra del proprio esperire per cogliere l’esperienza dell’altro così come oggetti, situazioni e azioni assenti.
L’ultimo capitolo del libro di Di Martino è dedicato alla chiarificazione di un’ulteriore facoltà propriamente umana, quella del ricordare. La tesi principale è qui infatti quella che nega al vivente animale la capacità di rimemorazione.
Per comprendere una tale posizione occorre però innanzitutto fornire una descrizione adeguata di quell’esperienza. A tal fine Di Martino si rivolge ancora una volta a Husserl, il quale con la sua teoria della rimemorazione come presentificazione intuitiva ha posto le basi per una fenomenologia del ricordo. Com’è noto la teoria husserliana parte dalla distinzione fondamentale tra ritenzione e ricordo vero e proprio o rimemorazione (Wiedererinnerung). La prima costituisce una sintesi temporale passiva che fa sì che l’appena trascorso permanga ancora per un certo tratto nel momento presente. In tal senso si spiega la capacità di percepire una melodia come il susseguirsi di suoni l’uno diverso dall’altro separati da determinati intervalli temporali. La rimemorazione va nettamente distinta dalla ritenzione, poiché in questo caso si tratta di un atto cosciente e deliberato della coscienza la quale tenta di riattualizzare una fase passata del flusso temporale delle esperienze.
Secondo Husserl, gli animali avrebbero sì la capacità di ritenzionare i vissuti appena trascorsi e di costituire così un campo percettivo discretamente aperto e non concentrato solamente nel presente immediato; ad essi resterebbe nondimeno preclusa la capacità di rimemorare attivamente esperienze passate.
I risultati delle analisi husserliane vengono ora messe in relazione con le ipotesi di Suddendorf e Corballis circa le tipologie della memoria animale e umana. I due autori si sono concentrati in tal senso sulla distinzione operata da Endel Tulving tra memoria semantica e memoria episodica. I dati empirici esaminati dai due autori escludono l’attribuzione agli animali del tipo di memoria episodica che implica oltre alla riattualizzazione del contenuto di un’esperienza passata anche il suo carattere dell’essere-vissuto in quanto esperienza in prima persona di un soggetto consapevole di sé. Le analisi di Tulving non si limitano tuttavia a distinguere due tipologie di memoria; più importante è infatti la sua tesi circa la derivabilità della memoria episodica da quella semantica. Mettendo a frutto questa intuizione, Di Martino giunge alla conclusione secondo cui il carattere unicamente umano della memoria umana, che consiste nella capacità di assimilare eventi episodici a lungo termine, è strettamente dipendente dalla mediazione del linguaggio, ovvero della memoria semantica.
In questo contesto si inserisce la “critica” di Di Martino alla fenomenologia husserliana del ricordo. Per Husserl vi sarebbe una sola forma fondamentale di ricordo, la rimemorazione intuitiva. In tale esperienza il linguaggio non gioca nessun ruolo fondamentale, anzi è escluso dalle analisi husserliane in quanto modalità di esperienza “categoriale” che non riguarda perciò strutture dell’esperienza precategoriale quali la rimemorazione. Per Di Martino l’insufficienza della descrizione husserliana non si limita tuttavia a ciò. Mettendo a frutto le tesi di Tulving, si tratta infatti di rintracciare nella rimemorazione stessa, o memoria episodica, l’operare della memoria semantica, ovverosia di schemi linguistico-concettuali, narrazioni e modelli interpretativi del mondo che sono costituiti a livello intersoggettivo e che intervengono nel rendere possibile e nel plasmare il ricordo soggettivo. L’analogia suggerita nel testo per spiegare la struttura composita dei nostri ricordi è quella di un muro fatto “di mattoni, le rimemorazioni intuitive, e di malta, le presentificazioni non intuitive, le ricostruzioni operate a partire dalle conoscenze acquisite e dai racconti altrui: la malta si limiterebbe a colmare gli interstizi tra i mattoni e a dare maggiore compattezza a un assemblaggio che è in sostanza già pronto, predelineato, svolgendo quindi una funzione di ausilio o di supporto” (p. 192). In altre parole, i contenuti intuitivi a cui il soggetto ha ancora accesso attraverso la sintesi temporale della ritenzione possono accedere allo statuto di ricordi in senso stretto solo attraverso la mediazione “semantica”, ovvero attraverso l’integrazione di quelle esperienze passate in modelli e schemi logici ritenuti validi da un particolare gruppo. Infatti, se il ricordo è mediato dal linguaggio, esso è mediato al tempo stesso dalla cultura di un determinato gruppo umano di cui quel linguaggio è espressione. “Per ricordare”, conclude quindi Di Martino, “per avere una memoria episodica vera e propria, bisogna parlare, avere un linguaggio in senso stretto” (p. 196).
Le riflessioni condotte da Di Martino in questo libro testimoniano l’attualità della questione antropologica fondamentale non solo in ambito filosofico ma anche nel terreno delle scienze empiriche. Di Martino ci offre un percorso attraverso la letteratura più importante sul tema, proponendo così una prospettiva di ampio respiro al di là dei confini di ogni nicchia scientifica. In tal modo il libro ci ricorda come nel momento attuale la funzione principale della filosofia sia di entrare in dialogo con le scienze, anche quelle più spiccatamente sperimentali, e, come direbbe Husserl, di sottrarre allo scienziato per un attimo i suoi “paraocchi” scientisti e fargli cogliere il senso profondo delle proprie ricerche nei confronti del mondo della vita.

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