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75. Recensione a: E. Cassirer, Il diritto e la ragione. Rousseau, Kant, Goethe, a cura di G. Raio, Donzelli, Roma 2017, pp. XX-152. (Cosimo Nicolini Coen)


In Pour une morale au-delà du savoir (1998) Catherine Chalier metteva in evidenza come la storia del XX secolo abbia definitivamente screditato l’istanza secondo cui il progresso conoscitivo e tecnico costituirebbe la premessa all’affermarsi della condotta morale dell’uomo. Scriviamo “definitivamente” poiché – come Chalier indica – “le constat de l’abîme qui sépare culture et moralité est ancien”. La condotta etica trova sì la sua condizione di possibilità in quello stesso soggetto, l’uomo, capace di conoscenza e tecnica, ma in una regione distinta da quella ove alberga il sentimento di meraviglia di fronte al mondo: nella regione del dover essere (Sollen), della ragion pratica, e non in quella dell’essere (Sein), della ragion teoretica – diremo con termini che, a partire da Kant, saranno destinati a segnare il lessico filosofico successivo. Ernst Cassirer, nel suo saggio Kant e Rousseau – di recente riedito in Il diritto e la ragione, a cura di Giulio Raio – mette in evidenza come l’abbandono dell’ “ingenua fiducia” secondo cui “la cultura spirituale e il suo continuo progresso” (p. 16) fossero condizione sufficiente a imprimere l’orientamento etico nella vita pratica dell’uomo, costituisca la cifra dell’eredità che Kant raccolse dal pensiero di Rousseau. Eredità che non si risolve nella pars destruens – nel costatare lo iato tra dimensione conoscitiva ed etica – se è vero, come scrive lo stesso Kant, che fu sempre Rousseau ad insegnargli “a rispettare l’uomo” non più per le sue vette intellettuali ma per la capacità di agire in accordo con la sfera del dover essere. Capacità che può ben essere della “plebe ignara di tutto” – verso cui Kant, prima della lettura dei testi del filosofo ginevrino, provava “disprezzo” (p. 10) – quanto del soggetto che vive nella “sete di conoscenza”. Capacità, dunque, che trova nella natura umana, nell’homme naturel, la propria condizione di possibilità. In questo solco il testo di Cassirer focalizza l’attenzione sul comune sforzo – pur perpetuato attraverso “strumenti concettuali differenti” e a partire da “impulsi contrastanti” (pp. 34, 9) – da parte di Rousseau e Kant di fondare la morale sull’autonomia del soggetto umano.
Ma cosa intendere quando si parla di “natura umana”, di homme naturel e di “soggetto”? A partire da tale interrogativo è possibile cogliere in che misura – secondo Cassirer – la lettura e ricezione da parte di Kant delle opere di Rousseau abbiano permesso non soltanto una chiarificazione del pensiero di quest’ultimo ma anche, e su queste basi, di “penetrare fin nel fondamento ultimo delle tesi di Rousseau” (p. 16). Come si vede il punto non è di ordine storiografico, bensì teoretico. Il che segnala due cose. Anzitutto che il ragionamento sulla morale, che prima abbiamo definito con il lessico di Kant come attinente il dominio della ragion pratica rispetto a quella teoretica (descrittiva), è a sua volta portatore di un peso specifico teoretico. In secondo luogo che tale peso specifico è qui declinato da Cassirer nei termini della Wirkungsgeschichte, “la storia della recezione”, ossia – spiega Guido Raio nella sua Introduzione – “la storia del prodursi del significato” non tanto nell’accezione ermeneutica quanto, riprendendo il sintagma Wirkung, come “avvenire” di una “problematica oggettiva che non ha valore solo per l’epoca nella quale è sorta” (p. XI). La capacità di Kant di cogliere il “fondamento ultimo” del pensiero di Rousseau si sviluppa dunque sui due assi sopra menzionati: superando alcune ambiguità presenti nei testi stessi del filosofo ginevrino o nella ricezione di questi, per giungere così a ciò che vi è di permanente nel suo pensiero. In tal senso Kant rileva aspetti del pensiero di Rousseau distanti all’immagine che il Romanticismo dello Sturm und Drang ne farà (cfr. pp. 23 sg.) giungendo – in accordo alla sua impostazione analitica – a liberare la nozione di “stato di natura” da un’ambiguità ricorrente, ossia dall’oscillazione tra una sua accezione “fattuale e un puramente ideale” (p. 37). Mentre, riprende Raio, in Rousseau il “concetto di natura è al tempo stesso un concetto ontologico e un concetto assiologico”, in Kant questa “duplicità semantica” viene superata attribuendo un senso puramente “normativo, regolativo” alle nozioni gravitanti attorno al concetto di “natura”. Il passaggio dalla dimensione descrittiva a quella regolativa e prescrittiva getta così luce sulle nozioni richiamate di “soggetto” e di “umanità”: “l’essenza della natura umana non è uno stato perduto, ma il fine, il senso dell’uomo”, chiosa Raio.
