Con il loro stile così diverso dalle opere e dalle lezioni ma anche così identico nella stessa insistenza sul domandare, i Quaderni neri 1931-1938 di Martin Heidegger costituiscono un affresco filosofico che affronta una varietà imponente di temi. Sin dall’inizio viene detto che non si tratta di enunciati o aforismi e neppure di appunti in vista di un sistema ma di «tentativi di un semplice nominare» (p. 3). Significativa l’epigrafe platonica (da Teeteto, 196 d2), secondo la quale si deve osare tutto: panta gar tolmeteon.
Si deve osare al di là della «saccenteria e cavillosità», le quali non permettono l’«apparire [di] alcunché nella sua essenza» (p.19); si deve osare contro l’interpretazione di Sein und Zeit come una banale “filosofia dell’esistenza”, la quale viene qui respinta di continuo e in modi persino sprezzanti; si deve osare – e il discorso si mostra imprevedibilmente attuale – contro la duplice riconduzione dell’Università a degli scopi banalmente professionalizzanti oppure a «tutti i compiti possibili e impossibili […] e intanto non ci si cura affatto o, nel caso, solo incidentalmente, dell’educazione al sapere in quanto obiettivo unico e proprio di tale scuola» (p. 167); si deve osare contro la centralità del dispositivo razziale poiché «la razza è solo condizione ma non può essere mai l’elemento incondizionato ed essenziale di un popolo» (p. 459); si deve osare contro la riduzione, tentata dal nazionalsocialismo, della filosofia a mero biologismo, a strumento di partito, a cieco pragmatismo sprezzante verso ciò che i militanti definiscono “intellettualismo”: «Una “filosofia nazionalsocialista”. Una cosa simile è ancor più impossibile e al tempo stesso ben più superflua di una “filosofia cattolica”» (p. 665), anche perché la “nuova scienza” nazionalsocialista «non è nient’altro che una giustificazione tesa a sostenere la scienza già esistente per interessi nazionalistici; con ciò va perduto l’estremo residuo di rigore e meditazione e tutto affonda nella piattezza nazionalisticamente acconciata del più desolato pragmatismo americano» (p. 252). La tesi heideggeriana è molto chiara: «Chi sta nella meditazione speculativa non arriva mai a essere tentato di rendere “pratica” la filosofia, perché compito del pensiero è appunto di rendere filosofica la “prassi”» (p. 423).
Nel contesto di posizioni come queste, Heidegger rivendica apertamente il significato filosofico della Rektoratsrede del 1933, che dunque non è altro rispetto al suo pensiero ma il cui «grande errore sta certamente nel fatto che in ess[a] si assume che nello spazio dell’università tedesca vi sia ancora una stirpe segreta di domandanti, nel fatto che in ess[a] ancora si spera che costoro si facciano condurre al lavoro dall’interiore trasformazione» (p. 377).
Alla luce di tali e altre affermazioni, la questione del nazionalsocialismo di Heidegger va ricondotta alla misura di un’illusione riconosciuta come tale. I temi pervasivi dei Quaderni sono altri; tra questi il domandare. Il pensatore è «un grande bambino – che pone grandi domande» (p. 540); ogni domanda è un piacere (Lust), ogni risposta è una perdita (Verlust) (p. 48); se uno è filosofo vuol dire che è sempre «esposto al tumulto della vicinanza degli dei in quanto colui che domanda – oppure non lo è» (p. 226). Il domandare coincide pertanto con la filosofia stessa, il cui canone consiste per Heidegger «nel padroneggiare i pochi elementi essenziali della sua storia: il detto di Anassimandro, i detti di Eraclito, la “dottrina” di Parmenide, il Fedro di Platone, la Metafisica Zeta-Theta di Aristotele; le Meditazioni di Descartes, la Monadologia di Leibniz, la “critica” (la triplice) di Kant, la Fenomenologia dello spirito di Hegel, la trattazione sulla libertà di Schelling, gli scritti postumi di Nietzsche relativi alla sua “opera principale”» (pp. 643 sg.).
