Dopo il fortunato saggio La via degli dèi (Roma 2017), Davide Susanetti – ordinario di Letteratura greca presso l’Università di Padova – esplora la tradizione platonica nella sua autentica accezione di via sapienziale che conduce alla reintegrazione dell’umano nel divino. Il simbolo nell’anima. La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica, pubblicato dall’editore Carocci nella collana Le Frecce, prende le mosse dall’oracolo delfico, vero centro d’irradiazione di una “cura di sé” che ha conosciuto fertili sviluppi nella tradizione di pensiero risalente a Platone.
Se il santuario del dio Apollo identifica il centro del mondo, il luogo numinoso in cui il divino e l’umano s’incontrano, la celebre massima gnóthi seautón, «conosci te stesso», in cui la sapienza apollinea si condensa, rappresenta un monito per ogni mortale che, ignorando i propri limiti, rischia di macchiarsi di superbia al cospetto degli dei. In questo senso, l’ingiunzione di Apollo entra in risonanza con l’altro motto delfico: «nulla di troppo», che richiama al senso della misura e ispira la virtù cardinale dell’uomo greco, la saggezza (sophrosúne), intesa come il sapersi comportare in modo conveniente nei confronti di uomini e dei. Ma, come osserva Susanetti: «l’enigmatico motto di Apollo non si limita a suggerire prudenza e moderazione ai suoi visitatori, ma pare indicare, al contempo, con cenno discreto, quel cammino che conduce alla philosophía, all’inesauribile “amore della sapienza”» (p. 23). La massima nasconde cioè l’invito a sondare la radice dell’essere umano, il centro occulto che lo governa, quel «sé» che prende il nome di anima (psuché).
Nel primo capitolo, Al centro di sé e del mondo. Tra Delfi e Platone, Susanetti riconosce nel motto delfico il principio guida di ciò che con felice espressione l’autore definisce «il teatro sapienziale dei dialoghi platonici» (p. 25). Esemplare a tale riguardo l’Alcibiade Maggiore, il dialogo platonico in cui Socrate mette in guardia Alcibiade, giovane di belle speranze e dall’ambizione smisurata, che non nelle ricchezze, negli onori o nella bellezza risiede l’eccellenza di un uomo. La cura di sé non è da intendersi infatti come cura dei propri affari bensì come attenzione a ciò in cui risiede la natura propria dell’uomo: la sua anima. Mentre l’anima può soltanto perdersi nella misura in cui si volge alle cose del mondo, per ritrovarsi dovrà rispecchiarsi in un’altra anima, guardando al centro di essa «là dove risiede la facoltà intuitiva del nóus, della “mente”, là dove la sophía, la “sapienza” fa balenare la propria luce» (p. 30), là dove la natura umana trascende se stessa «assimilandosi agli immortali che sempre sono». Proprio in ragione del suo alto valore pedagogico, il dialogo in questione veniva proposto per primo a coloro che praticavano la filosofia entro il perimetro dell’Accademia platonica. «Di tappa in tappa, di dialogo in dialogo, come in un percorso ascensionale sempre più arduo, si giungeva infine ai due testi in cui si riteneva racchiuso il vertice stesso dell’insegnamento: il Timeo e il Parmenide» (p. 32). Nel primo, Platone descrive la struttura animica del cosmo, nel secondo medita sull’unità suprema da cui dipende la molteplicità mutevole di tutto ciò che è. La natura aporetica del dialogo che ha per protagonista il saggio di Elea non costituisce affatto un limite o un disvalore giacché ciò a cui il Parmenide ci costringe è esercitarci a ricondurre il molteplice all’uno, una pratica di per sé terapeutica in quanto «purifica la mente, allontanandola dalle parvenze nelle quali ciascuno è immerso e a cui presta ingenuamente fede» (p. 35).
Nel secondo capitolo, Il viaggio nella mente. Plotino, Susanetti approfondisce l’esperienza del “risveglio”, del destarsi a se stessi, che Plotino riferisce di avere sperimentato più volte nel corso della sua vita. Come l’astuto Odisseo, il saggio neoplatonico è in grado di passare incolume attraverso i flutti della molteplicità e del divenire per approdare alla pienezza dell’aríste zoé, la «vita migliore», che è piena identificazione con il principio divino, il centro dell’essere. Al pari di una luce che effonde se stessa, o di una sorgente traboccante, o ancora della linfa vitale di un albero che scorre dappertutto pur mantenendosi il proprio principio ben saldo alla radice, l’Uno plotiniano è il punto di scaturigine dell’essere. Da esso ha inizio la processione delle realtà: intelletto (nóus) e anima (psuché), secondo una dinamica per cui «ogni realtà, per essere, si fa visione del principio che le è immediatamente superiore, così come si fa visione di se stessa generando un livello a lei successivo» (p. 48). All’origine della processione della realtà sta dunque un atto di contemplazione. Per l’uomo desto, theoría e póiesis indicano perciò la stessa cosa. L’anima umana, poi, per sua natura, oscilla tra la dimensione dell’eterno e quella del tempo, tra l’uno e il molteplice, tra l’alto e il basso e nella sua duttilità finisce per assumere la forma di tutto ciò a cui si fa prossima, come uno specchio a due facce essa diventa, di volta in volta la realtà che riflette. «Non resta – spiega Susanetti – che pulire bene tale “specchio”, renderlo quieto e immobile […] tenerlo saldamente rivolto verso l’alto perché riceva tutta la luce che da là discende» (p. 54).