Questo è l’avvenire (nell’accezione vista di Wirkung) della ricezione del pensiero di Rousseau, ciò che agli occhi di Kant e Cassirer ne costituisce il fondamento teoretico imperituro. Avvenire che si realizza non “nonostante” Rousseau ma attraverso Rousseau stesso il quale tracciò “in modo molto preciso il confine tra il suo proprio compito e il compito dei sociologi empiristi” rimproverando a Montesquieu “di essersi accontentato di una comparazione descrittiva delle forme esistenti di diritto” laddove egli ne ricerca i principi (p. 49). Ed è sempre in tale prospettiva che Kant mette in evidenza in quale misura la scelta di Rousseau di ritirarsi dai salotti intellettuali parigini, lungi dal segnalare una forma di misantropia, rappresenti il gesto filosofico per antonomasia: soltanto una certa distanza materiale dalla mera contingenza permette al filosofo – a Rousseau, come a chiunque altro – di cogliere non già l’umanità per quella che si delinea in un dato frangente bensì per quello che è nella sua essenza. Con le parole di Kant, osserveremo come la distanza dalla vita urbana abbia permesso a Rousseau di analizzare non già “i costumi in uso” – “le maschere” – imposti dall’esterno e cangianti di luogo in luogo, bensì “la morale”, vera natura dell’uomo. Natura, come detto, non empirica bensì da intendersi quale “autentica e originaria destinazione” dell’uomo, “costante non dell’essere ma del dovere” (pp. 19, 32-33). Tali passaggi segnalano la posta filosofica in gioco con Rousseau: l’individuazione nel soggetto umano delle condizioni di possibilità per un giudizio morale, foriero di conseguenti azioni, che prescinda dagli accidenti socio-culturali in cui ci troviamo via via a vivere. Che questa sia l’esigenza sentita da Cassirer è segnalato dalla pubblicazione, nel 1932, de In difesa del diritto naturale, dove viene messo in risalto come la tradizione giusnaturalistica ponga la “spontaneità dello spirito” del singolo soggetto, ossia “l’attività della ragione”, al centro dell’universo normativo (In difesa del diritto naturale, a cura di A. Bolaffi, in “Micromega”, 2, 2001, pp. 91-115, qui p. 97). Centralità della ragione che non impedisce alcuna degenerazione de facto di un dato sistema normativo e che, tuttavia, impedisce a tale degenerazione di compiersi impunemente sotto il nome di “diritto” (come a giudizio di Cassirer l’impostazione di Hans Kelsen, viceversa, finiva per consentire). Così si comprende il rilievo che riveste per Cassier la posizione di Kant secondo cui il “contratto originario” in questione con Rousseau rappresenti “una semplice idea della ragione” atto a divenire “pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubblica” (p. 50). Il “vero volto” dell’uomo, ricercato da Rousseau attraverso la distanza fisica dalle “maschere” dei salotti parigini, e compiutamente guadagnato da Kant come idea attinente la sfera del dover essere, sembra dunque rappresentare, per Cassirer in fuga dalla Germania nazionalsocialista (approderà in Svezia, dove il saggio Kant e Rousseau è redatto, e infine negli Stati Uniti), quell’ideale punto di riferimento che nessun accidente della storia potrà erodere, così permettendo tanto al singolo quanto all’umanità di ritrovarsi. Tuttavia proprio nel testo sul giusnaturalismo dei primi anni ’30 Cassirer precisava come la posizione di Rousseau sui diritti del singolo individuo – destinati a essere “trasferiti alla collettività” (In difesa del diritto naturale, p. 107) – impedisse di iscrivere il filosofo ginevrino nel novero dei pensatori giusnaturalisti. Il singolo individuo sembrerebbe così scemare nella volonté générale. In che misura l’eco di questa annotazione permane nel testo di Cassirer qui in analisi?
