Ci sono due libri – forse i soli due libri in italiano – che possono illuminare la questione Heidegger nelle sue valenze storico-politiche. Il primo è la rigorosa analisi filologica ed ermeneutica approntata da Friedrich-Wilhelm von Herrmann e Francesco Alfieri in Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri (Morcelliana, 2016). Il secondo è l’esegesi teoretica di Eugenio Mazzarella.
Molto al di là del «teatro filosofico», al di là dei media sempre pronti allo scandalo, al di là del marketing editoriale estraneo a qualunque filosofia, Mazzarella delinea un itinerario dentro l’abisso heideggeriano. Percorso che parte dalla chiara affermazione «che nessun interprete dotato di buon senso possa ritenere che che sul terreno degli eventi o anche solo sull’ideologia del Reich – il nazismo e la sua politica, anche nei riguardi degli ebrei – Heidegger abbia avuto un qualche ruolo. Politicamente e ideologicamente (per lui biologismo e principio della razza saranno sempre pura volgarità filosofica […] ), Heidegger per il regime nazista non contava niente già dal ’33, ammesso che avesse mai contato» (pp. 20-21). L’interesse verso il nuovo movimento politico che si andava affermando in una Germania uscita distrutta dal primo conflitto mondiale affondava nella speranza di oltrepassare le secche del capitalismo anglosassone e della dittatura sovietica. Il disinganno fu pressoché immediato, l’esperienza del Rettorato a Friburgo fu assai breve e da allora Heidegger praticò «un disimpegno sempre più apocalittico, man mano che nell’inoltrarsi negli anni Trenta, negli scenari di politica internazionale della Germania nazista e poi nella guerra, diveniva sempre più chiara la deriva di mera potenza del Reich ‘millenario’» (p. 16). Anche il nazionalsocialismo gli apparve infatti come espressione del Gestell, della dimensione tecnica volta a fare del mondo e di ogni sua espressione uno strumento di mera potenza, di accumulo, di utile finanziario.
Da qui germinò e crebbe un atteggiamento di progressivo rifiuto della storia, che Mazzarella definisce come «anatema gnostico del presente piuttosto che comprensione delle sue radici» (p. 56). Un atteggiamento che trovò il suo linguaggio e la sua forza -per quanto mediata e nascosta dallo stesso Heidegger – nella posizione gnostica verso il mondo. Essa si declinò nelle forme dell’antiumanismo; dell’ontofania che vede nel cristianesimo l’abbandono del «coraggio di guardare in faccia la verità dell’ente nell’essere», la quale si esprime «nel detto di Anassimandro e non nelle consolazioni ‘cristiane’ di un’economia della salvezza» (p. 103); del «puro soggettivismo gnostico che ricade su se stesso, mentre crede di saltare nell’Essere» e nella conseguente «Stimmung che si traduce in un’invocazione gnostica della catastrofe purificatrice dei tempi» (p. 78).
Si comprende quindi che non c’è in Heidegger alcun antisemitismo ma vige un profondo anticristianesimo, che ha poi come conseguenza anche la critica al giudaismo, così come accade – in contesti e intenzioni naturalmente assai diversi – per il Voltaire del Dizionario filosofico: «L’avversione all’ebraicità, al carattere ebraico è fondamentalmente l’avversione al tratto ‘nichilistico’ della civilizzazione europea, nietzscheanamente messo in capo al cristianesimo» (p. 29).
Ben al di là dei «diciannove passi […] un passo ogni cento pagine» (p. 27) dedicati all’ebraismo nei Quaderni, Heidegger critica assai più di frequente e in modo netto i fondamenti del cristianesimo. Si pronuncia infatti contro l’Incarnazione che all’epifania degli dèi nel mondo sostituisce il farsi uomo del dio: «Heidegger vive come un’offesa al pensiero che qualcuno possa ancora annunciare ‘Dio che si è fatto uomo per la nostra salvezza’, smerciare l’oppio dei popoli a un’Europa, a un Occidente allo sbando» (pp. 76-77); contro la «‘sacralizzazione’ cristiana della vita come diritto della vita a se stessa nella forma di singoli, di popoli e di nazioni» (p. 74), alla quale il filosofo oppone una vera e propria – neoplatonica – Dissipatio Humani Generis (Giamblico) per la quale l’ultimo atto del compimento della tecnica nell’imperialismo politico sarà, scrive Heidegger, «far saltare in aria la terra stessa e fare scomparire l’umanità attuale. E ciò non sarà affatto una sciagura, bensì la prima purificazione dell’essere dalla sua più profonda deturpazione compiuta dalla prepotenza dell’ente» (Riflessioni XIV, pp. [113], 309; cit. a p. 107).
