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11. Recensione a: Simona Venezia, La misura della finitezza. Evento e linguaggio in Heidegger e Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2013, pp. 250. (Alberto G. Biuso)

Sei parole molto dense danno il titolo a questo libro. Tra di esse i due nomi che, accostati tra loro, disegnano «il vero confronto della filosofia del Novecento», perché è il confronto in cui la filosofia interroga il proprio statuto, le possibilità e i limiti (pp. 18 e 103). “Confronto” lo chiama Simona Venezia e non “paragone”. Non dunque un paragone estrinseco o anche soltanto filologico e storiografico, ma un autentico, difficile, labirintico eppur trasparente confronto che penetra identità e differenze, intersecando un pensiero che due voci hanno detto, indicato, mostrato, taciuto nei modi propri a ciascuno, in un’unità sempre differenziale e per questo feconda per il presente e per il futuro della filosofia.
Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein hanno soltanto accennato ciascuno al pensare dell’altro e tuttavia anche quei pochi riferimenti «dimostrano senza dubbio come ciascuno fosse affascinato dalla filosofia dell’altro, in una distanza feconda proprio perché sicuramente disinteressata» (p. 27). Questo studio dà conto con puntualità e rigore dei testi nei quali i due si sono incrociati ma va poi molto oltre, disegnando un geroglifico composto da una varietà di segni, i più importanti dei quali sono l’angoscia, la teoresi, la prassi, il linguaggio, il mostrare, il silenzio.
Das Nichts nichtet. Che cosa di più lontano di un’affermazione come questa rispetto all’esigenza wittgensteiniana di una terapia del linguaggio che guarisca dalle sue oscurità? E tuttavia il filosofo austriaco non condivise l’attacco che Carnap rivolse a un modo di articolare il pensiero che si esprime anche in altre analoghe affermazioni quali die Zeit zeitigt, der Raum räumt, das Ding dingt, die Welt weltet, das Spiel spielt, das Ereignis ereignet, die Sprache spricht. Wittgenstein scorge anzi «in Das Nichts nichtet la possibilità di una comprensibilità nonostante l’impossibilità di una verificabilità, impedendo a meri pregiudizi di prevalere. Il senso di una proposizione è dato anche in questo caso dal contesto in cui essa ‘agisce’ e non da una presunta autorità previa e assoluta» (p. 48). Che il nulla si faccia nulla esprime quella connessione tra linguaggio, stupore e angoscia che Wittgenstein e Heidegger hanno di continuo messo alla prova dell’esperienza e della teoresi. Credo che qui stia uno dei nuclei fondamentali dell’esegesi di Venezia, in questo raccordo tra senso, contesto e prassi; un raccordo che induce il filosofo austriaco a non porre l’etica nel girone dell’irrazionalità ma in quello del mistico, vale a dire del rispetto che la razionalità deve sempre alla densità dell’esserci umano nel mondo. Di contro e in profonda simmetria, Heidegger sostiene che «Es ist die Sorge für den Sprachgebrauch» – il pensiero dell’essere è cura per l’uso del linguaggio –, un’affermazione che anche nella tonalità risulta wittgensteiniana, ponendo un vincolo radicale tra Cura e Linguaggio, legame dal quale scaturisce una delle più originali proposte di questo studio, vale a dire – con un chiaro accenno a una celebre formula heideggeriana – «la fine del teoreticismo e il compito della teoresi» (è questo il titolo del II capitolo).
Il duplice limite del teoreticismo consiste sia nel realismo – che si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati – sia nel trascendentalismo – che s’illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa è sempre immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma. Il teoreticismo guarda all’ambito delle scienze naturali con – per dir così – nostalgia concettuale e senso di emulazione; la teoresi si radica invece nel terreno pienamente fondato della filosofia e con essa coincide. Il teoreticismo si ramifica in una serie di strutture categoriali e di specialismi contenutistici. La teoresi si fonda sulle strutture primarie dello stare al mondo in una varietà di giochi linguistici che segnano il «connubio inscindibile di teoria e prassi» (p. 76). Il risultato – assai importante – è che «partendo dal confronto tra Heidegger e Wittgenstein è dunque possibile tracciare i lineamenti di una teoresi antiteoreticistica che sola può permettere alla filosofia di ritrovare la propria autenticità e di riappropriarsi pienamente della propria identità, diventando finalmente ciò che già è» (p. 110).
