Nell’Inferno sartriano, all’interno del dramma Porta chiusa, Ines chiede a Estella: «guardami negli occhi, non ti ci vedi?», come se, in un momento, l’identità potesse essere colta nello sguardo altrui. Eppure, siamo spinti a ritenere più corretto assimilarla a una costruzione che necessita di un fondamento molto più solido dello sguardo dell’altro. A tal proposito, occorre amalgamare armoniosamente diverse modalità di fare esperienza del proprio corpo – quella cenestesica e quella ottica – che ci consentono, rispettivamente, di sentirci carne e di essere un corpo visibile. Di solito, queste due esperienze si combinano, senza fondersi, producendo una base dura e resistente per il processo di formazione del proprio sé. Ma come spiegare allora la domanda di Ines? Cosa significa e cosa succede quando si riesce ad avere conferma della propria identità solo attraverso lo sguardo altrui? Giovanni Stanghellini, nel suo ultimo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro (2020), valuta tale questione come una conseguenza della rottura della proporzione ottico-cenestesica, la quale, attraverso l’equilibrio dialettico tra l’esperienza immediata e diretta del proprio corpo e l’esperienza del proprio corpo visto dall’esterno, sarebbe «garanzia di una buona base per la costruzione della nostra identità» (p. 11). Pertanto, fenomeni – apparentemente distanti tra loro – come il selfie e l’anoressia, caratterizzati dal fatto che «lo sguardo dell’altro diviene la protesi necessaria per potersi sentire: una protesi ottica del Sé» (p. 2), sono intesi da Stanghellini come dei sintomi di tale sproporzione. Egli ripercorre e analizza le tappe della rivoluzione sociale che ha cambiato e continua a cambiare, frantumandolo, il nostro rapporto con il corpo. In questa prospettiva, «il volto autorevole e rassicurante della Scienza» (p. 22), imponendo la mediazione della vista nel rapporto tra sé e corpo a discapito del sentire, diviene il potenziale colpevole della dissolvenza del corpo. Oggi, sembra di attraversare gli scampoli dell’esperienza che si fa mero zapping e dell’azione che si frammenta nello spazio e nel tempo, «come in una pellicola porno» (p. 35), in cui il sé, il corpo e il mondo perdono la loro inclinazione ad armonizzarsi. A ben vedere, allora, la linea tra normale e patologico sembra essere diventata estremamente più sottile e labile: attualmente, secondo Stanghellini, essere-situati nel corpo e nel mondo non è più garanzia – a patto che una simile garanzia ci sia mai stata – d’identità e stabilità. Il selfie e l’anoressia sono gli emblemi della sproporzione tra “la macchina cenestesica del Sé” e la “macchina ottica del Sé”; entrambi rispondono alla massima “sono visto, dunque sono”.
È necessario distinguere il corpo dalla carne. Inserendosi su una strada ampiamente battuta in fenomenologia, Stanghellini descrive la carne come la sede invisibile, il ricettacolo silenzioso di abitudini, il nido di pratiche e di schemi, in cui si intrecciano percezione e azione, mentre il corpo ne è la manifestazione visibile e quindi soggetta allo sguardo e al giudizio altrui. La carne, abitata dall’habitus, rende possibile il sentirsi radicati nel mondo e nel proprio sé. Essa protegge dallo sradicamento, «è l’invisibile bretella elastica che mi riporta nel mio mondo quando me ne allontano» (p. 44); inoltre, «essere carne che sente se stessa ed essere corpo visto dall’altro stanno in rapporto dialettico» (p. 44). Stanghellini, sulla scia di Deleuze, parte dal presupposto che le macchine esistono da molto prima che entrassimo nella cosiddetta modernità: esse sono sempre state «dentro di noi» (p. 35). In linea con ciò, sostiene l’utilità di guardare alle macchine-là-fuori come un sintomo delle macchine-qua-dentro: «la carne delle cose là fuori mi parla della mia carne» (p. 48). Secondo Stanghellini, il selfie è una macchina-là-fuori, ma «non è affatto una macchina che ha effetti spersonalizzanti» (p. 49). Infatti, la fotocamera è uno strumento che rivolge dall’esterno uno sguardo sul soggetto per ovviare a una mancanza di sguardo dall’interno.