Nel paragrafo dedicato alla filosofia del diritto e dello stato (§ 3. Diritto e stato) Cassirer sottolinea come Rousseau prenda le distanze dalla nozione di pactum subjectionis, nella misura in cui la “comune sottomissione alla legge” non è concepita come imposta “dall’esterno alla volontà” di “liberi soggetti agenti” (p. 46). Qui è dunque l’autonomia del soggetto ad essere messa in rilievo. D’altro canto nello stesso paragrafo viene ricordato come Rousseau prenda le distanze da un presupposto fondamentale del giusnaturalismo, ereditato da Aristotele ed enunciato in Grozio, secondo cui l’uomo sarebbe socievole per natura, ossia – per quel che qui interessa – portato per istinto a costituirsi in collettività (p. 42). Il giudizio di estraneità di Rousseau all’impostazione giusnaturalista sembrerebbe confermato. Tuttavia non sembra scorretto sottolineare come in tali passaggi la distinzione tra Grozio e Rousseau è enunciata non tanto per attribuire a Rousseau una scarsa considerazione del singolo soggetto individuale, quanto per sottolineare come la sua concezione di questi, lungi dall’affidarsi a un presupposto sulla natura fattuale dell’uomo, si approssimi a quella concezione prescrittivo-regolativa di cui si è detto. È infatti proprio a seguito di questi passaggi che viene enunciata una delle analogie più esplicite tra Rousseau e Kant: nella Legge fondamentale della ragione pura pratica (“opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”), scrive Cassirer, “riconosciamo il filosofo dello Stato Rousseau, il filosofo della volonté générale” (pp. 47-48). La centralità dell’individuo si rivela ancor più marcata nelle considerazioni spese da Cassirer circa la filosofia della religione di Rousseau (§ 5). Questi pensa ad una “religione della libertà” che rifiuti “ogni dipendenza da un’autorità esterna”, ogni mediazione tra il singolo uomo e Dio. Un rifiuto della tradizione, certo. Più strutturalmente un rifiuto di ogni forma di eteronomia. Non già una religione della “sentimentalità”, dove l’io si riduce a ricettacolo passivo di sensazioni, bensì una religione “del sentiment”, dove l’io è “attività originaria”, pura “spontaneità” (p. 64). In questo elogio dell’autonomia del singolo soggetto non si può non cogliere, insieme a Cassirer, il filo conduttore che lega Rousseau al filosofo di Königsberg. Tuttavia, si potrebbe osservare, l’esperienza religiosa non è analoga a quella normativa nella misura in cui la prima può attenere al singolo individuo mentre la seconda alla collettività e implica, con Rousseau, il passaggio dal singolo alla volonté générale. Pure, ribadisce Cassirer, “la filosofia della religione di Rousseau è intrinsecamente legata alla sua filosofia del diritto” poiché “la religione è scritta nei cuori degli uomini dall’idea della giustizia, che egli considera una cosa eterna […], che non può essere toccata dalla varietà e dall’arbitrarietà degli ordinamenti positivi” (p. 74).
Nell’analisi della filosofia del diritto e della religione di Rousseau, dunque, si chiarificano gli elementi di continuità tra il filosofo ginevrino e la nozione di soggetto legislatore operante in Kant. L’opera di “autoimposizione di leggi” da parte del soggetto illumina l’analogia, di ordine formale, tra l’analisi kantiana in ambito morale e quella in ambito teoretico. Come noto, infatti, è sempre poggiandosi sul soggetto – inteso ora quale “intelletto”, “facoltà delle regole” (p. 119) – che Kant è in grado di superare la critica al principio di causalità enunciata da Hume. Ed è a partire dall’autonomia dell’intelletto che il lettore potrà cogliere il passaggio all’altro saggio contenuto nel volume – Goethe e la filosofia kantiana –, dove, in una domanda speculare a quella posta circa la ricezione di Rousseau in Kant, Cassirer si interroga sulla ricezione di Kant in Goethe. Se l’autonomia del soggetto sembrava unire, pur nelle differenze del metodo di analisi, Rousseau e Kant, qui lo stesso tema (l’intelletto che si pone regole) sembrerebbe di primo acchito dividere Kant da Goethe. Quest’ultimo “non conosce un intelletto siffatto, che domina in modo assoluto e legifera” (p. 120). E tuttavia, se Goethe è “sospinto al vedere”, immerso “nell’abbondanza e nella molteplicità” dell’empiria, è anche vero che si farà via via sempre più marcata in lui l’esigenza di superare l’empirismo – la classificazione dell’esistente per quello che è nei suoi prodotti come si esprime in Linneo (p. 93) – per guadagnare la comprensione del “principio di formazione della natura creativa”. Principio che, nelle parole del poeta “è l’eterno Uno / che in forme molteplici si manifesta”. È qui che Goethe ritrova la vicinanza all’impostazione kantiana, ove “l’idea non è, come in Platone, qualcosa che è contrapposto all’esperienza”, avente “esistenza in sé”, bensì si presenta quale “principio regolativo”, necessario “all’uso stesso dell’esperienza” (p. 99). Principio che porta la realtà verso l’unità, ma senza operarne – tradendola – una proiezione su un piano ontologico distinto da quello della realtà stessa (p. 122). L’idea come principio regolativo è dunque la cifra teoretica di fondo su cui Cassirer invita a riflettere, consapevole che si tratta non già della cifra di un tempo e di un autore, bensì di un problema di fondo destinato ad accompagnare l’uomo. È tale idea a permettere di porre in prospettiva, in unità, la pluralità dei dati empirici e dei “costumi” che abitano il mondo culturale e sociale. Unità (l’eterno Uno di Goethe) priva di esistenza in sé e che tuttavia, nel suo porsi quale ideale regolativo, ci consente di orientarci, di avanzare tanto nella conoscenza quanto nelle opzioni valoriali, nelle scelte – individuali e collettive – attinenti i nostri modi di condotta.

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