Il nuovo lavoro di Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza, edito da Ombre Corte, costituisce una densa raccolta di saggi volti a far luce sull’aspetto prettamente politico e anarchico del pensatore tedesco Walter Benjamin.
Il nucleo della raccolta riguarda l’idea di rivoluzione in Benjamin, mossa da una lettura politica – non da intendersi in senso abituale ma nei termini singolari delle Tesi – degli scritti del pensatore berlinese, che prende forma a partire dalla memoria storica delle lotte e delle sconfitte, dall’azione redentrice delle classi oppresse, dall’azione morale, spirituale, teologica ed ovviamente politica, nella prospettiva della «nuova definizione di rivoluzione proposta da Benjamin come “freno d’emergenza” di un mondo che si avvia alla distruzione, invece che come “locomotiva della storia mondiale”» (p. 9). Questa prospettiva di lettura chiama in causa il rapporto che Benjamin intrattiene con Marx, evidenziandone i punti di accordo e quelli che hanno permesso al pensatore berlinese di rilanciare un marxismo “eretico”, insurrezionale e rivoluzionario, in continuo dialogo con il materialismo, l’anarchismo e la teologia.
I saggi di Löwy affrontano le principali tematiche rivoluzionarie benjaminiane, evidenziandone l’aspetto prettamente sovversivo, di netta cesura con il marxismo ortodosso in accordo con l’ideologia del progresso; per Benjamin, infatti, la “rivoluzione proletaria” non è il risultato naturale o inevitabile del progresso economico e tecnico, bensì l’interruzione critica di un’evoluzione orientata al disastro. Attraverso la lettura di Löwy, si evidenzia lo stretto legame che Benjamin intrattiene con il comunismo e l’anarchismo, fattori determinanti nella sua evoluzione politica, dimostrando l’indipendenza di pensiero dalla dottrina “ufficiale” del marxismo sovietico: «Benjamin sostiene che la rivoluzione proletaria non è il risultato “naturale” o “inevitabile” del progresso economico e tecnico, ma l’interruzione critica di un’evoluzione che porta direttamente al disastro» (p. 33). Criticando l’impostazione socialdemocratica, Benjamin oppone una prospettiva rivoluzionaria pessimista, definendo egli stesso il comunismo come “organizzazione del pessimismo”, in cui l’ideologia del progresso viene esaminata nelle sue fondamenta filosofiche con l’ausilio della concezione del tempo messianico. È nel rapporto tra marxismo e messianesimo che è riscontrabile il vero compito rivoluzionario del materialismo storico: «per Benjamin, la teologia, in quanto memoria dei vinti e speranza di redenzione, non è fine a sé stessa, contemplazione mistica del divino, ma al servizio della lotta di classe» (p. 43). Löwy argomenta la tesi per cui tra Benjamin e questa “teologia della liberazione” esista una segreta affinità, dal momento che la secolarizzazione – come la si osserva in Marx – è legittima e necessaria solo se la carica sovversiva del messianesimo rimane presente; di conseguenza, ciò che qui viene criticata non è la secolarizzazione in quanto tale, ma la forma specifica che trasforma l’idea messianica in un ideale, in un “compito finito”. Strettamente connessa al messianesimo è l’adesione alle utopie rivoluzionarie nell’ottica di una prospettiva riparatrice che pone le immagini utopiche in opposizione all’ideologia del progresso lineare che percepisce il tempo come “omogeneo e vuoto” nel suo continuum storico. Löwy, in riferimento agli scritti del 1914-1921, evidenzia come la prima tendenza di Benjamin nasca in relazione all’anarchismo, e solo successivamente al marxismo. Il documento più importante in riferimento al marxismo liberatorio è il saggio sul surrealismo, nel quale si mostra come tale movimento artistico-letterario abbia fatto saltare in aria l’ordine morale borghese, spingendo il surrealismo a sinistra, dalla parte della rivoluzione, ricercando una sintesi tra materialismo dialettico e materialismo antropologico, che trovano nella corrente del surrealismo la più alta espressione del comunismo e dell’anarchismo che Benjamin mira a correggere. Ma l’utopia rivoluzionaria richiede la riscoperta di un’esperienza antica: il matriarcato, il comunismo primitivo, la società senza classi che Benjamin propone in un ritorno al passato verso un nuovo avvenire: «per Benjamin, invece, “la rivoluzione era solo come un balzo perpetuo al di fuori delle barbarie eternamente riproducentesi della preistoria, come un far saltare la continuità di ogni storia”» (p. 69); è a tal proposito che Löwy fa presente che la concezione della storia dell’ultimo Benjamin deve molto sia al surrealismo che all’anarchismo, poiché la rivoluzione non è considerata come coronamento dell’evoluzione storica, bensì come interruzione della continuità della dominazione in un’illuminazione profana. Questa stessa illuminazione profana, secondo il filosofo francese, è intravista da Benjamin nelle insurrezioni e nelle barricate parigine del 1830-1848, intese come sinonimo di sollevazione popolare, rappresentando una sorta di luogo utopico che anticipa i rapporti sociali del futuro. A tal proposito, il filosofo francese fa luce sull’interesse di Benjamin nei confronti del ruolo delle donne: «Benjamin prende atto della trasgressione, da parte delle donne insorte, del ruolo sociale imposto loro dal patriarcato» (p. 84).
