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88. Recensione a: Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 160. (Federico Maria Angeloro)

Probabilmente, il tentativo di immaginare degli “altrove” in cui sia possibile non solo un altro modo di vivere, ma addirittura una vita migliore dominata dalla felicità e dalla giustizia ha coinvolto un po’ tutti. Libri, film e serie televisive sono solamente il prodotto finito e tangibile di questa forma di pensiero che si riconduce al cosiddetto genere utopico. Tuttavia, in maniera differente, il testo di Roberto Mordacci, dal titolo Ritorno a Utopia, non si pone l’obbiettivo di immaginare una nuova utopia, un nuovo “altrove”, ma, come scrive lo stesso autore nell’introduzione, esso si prefigge il compito di riabilitare il concetto di utopia cercando di recuperarne, definendola, l’essenza reale, così da rivelarne la portata politica e non soltanto letteraria.
Nel fare ciò, anzitutto, l’autore del testo non esita ad affrontare le difficoltà che, dettate dal senso comune, ci si trova dinanzi affrontando un concetto come quello di utopia. Essa, infatti, sostiene Mordacci, è andata incontro a tre serie di modificazioni, che oggi permettono di associarla a significati molti lontani da quello originario che gli diede Sir Thomas More nel 1516. Utopico, infatti, è, in un primo caso, sinonimo di qualcosa di assolutamente impossibile, cioè di non pertinente al mondo reale. In un secondo caso, invece, l’utopia designa qualcosa di possibile, ma irrealizzabile. Terzo caso, l’utopia individua un inganno, ovvero un progetto di sovversione dell’ordine sociale finalizzato all’instaurazione di un nuovo regime totalitario e liberticida.
Invitando i lettori a sgombrare il campo da questa triplice aberrazione del concetto originario, il capitolo I del testo si occupa di definire i caratteri salienti dell’utopia a partire dal testo di More, il quale, sfruttando una particolarità della lingua greca, coniò per primo il termine “utopia” che può, nello stesso momento, designare sia un non-luogo, quanto un buon-luogo. Ovvero uno spazio, nella narrazione moriana un’isola, presso il quale si realizzano gli ideali sempiterni della giustizia e della felicità. In questo senso, insiste Mordacci, l’utopia è una forma dell’immaginazione politica che, partendo dalla critica dello status quo, che evidentemente non soddisfa e viene vissuto come profondamente ingiusto, tende a definire, quasi per opposizione, una forma di organizzazione sociale e politica migliore attraverso una narrazione odeporica che in realtà descrive, non solo in maniera sistematica e documentaristica, ma rendendo anche conto attraverso ragionamenti e confutazioni, la vita di una comunità di uomini comuni, non quindi di individui dotati di qualità non pertinenti all’umano (si può dunque parlare di realismo umanistico), che vive nello stesso tempo della società criticata. Per quest’ultima, quindi, l’utopia, seppur individua un luogo, rappresenta un possibile futuro rispetto all’ora nel quale si svolge la narrazione. In questo senso, dunque, l’utopia è «critica, documentale, razionale, realistica e orientata al futuro» (p. 19).
Tuttavia, in questo modo, il concetto di utopia rimane ancora troppo nebuloso e costringe l’autore a confrontarsi con una serie di concetti e posizioni che, per contrasto, consentono di chiarificarlo ulteriormente. Anzitutto, l’utopia si distingue nettamente dall’ideologia. Esse addirittura si contrapporrebbero in quanto forme caratterizzanti mentalità di classi opposte, cioè la mentalità utopica come mentalità delle classi emergenti e quella ideologica come mentalità delle classi dominanti. Queste considerazioni si legano, evidentemente, al tipo di pensiero politico e sociale che tali mentalità costituiscono. L’ideologia, infatti, rappresenterebbe sempre un’analisi critica e demistificatoria del presente che, tuttavia, non produce mai nulla di altro da sé, nulla di nuovo. L’utopia, invece, pur non fornendo alcuna analisi puntuale del presente, si pone come immagine alternativa e critica della realtà sociale vigente verso la quale muovere.
