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65. Recensione a: Boris Hessen, Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton, a cura di Gerardo Ienna, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 154. (Emiliano Sfara)


Quando fu chiesto a Woody Allen se credeva nella scienza, il regista rispose che tra il Papa e l’aria condizionata sceglieva l’aria condizionata. Chi si occupa di filosofia delle scienze sa bene che questa pone a volte dinanzi ad alternative anfibie e apparentemente antitetiche di questo tipo, cioè del tipo dell’amletica scelta tra il Papa e l’aria condizionata. Nondimeno, da un orizzonte generale, il senso di insoddisfazione che nasce dall’aut aut, cioè dal dover propendere giocoforza per una delle due forze in campo nella spiegazione dell’origine e dell’evoluzione del mondo (la materialissima scienza e il Dio acorporeo), confluisce tale e quale in regioni più circoscritte del dibattito epistemologico. È il caso della famosa querelle tra il sedicente “credo” internalista e i dettami delle tesi esternaliste nella storia filosofico-genealogica delle dottrine scientifiche, ovvero tra la tesi secondo cui la scienza si sviluppa dall’interno dell’evolvere lineare delle sue segmentazioni teorico-astratte indipendentemente dal contesto storico, e il principio secondo cui l’elaborazione delle teorie scientifiche si deve unicamente alle congiunture sociali, produttive e materiali storicamente parallele. La recente edizione de Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton di Boris Hessen (1893-1936), attraverso l’introduzione del curatore Gerardo Ienna e di Giulia Rispoli e la postfazione di Pietro Daniel Omodeo, tenta a suo modo di ovviare al perdurante senso di insoddisfazione generato da questa querelle vecchia quasi un secolo. Sottolineiamo che il volume in questione si presenta come la prima edizione «critica e autonoma» in lingua italiana del testo di Hessen «a partire dal confronto fra il testo inglese del 1931 e quello russo del 1933» (p. 41), edizione ulteriormente comparata con le traduzioni in francese, spagnolo e con la prima traduzione in italiano del 1977, la quale era stata condotta unicamente sulla base della traduzione inglese del 1971 (cfr. pp. 5-6). È secondo noi il rigore di un esercizio filologico di questo tipo – corredato di note a piè di pagina che segnalano le correzioni degli autori rispetto alla vecchia traduzione – che giustifica la legittimità del tentativo di Ienna, Rispoli e Omodeo di indicare una pista teorica credibile che venga a capo dell’annoso dibattito tra internalismo ed esternalismo. Boris Hessen è stato un filosofo e storico della scienza sovietico condannato a morte da Stalin nel 1936.
Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton non sono che la trascrizione dell’intervento di Hessen (il quale è convenzionalmente considerato come un esponente della corrente esternalista) in occasione del secondo Congresso Internazionale di Storia della Scienza e della Tecnologia tenutosi a Londra nel 1931. Le posizioni tematiche di Hessen sono compendiate sia in epilogo (postfazione) che in prologo (introduzione) al suo testo: si evince anzitutto il tentativo di evidenziare la relazione tra lo sviluppo tecnico-scientifico e lo sviluppo economico nella prima età moderna; si prosegue con la disamina del fatto che senza un progresso tecnologico di un certo tipo e all’interno di un determinato campo, le scienze afferenti a quello stesso campo non hanno beneficiato di un progresso sufficientemente rilevante intorno al diciassettesimo secolo (la termodinamica e l’elettrodinamica devono attendere la diffusione delle macchine a vapore e dei motori elettrici per guadagnare una certa robustezza teorica); si termina con la spiegazione della concezione newtoniana della materia sulla scorta dell’incastellatura ideologica che caratterizzava l’intera scienza di fine ’600, testimone della Gloriosa Rivoluzione del 1688: uno scenario sovrastrutturale cui Newton aderì collocando Dio al principio ultimo del moto degli elementi dell’universo. Salta ovviamente agli occhi l’ascendente teorico della scuola marxista. Hessen mostra in prima battuta che la scienza moderna è sorta non in concomitanza con, ma dall’allargamento della rete economico-commerciale di una borghesia in ascesa, la cui conseguenza fu un’impennata della linea produttiva nel processo tecnologico. Si passò, non senza accanite opposizioni da parte della prima, dalla scienza tradizionale accademica fondata sul metodo logico aristotelico, alla nuova scienza concreta dell’esperimento materiale: «Quando Kircher (inizio del secolo XVII) informò un certo professore gesuita che attraverso il telescopio era possibile osservare le macchie solari recentemente scoperte», scrive Hessen nella traduzione di Giulia Rispoli, «quest’ultimo rispose: “È inutile, figliolo mio. Ho letto Aristotele due volte e non ho trovato nulla in lui a proposito di macchie solari. Non ci sono macchie sul sole. Esse provengono o da imperfezioni del vostro telescopio o da difetti dei vostri occhi”» (p. 67). In parole povere e molto generali, si può dire che l’obiettivo di Hessen fosse quello di sfatare il mito dell’innovazione scientifica in quanto prodotto illuminato di un genio solitario quasi completamente avulso dal suo ambiente mondano.