Ciò che emerge nella lettura benjaminiana è che ogni classe cerca di utilizzare e modificare lo spazio urbano a proprio vantaggio: la haussmannizzazione di Parigi è la risposta delle classi dominanti alle insurrezioni popolari, e per Benjamin questo è l’esempio esplicito del carattere mistificante dell’ideologia borghese del Progresso, che tenta di cancellare l’esperienza collettiva e la memoria del passato attraverso una politica di urbanizzazione imperiale: «si tocca qui l’aspetto più importante della haussmannizzazione: il suo carattere di “abbellimento” strategico» (p. 92) per stroncare sul nascere qualsiasi rivolta delle classi popolari.
L’interpretazione della rivoluzione nei termini di un’illuminazione profana ha luogo nella concezione messianica. Benjamin è stato uno dei primi intellettuali a denunciare l’ideologia del fascismo e la conseguente estetizzazione della politica alla quale i marxisti avrebbero dovuto rispondere con la politicizzazione dell’arte. Considerato “regressione” dell’umanità, il fascismo reca con sé illusioni progressive radicate nel “progresso” moderno e «agli occhi di Benjamin, la speranza di una lotta conseguente contro il fascismo è portata dal movimento comunista molto più che dalla socialdemocrazia» (p. 103). Löwy recepisce nella critica teologica del nazismo la manifestazione diabolica di uno spirito del male, di natura escatologica, che tenta di sostituirsi a Gesù Cristo. Il socialismo, allora, è interpretato come l’equivalente della promessa messianica, mentre il regime hitleriano appartiene all’Anticristo, alle potenze infernali: bisogna riconoscere nel Messia la classe proletaria e nell’Anticristo le classi dominanti. In aggiunta, nel percorso, si fa presente la consapevolezza di Benjamin nel riconoscere che le masse proletarie potrebbero essere mistificate dal fascismo, senza però disperare nel vedere quelle folle in preda alla resistenza: «in un momento di pericolo supremo, si presenta una costellazione salvifica che lega il presente al passato. Un passato in cui brilla, nonostante tutto, nella notte oscura del fascismo trionfante, la stella della speranza, la stella messianica della redenzione, la scintilla della sollevazione rivoluzionaria» (p. 106).
Agli occhi di Benjamin, il materialismo storico, allora, porterà alla crisi del capitalismo, alla società senza classi, ma questa partita potrà essere vinta solo tramite l’occulta azione della teologia, nonché del nano gobbo che opera all’interno del materialismo storico. Che cosa significa, allora, per Benjamin, la teologia e che ruolo assume all’intero della sua impalcatura politica? Essa è al servizio della lotta degli oppressi: deve ristabilire la forza esplosiva e messianica del materialismo storico perché «il materialismo storico a cui si ispira Benjamin nelle tesi successive è quello che risulta da questa vivificazione, da questa attivazione spirituale da parte della teologia» (p. 110). Löwy conclude mostrando come la redenzione messianica/rivoluzionaria sia il compito che ci è stato assegnato dalle generazioni passate: il solo Messia possibile è collettivo, ovvero l’umanità stessa. Il potere messianico non è unicamente contemplativo, ma anche attivo. In Benjamin, allora, la tradizione teologica e la radicalizzazione marxiana si fondono in un’unica esigenza di salvezza, insistendo sulla dimensione rivoluzionaria: la corrispondenza che si crea è quella tra il paradiso perduto, da cui ci allontana la bufera che chiamiamo “progresso”, e la società senza classi agli albori della storia, così come l’era messianica del futuro e la nuova società senza classi del socialismo. Il compito del Messia sarà quello di instaurare una corrispondenza profana che altro non è che la Rivoluzione, il ricorso al freno d’emergenza.