Il pensiero nietzscheano pervade i Quaderni in modo ripetuto e centrale – «Uno soltanto occorre nominare qui – Nietzsche!» (p. 52) – e anche per suo tramite bisogna tentare di porsi «di nuovo indietro nel grande inizio» (p. 72), l’inizio inesauribile (unerschöpflich) di Parmenide, Eraclito e soprattutto Anassimandro, per la cui «unica dura frase» Heidegger afferma di essere disposto a dare in cambio «intere “filosofie” in vari volumi […] già solo per il fatto che questa sola frase ci costringe e ci obbliga a provare se e fino a che punto abbiamo in generale la forza di capire – vale a dire di capire noi stessi in vista della questione dell’essere e se in essa ci capiamo per l’essere» (p. 29).
Si giunge così al nucleo dei Quaderni come dell’intera opera heideggeriana, la domanda sull’essere declinata come questione dell’evento: «Il progetto dell’essere in quanto tempo supera tutto ciò che è invalso finora nell’essere e nel pensare; non già idea, bensì compito; non già soluzione, bensì impegno vincolante» (p. 167). Con la questione dell’essere Heidegger intende oltrepassare ogni antropologia, ogni filosofia dell’esistenza, ogni scientismo, ogni etica. A favore, invece, di una radicalità metafisica che non teme di mettere in discussione anche se stessa: «Non preoccupazione morale (“esistenziale”), bensì trasformazione metafisica nell’esser-ci» (p. 332); «Metafisica: la storia del dispiegarsi essenziale dell’essere; “metafisicamente”: secondo la storia dell’essere. Certo il nome e il concetto sono in tal modo superati» (p. 334).
Una delle parole fondamentali dell’intero percorso heideggeriano, e in specie delle sue ultime espressioni, appare sin dagli anni Trenta in tutta la sua chiarezza: Ereignis. Il dispiegarsi dell’essere come dispiegarsi dell’evento (p. 446) fa sì che nominare l’Essere significa «“pensare” l’e-vento (das Er-eignis “denken”)» (p. 560). Sein und Zeit è qui definito come un imperfetto tentativo di cogliere la temporalità dell’esserci e di porre nuovamente la dimenticata questione dell’essere. Andare oltre quel tentativo significa anche cogliere l’unità tra essere e tempo non come dispositivo eternizzante – che è sempre una «scappatoia di quelli che non hanno risolto la questione del tempo» e non l’hanno mai compresa (p. 624) – ma come unità dello spaziotempo nell’istante stesso di un accadere il quale è pregno di tutta la potenza di ciò che è stato e di quanto avverrà: «Perché ciò che più di tutto è abissale (das Abgründigste) – l’attimo – al tempo stesso ama ciò che più di tutto è fugace (das Flüchtigste)? In che senso qui la più semplice ampiezza della verità dell’Essere viene misurata ma ancora non fondata? In che modo qui spazio e tempo scaturiscono nella massima opposizione polare della loro essenza più controversa (in ihrem widerwendigsten Wesen) mirando alla loro originaria – e in base ai concetti correnti niente affatto comprensibile – unità?» (p. 680).
Intrisi di pensiero e declinati in un continuo domandare, i Quaderni costituiscono anche e soprattutto un costante invito alla filosofia, le cui definizioni si moltiplicano pervenendo ogni volta a un’essenza che riduzionismi di varia natura inutilmente cercano di cancellare, poiché «Filosofia è – filosofia: niente di più e niente di meno» (p. 614). Questo sapere «inutile ma signorile» (p. 364) è un «dire che lavora alla costruzione dell’Essere tramite la costruzione del mondo in quanto concetto» (p. 278), è un «portare, domandando, all’evento il dispiegarsi essenziale dell’essere» (p. 334).
Se viviamo nell’epoca degli dèi che se ne sono andati (p. 220) possiamo tuttavia ancora e sempre «imparare la grande gioia per le piccole cose», la quale «è un’arte tutta propria di trasformare l’esserci» (p. 419). E se lo possiamo è perché cerchiamo di diventare ciò che siamo: filosofi. Ogni filosofia, infatti, «è non-umana ed è un fuoco che consuma» (p. 629). In questo consumarsi l’esserci perviene ai confini del sapere il mondo e dell’essere tempo.