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97. Recensione a: Claudine Tiercelin, Pragmatism and Vagueness. The Venetian Lectures, Mimesis International, s.l. 2019, pp. 86. (Rocco Monti)

Pragmatism and Vagueness non nasce come un testo scritto e pensato in autonomia dall’autrice ma è piuttosto il frutto delle lezioni, raccolte ed edite da Giovanni Tuzet, che Claudine Tiercelin ha tenuto tra il 7 e il 9 marzo del 2018 all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Queste lezioni non sono certo le prime riflessioni dell’autrice sulla vaghezza: già dal 1992 con Le Pensée-signe: études sur C.S. Peirce e con Peirce et le pragmatisme del ’93, Tiercelin ha avviato, prima con Peirce e poi anche con Wittgenstein, un confronto con la nozione di vaghezza, all’infuori della prospettiva esclusivamente logica in cui questo concetto viene solitamente collocato e discusso. Si potrebbe sostenere che queste lezioni siano il punto d’arrivo di un percorso di ricerca diretto a chiarire l’importanza concettuale della nozione di vaghezza. Che il tardo Wittgenstein sia da anni al centro del dibattito pragmatista è cosa ormai scontata: Rorty, Bernstein, Brandom, Putnam – soltanto per fare alcuni nomi – hanno posto al centro delle loro riflessioni nozioni del Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen e ne hanno fatto un luogo imprescindibile della filosofia pragmatista: basti pensare al ruolo che hanno avuto i concetti di forma di vita e di gioco linguistico.
Il fil rouge che attraversa questo testo si potrebbe riassumere in una domanda: è possibile guardare alla nozione di vaghezza senza intenderla come un difetto conoscitivo ma come una virtù etico-metodica? Il tracciato filosofico in cui Tiercelin si inserisce è dunque quello segnato da Peirce nei cosiddetti scritti anti-cartesiani, in cui, oltre alle nozioni di introspezione e intuizione, veniva contestata anche l’eccessiva importanza che Cartesio ha dedicato alle idee chiare e distinte. “Vago” non va dunque inteso come il contrario di “certo”, ma piuttosto come un principio in linea con il fallibilismo, il continuismo e il sinechismo peirceano.
Il testo si divide in tre parti: nella prima, intitolata Why is Vagueness such an Issue for most Pragmatists, l’autrice distingue tre modalità di intendere il concetto di vaghezza: ontica, epistemica e semantica. Tiercelin porta alcuni esempi che mostrano come la percezione abbia dei bordi confusi e non del tutto determinati, come certi oggetti, ad esempio montagne e colori, abbiano proprietà vaghe e come nel definire le condizioni di identità di un oggetto si vada incontro a svariate complicazioni logiche. Nel trattare questi aspetti Tiercelin si confronta con i main themes della tradizione analitica – la teoria del riferimento di Evans, la teoria dei nomi come designatori rigidi di Saul Kripke e la teoria epistemica della vaghezza di Williamson – sostenendo che ciò che hanno in comune queste teorie è una visione sostanzialistica degli oggetti.
Tiercelin oppone a queste analisi una prospettiva continuista in cui la conoscenza è piuttosto da intendersi come un flow, un continuum in cui ogni parte contiene a sua volta delle parti e non ci sono termini ben divisi, separati e isolabili. Riportando un noto esempio di Peirce che Tiercelin non cita, se tracciamo una linea in mezzo a due quadrati, uno rosso e uno blu, la linea che li divide non è né rossa né blu (e anche rossa e blu insieme), poiché il passaggio infinitesimale che divide le due figure colorate non ha spessore, non ha larghezza e non ha durata; tale linea indica piuttosto il continuo scambio dei due colori, del rosso che diventa blu e del blu che diventa rosso. La prospettiva sinechista peirceana non tollera alcun dualismo poiché non vi sono propriamente res, cose, sostanze separate ma gradualità infinitesimali. Lo stesso va detto in merito alla relazione tra i fenomeni mentali e quelli fisici: “matter as effete mind” avrebbe detto Peirce. Il sinechismo peirceano vede la materia come mente esausta poiché gli eventi fisici non sono che forme degradate di eventi psichici.