Tutto questo è ciò che Mazzarella definisce più volte come l’abbuiamento gnostico che consegna la «gnosi esistenziale di Essere e tempo della privatezza dell’Esserci, della singolarità esistente, a una gnosi che si slarga e si inabissa, nel ‘politico’, perdendo insieme a sé il mondo che voleva ‘salvare’, portare ad un ‘nuovo inizio’. Una gnosi che negli anni dei Quaderni, dal 1930 al 1948, passa dal mito del mondo nuovo […] a un radicale anticosmismo in cui l’Io che ha acquisito la rivelazione gnostica sta in una contrapposizione di principio al mondo nella sua totalità» (pp. 79-80).
La tesi di Mazzarella è che da tale abbuiamento Heidegger si sarebbe affrancato tramite la Frage nach der Technik, che a partire dagli anni Cinquanta rappresenta «una via d’uscita dal ‘buio ontologico’ degli anni Trenta e Quaranta» (p. 18), restituendo il pensare heideggeriano a una immersione nella storia, ai suoi elementi relativi e alla sua apertura a un divenire non segnato dal male.
È, questa, una ricostruzione del plesso gnostico heideggeriano di grande rigore e plausibilità, che si pone all’altezza nella quale sempre bisogna leggere Heidegger. A essa si potrebbe tuttavia obiettare che in uno degli ultimi vertici della riflessione heideggeriana, i Seminari tenuti a Le Thor negli anni Sessanta, Heidegger ribadisce la sua radicalità gnostica quando ad esempio afferma che «la ‘decadenza’ intesa ontologicamente è la condizione naturale dell’esserci, in quanto esso può occuparsi delle cose soltanto non lasciandosi coinvolgere dall’essere. Ma occuparsi dell’ente è possibile e comprensibile soltanto mediante l’essersi-allontanato dall’essere» (Le Thor 1969, in Seminari, a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi, Milano 2003, p. 133; sui Seminari heideggeriani si veda anche la recente analisi di Lucrezia Fava in Koiné 2018, pp. 241-250).
Aperta rimane, inoltre, la questione dell’anticosmismo. Mazzarella afferma correttamente che quello di Heidegger è un «abbuiamento gnostico in cui il mondo – l’universa totalità del presente del mondo divinizzato della modernità della tecnica, dell’epoca ridotta ad immagine – non ha più nulla della venerabilità tuttavia del kosmos greco, del cosmo della gnosi antica» (pp. 80-81) e però non è un caso che la critica radicale rivolta sin dall’inizio da Heidegger al paradigma antropocentrico costituisca uno dei fondamenti dell’ecologia profonda.
Forse anche Heidegger, come gli gnostici antichi, guardando dentro la materia, osservando con occhi profondi il kosmos, ne vede certo tutto il male e lo dice con parole implacabili ma sa anche intravederne l’enigma, la luce che la conoscenza produce, come mostrano anche alcuni brani dei Quaderni citati da Mazzarella nella nota 46 di pp. 108-109:
«Riflessioni XII, par. 55, pp. [101], 88: ‘incline alle cose semplici come la giovane betulla che, ben disposta verso tutti gli esseri e i venti, accoglie nella sua grazia stelle e sole e saluta la terra, della quale sostiene la forza richiudentesi’, o l’autobiografia tragico bucolica di Riflessioni IV, par. 292, pp. [123-124], 401-402: ‘Ma per quanto possa anche infuriare la più sfrenata falsificazione di tutto, al sapiente resta ancora la cresciuta tranquillità della montagna, il risplendere raccolto dei prati alpini, il volo silente dei falchi, le nuvole rade nel grande cielo – tutto quello in cui si è già annunciato il grande silenzio della più lontana vicinanza dell’Essere’, che commenta con una prosa in versi, che data, persino, al 5 luglio 1936: ‘La sorgente che sorga dallo Stübenwasen // Il flusso d’acqua pura che scorre dai nascosti / fondamenti della montagna. // unicamente il compito – // incurante nell’abuso – // indifferente al fraintendimento / sereno di fronte a ogni mancanza di effetti. // Distanza da ogni impresa / nessun tentativo di ottenere un aiuto immediato // restare impenetrabile; la maschera’».
Talmente denso, intricato ed essenziale è il nodo che il marketing editoriale ha ridotto a chiacchiera superficiale, e che invece questo libro con sapienza sa indagare, da suggerire ancora una volta che la filosofia – in Heidegger come in Eraclito, Platone, Aristotele, Spinoza, Nietzsche, Husserl – è simile a una montagna, che ogni tanto degli umani cercano di scalare. Alcuni ben attrezzati arrivano alla cima, altri sono pieni di impegno ma non di strumenti e magari si fermano e tornano indietro, altri ancora pensano di aggredirla e finiscono con il precipitare. La montagna rimane lì, nell’aria e nella luce, dando respiro all’aria, riverberando luce.