“Dimmi tu cosa mi sta accadendo” – sembra comunicare chi ha perso il rapporto cinestesico con la propria carne, – come Estella nel dramma sartriano – nel tentativo di riuscire a definire il proprio Sé-corpo. Come Estella, anche la giovane donna di nome Ana, presentata da Stanghellini, ha smarrito la possibilità di fondare il proprio sé sul sentirsi; pertanto, l’unica possibilità che vive è sentirsi quando è guardata. Lo sguardo dell’altro, senza volto, prende potere sul suo corpo: può distorcerlo e tenerlo a distanza. Estella sembra intuire questo potere consegnato allo sguardo dell’altro, nel momento in cui – sgomenta – si chiede cosa diventerà il suo sorriso quando, sfuggendole una volta per tutte, arriverà in fondo alle pupille di Ines. Ana è totalmente impigliata in un corpo che avverte come un materiale informe, e non può fare a meno di esporsi davanti all’altro, perché è solo quando qualcuno la guarda che si sente viva, che le sembra finalmente di «mettersi a fuoco attraverso lo sguardo degli altri» (p. 75). Ella scruta senza sosta lo sguardo altrui per trovare indizi utili alla definizione della propria identità; tuttavia, lo sguardo degli altri coglie solo l’apparenza, ciò che è visibile nel momento presente, precludendo la possibilità di instaurare un dialogo. Ana, infatti, non entra mai in relazione con l’altro, perché quest’ultimo è colui che dà conferma alla sua esistenza, è colui che le dona l’illusione estemporanea di una forma che non sente. Ana non vede l’altro, ma lo usa per ottenere una prospettiva su di sé; ella è ossessionata dall’imperativo categorico di “tenere d’occhio”, nel corso del tempo, il proprio corpo, divenuto un oggetto incostante e inaffidabile. Vive nell’urgenza, e quindi è preda di una costante agitazione: teme di perdere il controllo e di smarrire la propria identità; è completamente assorbita dal compito di definire se stessa in quanto corpo visibile e dalla volontà di avere il controllo sulla propria carne informe ed evanescente. Infatti, i rituali, caratterizzati dall’ossessione per i numeri, hanno proprio lo scopo di affermare un controllo sulla carne, di imporre un ritmo a ciò che è caotico: mangiare diventa «un gioco di numeri, un gioco di input e output» (p. 82). Per Stanghellini, l’Olympia dipinta da Manet, che riposa davanti a noi, indifferente al nostro sguardo, ai nostri discorsi carichi di parole e di sapere, è l’antitesi di Ana. Olympia è carne, è «l’umanità “non addolcita da nulla”» (p. 86), priva di retorica, liberata dai legami, dalle convenzioni e dai sermoni. Olympia è l’immediatezza dell’assenza di senso, «la sconfitta del fallocentrismo della rappresentazione» (p. 87), è la carne denudata dello stereotipo della forma femminile. Femminista inconsapevole, impedisce, con attiva indifferenza, che gli astanti facciano di lei e della sua carne un corpo ridotto a una forma, a un discorso. Ana, invece, ci guarda dipendendo dal nostro sguardo. Ana è l’antitesi di Olympia, non è l’eroina dell’autonomia e dell’autarchia, il suo corpo non rappresenta l’indifferenza allo sguardo altrui. Questa giovane donna ha paura della sua carne, ha paura dell’informe, teme di non riuscire a controllarlo, perciò sente che l’unica possibilità che ha per condurre la propria esistenza sta nel diventare un corpo visibile; è incapace di dare una configurazione all’imprevedibilità e all’incontrollabilità delle proprie esperienze. Non desidera, perché desiderare è un turbamento che fugge il controllo e la chiarezza. Per Ana, «è più importante essere magra che essere viva» (p. 95), per cui sogna di allontanare definitivamente ogni possibilità di incertezza e vulnerabilità; sogna di non esistere.
Stanghellini manifesta, a più riprese all’interno del suo libro, l’intenzione di comprendere il selfie piegandolo sull’anoressia. Eppure, ormai usare le categorie della clinica (come in questo caso l’anoressia) per spiegare fenomeni sociali costituisce un cliché, che spesso trova il suo fortunato prolungamento in profezie escatologiche e apocalittiche intrise di moralismo. Pertanto, nonostante cavalchi l’onda di un cliché, si può dire comunque che, nel piegare il selfie sull’anoressia, Stanghellini sia riuscito nell’intento di originare, senza cadere in moralismi ottusi, un «cortocircuito semantico, il cui fine non è eliminare le differenze, bensì mantenerle vive per liberare in ciascun fenomeno ciò che resterebbe in altro modo celato», (p. 101).
Viviamo nella società dell’istantaneità, in cui non c’è tempo per territorializzarsi e dove il selfie è il sintomo dell’evanescenza della carne, della sua dissolvenza, a cui si tenta di supplire tramite la visibilità del corpo. Infatti, vediamo sfilare davanti a noi, in qualsiasi museo del mondo, i cosiddetti pastori del visibile, che, con lo smartphone ben stretto nella mano, sorridono davanti alla fotocamera e nello scattare sacrificano «all’oracolo di Selfie» (p. 116) l’ennesima immagine-preda, imbalsamata all’istante. La loro identità, data in pasto a un altro assente, diviene «l’esito di un sondaggio di opinioni, e non di una scelta autonoma e personale» (p. 123). “Io sono qui” – urla il viso imbalsamato nel selfie che il selfista si è appena scattato; “io sono qui, ma non sento dove sono”: il selfie è il sintomo della deterritorializzazione, di una carenza di Befindlichkeit.
In quest’epoca adolescente, che cresce dei pastori del visibile (p. 127), la sfida è riuscire a fare il grandissimo sforzo di mettersi in ascolto del tempo, del suo ritmo e della carne, per andare incontro all’evento, ovvero al sentirsi nell’atto di sentire. Gli altri non sono l’inferno, come si dice nel dramma sartriano, ma lo diventano, quando si ha paura di esistere.