Nel secondo capitolo, C.S. Peirce’s Insights on Vagueness: Logic, Espistemology and Ontology, Tiercelin si sposta invece ad analizzare il ruolo della vaghezza nella teoria dell’asserzione e degli atti linguistici, sostenendo che molto spesso gli scambi linguistici tra parlanti abbiano contorni indeterminati e fuzzy. Si prendano come esempio queste due frasi: “posso avere un bicchiere d’acqua?” e “posso avere 321 millilitri d’acqua?”. Risulta chiaro come nelle pratiche linguistiche l’indeterminatezza semantica giochi un ruolo fondamentale e inevitabile.
Nella lezione The Relevance of Pragmatism for the current Debate on Vagueness Tiercelin collega la vaghezza ontica all’istanza realista presente nel pensiero di Peirce (che si definiva un realista scotista) e alla massima pragmatica. La massima pragmatica è una regola che indica la più astratta delle idee: per comprendere il significato di un concetto non si deve prestare attenzione alla sua verifica empirica ma alle possibilità condizionali concepibili legate al suo impiego. Il rinvio infinito a cui conduce la definizione di un oggetto indica la totalità della possibilità concepibili e non fa dunque riferimento all’effettualità attuale dei fatti empirici.
Oltre a rispolverare il dibattito sul mito del dato, questo testo apre la strada ad una critica al mito della precisione poiché l’intero discorso condotto da Tiercelin sostiene l’impossibilità, per qualsiasi discorso conoscitivo, di fare a meno delle nozioni di indeterminazione e vaghezza; tali concetti non possono essere lasciati da parte e non possono essere intesi come un difetto conoscitivo poiché fanno corpo con le credenze e con le pratiche che riteniamo certe e che, proprio per questo, non mettiamo mai in discussione.
Per spiegare meglio questo aspetto è necessario introdurre due aspetti del pensiero di Peirce e Wittgenstein che fanno riferimento alla nozione di dubbio e a quella di immediatezza.
Secondo Peirce non è possibile iniziare un qualsiasi tipo di ricerca mettendo in dubbio ogni cosa: il cosiddetto dubbio cartesiano volto a scardinare e a mettere da parte tutte le conoscenze pregresse risulta una menzogna, poiché è proprio dai pregiudizi, dai saperi e dalle pratiche da cui siamo continuamente attraversati che occorre partire. Vi è un livello immediato da cui occorre prendere avvio che potremmo chiamare, seguendo Wittgenstein, la forma di vita, il fatto che agiamo in un determinato modo; mettere in dubbio la totalità di ciò che, più o meno volontariamente, ci costituisce in quanto individui, significa non dar conto di quel sistema di credenze, di saperi, di pratiche divenute naturali che non mettiamo mai in dubbio proprio perché sono la condizione di possibilità del dubbio stesso. Occorre riconoscere che la certezza non è una questione di opinioni e non dipende dal nostro vissuto soggettivo – qui emerge fortemente l’istanza realista di Peirce –, ma è sancita dalla forma dell’accordo su cui poggiano i nostri giochi linguistici, i nostri habits. Se non posso dubitare di tutto è perché qualcosa va inteso come fondamento, senza assumere però un’istanza fondazionalista. Non si tratta tanto di estirpare le erbacce dell’indeterminatezza dal terreno dell’evidenza, quanto piuttosto di intendere il processo conoscitivo come un cavo intessuto di svariati fili che si irrobustiscono tra di loro.
Il dubbio cartesiano, quello che Peirce chiama paper doubt, è da concepire come il metodo sistematico del mettere in discussione ciò che non è intuitivamente evidente e fondato; il living doubt peirceano si configura invece come quello stato di insoddisfazione e di frustrazione che l’uomo tende a trasformare in uno stato d’animo calmo e certo attraverso la produzione di nuove credenze, ossia di abiti. La soluzione al dubbio, ciò che mette fine allo stato di irrequietezza, è una credenza, una modalità pratica attraverso cui la domanda dalla quale si è partiti cambia radicalmente la sua sintassi. Il dubbio va inteso dunque come un concetto normativo e non come un mero stato psicologico.
