È innegabile che spesso, di fronte a pensatori molto complessi dal punto di vista intellettuale, i soli elementi che riescono a fuoriuscire dal dibattito prettamente accademico per diventare, per così dire, di dominio pubblico, siano quelli più immediatamente “controversi”. Là dove con “controversi” intendo quelli che più facilmente (ma sempre erroneamente nel caso di autori, come Adorno, mai banalmente “manichei”) si prestano a una divisione in “tifoserie”: dinamica, tra le altre cose, che non interessa oramai solo gli scontri tra posizioni diverse su fatti ed eventi culturali, ma che subdolamente è riuscita a penetrare in ogni ambito propriamente dedicato alla discussione. I vari momenti della riflessione adorniana sul jazz – peraltro, per varie peripezie editoriali, mai riuniti fino a oggi in un unico volume in lingua italiana – sono un esempio lampante di questa affermazione; e a cercare di rimettere ordine nella questione hanno allora provato Giovanni Matteucci e Stefano Marino nel libro Variazioni sul jazz. Critica della musica come merce (Mimesis, Milano-Udine 2018). Pregio innegabile del libro è dunque quello di fornire finalmente in un’unica opera, peraltro di agile consultazione, i diversi momenti di una tematica, o meglio di un percorso, che nella riflessione di Adorno non è mai venuto meno; operazione, questa, di per sé già difficile stante la vastità del materiale prodotto e lasciatoci da Adorno, nonché per la natura stessa della riflessione adorniana. Il volume Variazioni sul jazz. Critica della musica come merce ricomprende, in ordine cronologico di pubblicazione dal 1933 al 1953, i sette saggi nei quali Adorno sviluppò le proprie riflessioni sul jazz. Questo filone teorico si apre con “Congedo dal jazz” (1933) il saggio che sancì l’inizio dell’interesse teorico di Adorno per il tema, con la famosa certificazione di morte del jazz; seguono “Sul jazz” (1936), le “Appendici oxoniensi” (1937), la “Recensione di W. Hobson, American jazz music, e W. Sargeant , Jazz, Hot and Hybrid” (1941), “Jazz, da Diciannove contributi sulla nuova musica” (1942), “Moda senza tempo. Sul jazz” (1953), e infine, a chiudere il volume, la “Replica a una critica a Moda senza tempo” (1953) in cui Adorno risponde alle obiezioni postegli dal musicologo jazz Berendt. Viene così emergendo – secondo una dinamica eminentemente musicale, come nota Matteucci nell’introduzione – una vena teorica di riflessione apparentemente autonoma che però, si badi bene, non è mai da considerare svincolata rispetto alla mastodontica opera di demistificazione ed evidenziamento delle logiche dell’industria culturale e dell’ideologia capitalista, ma è anzi parte integrante della critica adorniana della cultura di massa. Con quest’affermazione, cioè col mettere in rilievo la natura eminentemente critica dell’approccio adorniano al jazz, non s’intende naturalmente qui in alcun modo sostenere che non si debba parlare più di Adorno e di jazz. Anzi, l’invito che il volume ci offre è quello a riconsiderare tutte le “variazioni” di Adorno sul jazz non come invettive per il puro gusto dell’invettiva rivolte a quella che al nostro sembrava l’ennesimo oggetto standardizzato da produrre in serie (la cui serialità emerge, a uno sguardo critico, proprio dalle caratteristiche che sembrerebbero affermarne l’originalità e la libertà: ad esempio le “pseudo-improvvisazioni” o la “battuta apparente” sul piano ritmico), ma come riflessioni al contempo filosofiche, sociologiche e musicologiche che, essendo oramai facilmente consultabili in questo agile volume, vanno ricomprese e riconsiderate in quell’ampio affresco critico che è il lascito intellettuale di Adorno. Il carattere polemico delle posizioni di Adorno in questi testi è assolutamente innegabile e potrebbe allo stesso tempo sembrare insensatamente ruvido e aggressivo, qualora non le si collocasse nell’alveo del pensiero critico adorniano nel suo complesso. In maniera brillante, la Prefazione di Giovanni Matteucci si presenta come un vademecum per addentrarsi non proprio disarmati nella riflessione di Adorno; senza una solida comprensione della distinzione tra “materico” e “materiale”, tra “esperienza” ed “empiria”, senza una seppur vaga conoscenza della critica dialettica, si rischia infatti di perdersi e soprattutto di perdere il vero fulcro del discorso. Mentre, a chiudere il volume, la Postfazione di Stefano Marino offre in certo modo una ripresa di quanto anticipato e precisato nella Prefazione, quasi a voler tirare le fila di tutta la discussione e a voler ribadire la “pregnanza collaterale” del jazz nella riflessione adorniana: non un divertissement, non uno sfogo di bile reazionaria, ma un tema di pensiero che a prima vista parrebbe risolversi nella sua carica polemica ma che, a una lettura attenta, ci invita a cogliere l’iperoggetto (l’industria culturale) che gli sta dietro. Personalmente, soprattutto dopo la rilettura del volume, ritengo che il grande invito che sembra offrirci Adorno non sia tanto la critica circostanziata alla “struttura materiale” del jazz come fenomeno storico-musicale, ma i motivi della genesi di questa posizione e la necessità di una critica del genere. Qualora dell’Adorno critico musicale rimanesse al lettore solo la sensazione della posizione reazionaria, e facilmente stereotipizzabile, dell’“anziano critico che non voleva accettare il tramonto di un determinato modo di intendere, fare, esperire e comporre la musica”, gli si potrebbe tranquillamente ritorcere contro ciò che Adorno stesso fece senza problemi nel 1933 con il jazz, cioè dichiararlo “morto”. Ma per chi avesse voglia e sentisse l’esigenza di ripensare la “struttura materiale” delle argomentazioni di Adorno sul jazz e di attualizzarla, di riappropriarsi della forza demistificatrice della sua critica e di ridirigerla sul presente, questo libro rappresenta sicuramente un’ottima base di partenza.