Per il pensatore sovietico, Newton deve al contrario l’elaborazione dei suoi Principia alla fiorente produzione tecnologica a lui contemporanea, figlia della nascente economia borghese. In una lettera del 1669, dimostrando di essere oltremodo interessato ai problemi tecnici del suo tempo, lo scienziato inglese consiglia ad esempio al suo giovane amico Aston, il quale stava per compiere un viaggio in alcuni paesi d’Europa, di studiare il meccanismo di governo e i metodi di navigazione delle navi, e di apprendere gli espedienti pratici che permettevano agli olandesi di proteggere le loro navi dall’imputridimento (pp. 71-72). Non stupisce quindi, seguendo la lettura hesseniana, che la quinta sezione del secondo libro dei Principia si occupi dei principi di idrostatica e del problema dei corpi galleggianti (p. 75). Il lettore potrebbe a questo punto chiedersi se il concetto legato al termine esternalismo, che segnala una disposizione teorica estrema e di conseguenza opposta a un altro estremo, quello internalista, possa essere suscettibile di alcune critiche a fronte di considerazioni tanto evidenti e persino ordinarie come l’influenza del contesto storico-tecnico nell’elaborazione scientifica. Su questo punto Ienna e Rispoli fanno presente che nella relazione di Hessen, tanto a livello terminologico quanto a livello argomentativo, non c’è traccia della dicotomia interno-esterno, la cui introduzione, che continua a generare «lunghe querelles a livello sia intra sia inter disciplinare» (p. 41), si deve invece a Robert K. Merton (1910-2003). Sulla stessa falsariga, Omodeo (p. 124) ricorda che nel riassumere la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura in apertura al proprio testo, il filosofo sovietico allude dichiaratamente a un condizionamento del modo di produzione nei confronti dei processi politico-sociali: la base materiale condiziona la sovrastruttura, ma non la determina, «lasciando aperta la possibilità di un trattamento non monocausale». I fondamenti della conoscenza devono essere infatti ricercati per Hessen nella mutua interazione tra soggetto e oggetto, il quale non si presenta contrapposto al primo assumendo le caratteristiche di una cosa in sé. Questo tipo di assunti generali costarono al filosofo l’epiteto (tra gli altri) di “idealista” e di “deviazionista”, consegnandolo di fatto alla scure delle Grandi purghe dietro l’accusa di coinvolgimento in attività terroristiche anti-sovietiche e di essere stato uno dei responsabili dell’assassinio di Sergeij M. Kirov (pp. 14, 15).