Dopodiché, le analisi del capitolo I si concentrano sul rapporto tra l’utopia, che come si è notato intreccia un concetto spaziale ad uno temporale in maniera originale, l’escatologia e l’idea che vi sia una qualche età dell’oro al quale tornare. L’utopia, infatti, è sempre un futuro possibile, non quindi un passato rispetto al quale si nutre una certa dose di nostalgia, che può essere realizzato dagli uomini e non da un intervento trascendente come accade, invece, nelle narrazioni escatologiche.
Il capitolo II di Ritorno a Utopia, invece, si addentra in un’indagine relativa alle origini storiche e contingenti del genere e del concetto. Infatti, quello che comunemente viene visto come archetipo dell’Utopia di More, vale a dire la Repubblica di Platone, è presente, nel testo dell’umanista inglese, in maniera semplicemente evocativa. Utopia, questa la tesi sostenuta da Mordacci, non è la città ideale, espediente per illustrare la nota teoria dell’anima, della quale ci parla il filosofo greco. Anzi, le due costruzioni mentali corrispondono addirittura a logiche che si potrebbero dire opposte. Se nella Repubblica, infatti, è l’ordinamento dell’anima a garantire il miglior ordine politico e sociale possibile, in Utopia, invece, è il buon ordine politico a garantire la possibilità di sviluppo delle virtù civiche e personali. Insomma, due movimenti opposti del pensiero.
Tuttavia, privata di un archetipo, cosa farebbe dell’utopia un prodotto genuinamente moderno? Secondo Mordacci, la centralità dell’uomo e della sua riconosciuta libertà nella realizzazione dell’ordine politico e sociale, ma anche, e questa cosa è assai interessante, la sua contingenzialità. L’immagine utopica costruita da More, infatti, è sì una forma dell’immaginazione politica, ma lo è solo in quanto specchio di un presente criticato, ovvero la prima modernità, del quale viene posto in essere lo scandalo. Non a caso, cosa che nota bene l’autore del testo, la costruzione dell’isola di Utopia è un calco al contrario della condizione inglese del secolo XVI. Per esempio, se nel Regno Unito dell’epoca si iniziavano a vedere con le enclosures i prodromi del capitalismo e alcuni dei suoi peggiori effetti, ad Utopia, invece, la terra è comune.
Proprio la contingenzialità delle utopie rispetto alla propria contemporaneità e, quindi, l’incarnazione della giustizia, ideale che muove l’utopia in quanto sua immagine, secondo canoni sempre differenti, è dunque centrale, come rileva Mordacci, in tutta la storia di tale idea, che, nei capitoli III e IV, l’autore cerca di tracciare. Partendo da More, passando da Campanella e Bacone, dall’Illuminismo e dagli utopisti dell’Ottocento (Saint-Simon, Fourier e Owen), in un’agile rassegna che per bocca dello stesso autore non ambisce ad essere esaustiva, si giunge dunque alla linea critica, sostenuta da Marx ed Engels, che avrebbe dovuto segnare la fine del pensiero utopico. Quest’ultimo, infatti, sarebbe soltanto una forma di immaginazione priva della scientificità che, invece, si riconosce al marxismo. La fantasia, in poche parole, deve lasciare spazio alla scienza. Eppure, proprio all’interno della tradizione marxista, prima Kautsky e poi Bloch attenueranno tali posizioni, tanto che, nel caso del secondo, si arriverà a parlare dello spirito utopico come di un’espressione della tradizione socialista. Di opinione assolutamente differente, invece, sarà Marcuse che, nella seconda metà del Novecento, tenterà, riattivando di fatto la linea critica emersa con gli autori del Manifesto del Partito Comunista, di seppellire l’utopia. Insomma, «coltivare speranze utopiche è considerato troppo ingenuo rispetto alla precisione della scienza sociale e alla rudezza del programma rivoluzionario» (p. 93). Allo stesso modo, sempre nel secolo XX, il pensiero utopico sarebbe stato attaccato da una sua perversione, vale a dire la distopia. La quale, tuttavia, è, appunto, solamente una perversione del nucleo originario e reale dell’utopia.