Come ha ben messo in luce Rorty, Peirce e Wittgenstein ritengono che le idee non siano un qualcosa da scoprire là fuori, ma strumenti da utilizzare per scopi diversi. Riconoscere che il significato dipende dall’uso e non dalla forma linguistica non significa solo prendere le distanze da una concezione mentalistica del significato: vuol dire anche, per Wittgenstein e per Peirce, riconoscere che il disegno di una morfologia di tutte le possibili forme del significato proposizionale è insensato, poiché i contorni di queste forme sono sfumati, vaghi appunto.
Il secondo punto su cui mi vorrei soffermare è quello relativo all’immediatezza e alla possibilità di una fondazione non fondata. Tiercelin si sofferma nel secondo capitolo sulla distinzione tra logico e causale, sostenendo, con Rorty, che la differenza tra la concezione di Peirce e quella di Wittgenstein sia soltanto verbale e che di fatto il modo di intenderla sia il medesimo. Spazio delle ragioni e spazio delle cause, fisico e mentale, descrizione in prima e in terza persona, sono coppie dicotomiche con cui nella storia della filosofia si è sempre sostenuta la medesima concezione e con cui si è cercato di ridurre in un caso il materiale al mentale (idealismo) e nell’altro il mentale al materiale (materialismo). Se vi vuol far prevalere il resoconto obiettivo e naturalistico, si è soliti scegliere il discorso in terza persona, mentre se si vuole seguire la descrizione intenzionale (potremmo dire fenomenologica) riferentesi al vissuto, quello in prima persona. Wittgenstein e Peirce si muovono su un terreno completamente differente che interrompe l’oscillazione tra queste due opposti intesi in maniera unilaterale.
La nozione di vaghezza rappresenta lo sfondo tacito e certo che vincola la conoscenza – intesa come processo interpretativo e inferenziale – alle certezze indubitabili che ci rendono quella particolare forma di vita che siamo: è su questo punto che si manifesta pienamente il critical common-sensism di Peirce e Wittgenstein. Questa immediatezza indubitabile in cui il dubbio ha il suo inizio non deve però essere confusa con la fattualità obiettiva, con la “realtà in sé”; il concetto di vaghezza indica il pre-semiotico, l’immediatezza precategoriale che si scopre tale solo a partire dal processo semiotico: potremmo dire che è qualcosa che si scopre dopo come ciò che c’era già prima. Se volessimo declinare questa teoria nelle prospettive particolari di Wittgenstein e Peirce, diremmo che la dipendenza del terreno indubitabile e certo della forma di vita si riconosce solo a partire dal gioco linguistico (Wittgesntein), così come l’immediatezza potenziale della Firstness si riconosce tale solo a partire dall’abito di risposta, dalla credenza che si instaura con la Thirdness (Peirce).
In breve, il vago, l’indeterminato, il terreno su cui la vanga deve arrestarsi (per citare le Ricerche Filosofiche), o il bedrock of the truth (per citare Peirce), è tale a partire da una prassi codificata e intersoggettivamente condivisa che permette di riconoscere che la genesi del linguaggio non è nel linguaggio, ma in un groviglio indubitabile e confuso di pratiche che ci abitano prima di essere abitate e che l’esercizio del dubbio deve presuppore se non vuole commettere l’errore cartesiano. In questo modo è possibile concepire un pensiero della fondazione non fondata, poiché non è affatto vero che il venir meno dell’orizzonte di una fondazione razionale ultima del sapere si leghi al venir meno del terreno della certezza. La parola vaghezza indica da un lato l’apertura alle possibili interpretazioni che possono essere attribuite ad un segno e dall’altro intende il sapere come quel processo non fondazionale e in continua correzione basato su pratiche normative socialmente codificate, in breve, sul fare di tutti e di ciascuno.
Questo è il motivo per cui Tiercelin può sostenere che la vaghezza è oggettiva e che è una caratteristica imprescindibile della nostra conoscenza, poiché le asserzioni e le inferenze contengono implicitamente e tacitamente un archivio di pratiche, di saperi e di abiti che regolano la continua manipolazione dei segni, il nostro continuo tentar di sapere. A questo punto, è opportuno concludere con una frase, forse un poco ironica, che avrebbero potuto scrivere Wittgenstein e Peirce, e che ben riassume l’intero discorso sulla vaghezza: “è facile essere certi, basta essere sufficientemente vaghi”.

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