Tornando alla coppia interno-esterno, lo stesso Koyré, citato nell’introduzione a p. 28 e spesso tacciato di “internalismo” unilaterale, non rileva nella scienza materiale una dipendenza coatta dal corpus ideologico: «La nuova scienza, ci è stato detto a volte, è la […] scienza delle crescenti classi borghesi della società moderna. C’è sicuramente del vero in queste descrizioni […] ma devo confessare che non sono soddisfatto». Osserviamo a questo proposito che diversi e importanti rappresentanti internazionali della filosofia della scienza non si riconoscono in alcuna etichetta di tipo dicotomico quando per lunghi tratti della loro produzione bibliografica danno un peso fondamentale alla congiuntura storica o materiale nello sviluppo delle scienze moderne. Nella stessa misura in cui Hessen esemplifica lo scarto tra il metodo logico aristotelico e la pratica concreta, il Paolo Rossi de I filosofi e le macchine insiste sul recupero delle arti meccaniche dall’accusa di indegnità nel passaggio da una concezione medievale della conoscenza ancora fondata sulla contemplazione disinteressata e amondana della verità. Quanto alla tesi hesseniana che radica la formazione della nuova scienza nel contesto storico dell’incremento degli scambi commerciali, nella trascrizione di un corso tenuto alla Sorbona nel 1961-62 dal titolo indicativo Lo statuto sociale della scienza moderna, l’epistemologo francese Georges Canguilhem indica che importanti problemi teorici come quello della determinazione delle longitudini non potevano che sorgere in concomitanza con l’espansione del commercio marittimo. Per Canguilhem non c’è del resto scienza teorica senza un procedimento tecnico-pratico cronologicamente antecedente: la termodinamica nasce non a caso dall’osservazione del rendimento discontinuo della macchina a vapore, cioè di un prodotto concreto dell’attività tecnica. Un filosofo culturalmente legato alla tradizione “analitica” come Ian Hacking mette dichiaratamente al centro del proprio approccio metodologico la storia, richiamandosi ad altri esponenti dell’epistemologia storica francese come Foucault e Bachelard.
Rossi, Canguilhem e Hacking non sono ovviamente che alcuni esempi del sodalizio tra analisi storica e discorso scientifico. Ienna, Rispoli e Omodeo ne segnalano degli altri e ne tratteggiano i nuclei concettuali: Joseph Needham, John D. Bernal, George N. Clark, il sopramenzionato Merton, Edgar Zilsel, Henryk Grossmann, Loren R. Graham, S. Shapin, S. Schaffer solo per citare alcuni. Tutti inseriti in quadro teorico-storico coerente con la ricezione della dottrina hesseniana dagli anni ’30 in poi. Un quadro teorico che non consiste in una sorta di apologia dossografica, vale a dire in un elenco di autori unicamente teso a giustificare o rafforzare la portata teorica delle tesi hesseniane, proprio perché di queste vengono rintracciati i limiti o le insufficienze alla luce dell’ampia cornice della storia delle idee filosofico-scientifiche pre e post Hessen. Omodeo scrive ad esempio che Matteo Valleriani (2010) ha recentemente mostrato che «scienziati-ingegneri» del calibro di Galileo Galilei, che aspiravano a un largo riconoscimento sociale soprattutto negli ambienti di corte, «agirono come mediatori tra centri di potere decisionali, da una parte, e cantieri e officine, dall’altra» (p. 141). Questo ascendente “politico” nell’esercizio scientifico viene appunto trascurato dal filosofo sovietico, il quale privilegia quello economico tout court. Dagli anni ’80 in poi, con la cosiddetta «svolta culturalista», si è cercato di rimediare a una lettura della storia delle scienze troppo schiacciata sull’economicismo, al punto che oggi «la maggior parte degli storici della scienza concordano sull’importanza dello scolasticismo e dell’umanesimo come filoni culturali soggiacenti alla scienza moderna insieme alla conoscenza pratica» (p. 144). Tuttavia, la suddetta svolta si è a sua volta appiattita su una sorta di «relativismo culturalista» (p. 147), che mettendo in strettissima correlazione cultura e scienza sfocia in una eccessiva soggettivazione delle stesse categorie storiche ed epistemologiche. Il saggio di Hessen, come leggiamo nelle pagine finali della postfazione, può dunque «servire da antidoto agli eccessi culturalisti e post-moderni in particolare su due fronti: primo, in vista della ripresa e rafforzamento dello studio di economia e tecnologia non in antitesi ma in stretto rapporto con gli studi culturali; secondo, come modello di presa di coscienza, difesa e sviluppo di un punto di vista storiografico». Un discorso filosofico che voglia indagare seriamente le origini e l’evoluzione delle scienze e del dibattito scientifico, non può lasciarsi irrigidire dall’eccessiva schematicità dei modelli dicotomici che oppongono l’internalismo all’esternalismo. È invece impugnando un’analisi minuziosa condotta a partire dai contesti storico-economici, dall’evoluzione teorica delle idee e dai fattori politico-culturali a esse soggiacenti che si evita di cadere in semplicistici luoghi comuni come quello del Papa e dell’aria condizionata. È questa secondo noi l’idea al centro del lavoro di Ienna, Rispoli e Omodeo su Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton di Boris Hessen.

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