Tuttavia, cosa resta al termine di questa rassegna? È, infatti, indubbio che, pur rimanendo piena di spunti, questa storia del pensiero utopico corre il rischio di lasciare lungo la strada alcune delle caratteristiche individuate nel capitolo I. Così facendo, il pericolo, evidentemente, è quello di rendere i confini del concetto analizzato o troppo permeabili oppure di rendere l’esperienza di More un unicum nella storia del pensiero. Forse, e l’autore ne sembra ben conscio, è proprio questa la verità, ovvero che lo spirito utopico è sempre frutto del proprio tempo, pur rimanendo fisso il desiderio di libertà e giustizia, di volta in volta declinato secondo quello che potrebbe essere definito il requisito della contingenzialità, che lo anima. Infatti «l’utopia aspira ad essere un modello ideale, ma sa, e l’ironia – altra caratteristica saliente dello spirito utopico – ne è il segnale, che può dire solo di quanto appare tale attraverso un’immaginazione situata, collocata in un luogo e in un tempo precisi» (p. 122). D’altro canto, non sono sufficienti, da soli, i desideri di giustizia e la libertà a definire lo spirito utopico. È necessario, infatti, che questo si proietti in un altrove che sia anche un futuro possibile, altrimenti il rischio è quello di sfociare nella retrotopia, un neologismo coniato da Zygmunt Bauman, che, pur ricordando il titolo dell’opera di More, ha quale proprio sentimento di fondo la nostalgia. Quest’ultima, tuttavia, non può che guardare all’indietro (da qui il neologismo di Bauman), guardare ad un passato non soltanto mistificato e, dunque, assolutamente non reale, ma anche, in quanto passato, fuori dalla portata degli uomini che sono nel presente, spossessati della spinta verso la realizzazione di un futuro che possa essere migliore. È in questo modo che, nel V capitolo del libro, Mordacci cerca, a partire da una diagnosi dell’attualità, pervasa dal sentimento nostalgico, di riabilitare il senso dello spirito utopico. Questo, mai completamente scomparso nella storia del pensiero, perfino presente in una certa tradizione liberale (Nozick e Rawls), è giunto sino a noi, divenendo, in alcuni casi, si pensi all’assistenza sanitaria pubblica, «la normalità del presente» (p. 131). Presente dal quale diviene necessario immaginare un nuovo futuro possibile, se non addirittura necessario, che realizzi quella che Mordacci definisce, ribaltando il gioco linguistico di Bauman e recuperando il senso vero dell’utopia, una anterotopia, ovvero «un luogo situato davanti a noi, che raccolga in una visione complessiva l’immagine di un futuro attraente e desiderato per gli esseri umani quali sono» (p. 139). Tuttavia, è evidente che, seguendo la già citata contingenzialità dell’utopia, le sfide della contemporaneità, in particolare della contemporaneità globalizzata, sono assai differenti, se non anche più complesse, di quelle che si trovò dinanzi More. Si pensi, per esempio alla problematica ecologica, che ci pone davanti a scenari apocalittici, e alla necessità di sviluppare, nel mondo sempre più interconnesso, una riflessione cosmopolitica. Tematiche soltanto toccate dall’autore che, senza quindi esplorare oltre la questione, ne percepisce la difficoltà e l’urgenza.
Ora, qualche breve considerazione finale prima di concludere. Il testo, non lungo, è sicuramente strutturato in maniera chiara, così come chiara e pulita è la scrittura dell’autore che, così facendo, garantisce un’agile lettura. Questa, tuttavia, è resa possibile solo da una conoscenza pregressa, quantomeno, dell’opera capostipite del genere utopico, ovvero l’Utopia di More, senza la quale, evidentemente, non si potrebbe neppure parlare di un Ritorno a Utopia, contrassegnato dalla costante volontà di proporre l’essenza del concetto intorno al quale è costruito il libro come assolutamente necessario al pensiero politico contemporaneo. Uno spunto, sicuramente, da cogliere e sul quale riflettere.

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