Nel terzo capitolo, Intermezzo simbolico. Materie, segni e miti, Susanetti sosta sulla concezione organicista e simpatetica del cosmo, inaugurata dal Timeo di Platone e sviluppata dalla tradizione neoplatonica. Tra le parti che costituiscono il tutto esiste un rapporto di parentela che può essere descritto come un sistema di segni che rimandano gli uni agli altri, «una lingua segreta di attrazioni e vincoli» (p. 67). Presupposta la solidarietà del tutto, è possibile «agire su una cosa per produrre un effetto a distanza su un’altra». In tale prospettiva, la filosofia e la teurgia si scoprono dimensioni complementari. Se poi il reale presenta un carattere strutturalmente analogico, allora il mito diventa lo strumento privilegiato per alludere in forma speculare a dimensioni del reale che trascendono il nostro orizzonte di comprensione e condurci ad esse per via anagogica. Il neoplatonismo aggira, per così dire, la “censura” imposta da Platone nei confronti dei poeti, comprendendo, alla luce del principio di inversione, che «l’assurda oscenità è l’estremo inferiore che riflette […] l’assoluta trascendenza degli dei» (p. 83). Da qui la rivalutazione del mito, come fonte di ispirazione capace di elevare l’anima all’intuizione divino.
Il retaggio orfico-pitagorico a cui la tradizione platonica attinge, faceva del sonno una condizione prossima alla morte, di sospensione momentanea dei legami tra corpo e anima che rende possibile a quest’ultima viaggiare nel tempo e nello spazio. Nel capitolo quarto, Sogno e corpi sottili. Sinesio, Susanetti esamina il trattato I sogni di Sinesio di Cirene, allievo di Ipazia di Alessandria, che a tutta prima si presenta come un elogio della divinazione onirica – l’oniromantica – una pratica divinatoria “democratica”, in quanto accessibile a tutti, senza distinzioni di censo o di età, la quale non necessita per giunta di attrezzature particolari né di alcuna spesa. L’organo che rende possibile questa pratica è il cosiddetto “corpo pneumatico”, la membrana sottile che riveste l’anima al momento della sua discesa nel mondo corporeo. «Immagini delle idee, rappresentazioni sensoriali: la duplice orientazione del “veicolo” è, al medesimo tempo, strumento di mediazione e connessione tra alto e basso, tra interno ed esterno» (p. 99). Il pnéuma mostra di possedere però anche una vita autonoma, indipendente dagli stimoli sensoriali, e tanto in stato di sonno quanto in quello di veglia può condurre l’anima ad ascendere ai livelli superiori dell’essere, fino a giungere a quella che gli Oracoli caldaici definiscono autopsía, la visione diretta delle luci divine. A tale scopo occorre purificare il veicolo dell’anima al fine di renderlo quanto più sottile e aereo possibile, attraverso l’azione teurgica e il rito.
La vita di Proclo, oggetto del quinto e ultimo capitolo, Virtù e vita teurgica. Proclo, offre all’autore la possibilità di insistere sui caratteri tradizionali ed iniziatici del platonismo: il fatto che l’addestramento filosofico presso l’Accademia avvenisse secondo una progressione graduale nel sapere, che prevedeva diversi stadi di iniziazione, con le dottrine aristoteliche a offrire un primo livello di comprensione in vista dei misteri divini contenuti nelle opere di Platone; l’importanza accordata alla dimensione della philía «che deve legare tra loro gli uomini impegnati nella ricerca della divina sapienza» (p. 128), come in una confraternita iniziatica; la pratica delle purificazioni rituali, da intendersi quale «esercizio di morte» volto a separare in vita l’anima dal corpo, sottraendola così al condizionamento dei sensi e liberandola dalla realtà inferiore di cui essa è prigioniera; la recita degli inni sacri e della preghiera, strumenti di cui l’anima si serve per realizzare la propria epistrophé, il ritorno al principio da cui deriva. L’esito di queste pratiche è il compiersi della catarsi che sfocia nella contemplazione del divino. «Il vertice iniziatico» precisa Susanetti «è, tuttavia, rappresentato dal conseguimento delle virtù “teurgiche”. Non si tratta più solo di contemplare e di conoscere, ma di “operare”, unificandosi agli dei e assimilando la propria “attività” e la propria “energia” a quella dei supremi principi della realtà» (p. 136).
Siamo grati a Susanetti per aver restituito alla tradizione platonica la sua “aura” di misticismo, sottraendola all’abbraccio di quella filosofia razionalista tanto celebrata dai moderni ma di cui l’uomo greco faticherebbe a comprendere il senso. Il Platone di Susanetti non ha nulla a che vedere né con il trascendentalismo kantiano né con la nota interpretazione delle «dottrine platoniche non scritte». Le somiglianze tra la prospettiva dischiusa ne Il simbolo nell’anima e l’indirizzo percorso dalla Scuola di Tubinga-Milano sono infatti solo apparenti. Mentre Reale ha sempre tenuto a precisare che il termine esoterismo, riferito a Platone, era da intendersi in senso lato, come una mera notazione “tecnica”, utile a distinguere tra la produzione destinata al largo pubblico e le dottrine non scritte, rivolte agli “interni”, Susanetti riconosce nel platonismo una dottrina iniziatica a tutti gli effetti, «una vera e propria mustagogía, un percorso “iniziatico” alla conoscenza intima del divino e alla realizzazione di sé su un piano superiore» (p. 125). Il testo, che tra i suoi numerosi pregi ha anche quello di essere composto in uno stile omogeneo alle esperienze di cui tratta, si conclude con un Epilogo in forma di inno, da cui estrapoliamo un frammento, che Susanetti raccomanda al lettore di recitare a voce alta quale viatico quotidiano di conoscenza: «Se non cerchi nulla, riposando in te stesso e sulla tua essenza, tu ti rendi simile al tutto, senza rimanere impigliato in alcuna cosa che da esso deriva. Non dici più “Io sono tanto grande”, perché hai abbandonato quel “tanto grande” e sei diventato tutto» (p. 152).