È anche per questa loro continua e convinta attenzione alla prassi che Wittgenstein e Heidegger hanno sempre privilegiato il Wie rispetto al Was, il come la realtà si dà rispetto ai contenuti particolari e specifici in cui ogni volta si dà. È per questo che per entrambi il mondo è una gedeutete Welt, è «il mondo che già significa» di Rilke, una struttura prassica e insieme concettuale nella quale «gli oggetti attivano sempre relazioni, che sono sempre relazioni di significato; in questo passaggio rivoluzionario convergono le tesi del Tractatus e di Sein und Zeit» (p. 139). Passaggio rivoluzionario, è vero, ma che affonda nell’antico e ribadito privilegio che la filosofia dà alla possibilità rispetto alla realtà, in quanto netta e precisa preferenza per l’eventualità rispetto ad ogni permanenza, per il tempo che va rispetto a ogni stare che c’è.
Il legame tra prassi, tempo, possibilità e linguaggio è dunque il vero terreno del Bezug Wittgenstein-Heidegger, un terreno nel quale questo libro raggiunge il suo culmine teoretico. Contro ogni purezza trascendentale-metafisica Wittgenstein abbandona Frege, Heidegger abbandona Husserl ed entrambi pervengono a una posizione per la quale «le condizioni di possibilità della conoscenza non sono altro che un fondamento obiettivante, che viene invece sostituito dal linguaggio, che non è fondamento» (p. 166). Un linguaggio volto a indicare il mondo, vale a dire “alles, was der Fall ist”. Nella prima proposizione del Tractatus Venezia individua «una vera e propria cosmologia logica di matrice ontologica» (p. 79) che si struttura temporalmente venendo in questo modo a costituire ogni prassi – non soltanto quella umana – e il linguaggio che la declina. Infatti, «il fenomeno dell’esistenza, l’apertura al mondo, è intrinsecamente connesso alla temporalità che la soggettività sempre è. La temporalità dell’irripetibile hic et nunc nel quale viviamo e che noi stessi siamo ci localizza in uno spazio che è sempre il nostro. Spazio e tempo non sono mai neutrali e indifferenti per il nostro pensare – sia quello quotidiano che quello specialistico –, ma sempre ‘connotati’ da una congerie di significati che il più delle volte non siamo noi a elaborare, ma che comunque popolano il nostro mondo e incidono su di esso. In un contesto del genere più originaria di fenomeni come l’intuizione, l’asserzione o la conoscenza è l’interpretazione intesa come comprensione dispiegantesi [Auslegung], che conferma che nel suo rapporto con il mondo l’esserci è già immerso in un mondo di significati». (p. 90)
Tutto questo è l’ermeneutica della fatticità, è la ricchezza degli Sprachspiele. Per l’ermeneutica dei giochi linguistici non esiste alcuna immacolata percezione: «Sia per Heidegger che per Wittgenstein l’interpretazione è un fenomeno originario dell’esistenza» (p. 126). In questo dire, capire, indicare, il tempomondo si dà e si mostra. Tale darsi e mostrarsi è ciò che Heidegger chiama Ereignis, una parola nella quale – osserva giustamente l’Autrice – «può concentrarsi l’intuizione wittgensteiniana secondo la quale la realtà è la coappartenenza di evento e possibilità. La relazione tra le cose e i dati di fatto è sancita dal suo evento. I fatti accadono, le cose non accadono» (p. 150). Nell’eventuarsi del linguaggio prende corpo e senso ogni concreta situazione umana, nel duplice significato che senza linguaggio non si dà senso e senza l’evento del mondo non ha senso alcun linguaggio. Sta anche qui la ragione per la quale secondo entrambi il pensabile e il dicibile coincidono. Per Wittgenstein, «nel linguaggio non si esprime semplicemente il pensiero, ma avviene il pensiero: non esiste verità se non quella che accade nel linguaggio, perché non esiste sensatezza certificabile fuori dalle immagini che ci facciamo dei fatti e che solo la logica può attestare come fatti composti da stati di cose nella loro sussistenza o non sussistenza reale» (p. 33); per Heidegger è nell’Ereignis che si dà «il punto di congiunzione di essere, tempo e linguaggio, destinati senza una meditazione sull’evento a rimanere dimensioni ontologiche del pensiero avulse le une dalle altre» (p. 181).
Il dire di entrambi confluisce e conclude infine – “infine” perché così era sin dall’inizio – nel mostrare. L’antica parola Sage è tradotta da Simona Venezia non con “Dire originario” ma con “dire che mostra”, proposta che mi sembra assolutamente da condividere, nella fedeltà all’affermazione heideggeriana per la quale «Die Sage ist Zeigen» (p. 190). Ancora fenomenologia, alla fine e inevitabilmente, anche se declinata non più nelle forme trascendentali e gnoseologiche che costituiscono una possibile modalità del lavoro fenomenologico, ma non certo l’unica, come un secolo e più di cammino della fenomenologia ha ampiamente mostrato. Una fenomenologia che – saputa o no, non importa – si dispiega in Heidegger e anche in Wittgenstein come inesausta «ricerca di un fondamento fondante ma non fondativo, che per entrambi alla fine indubitabilmente è il linguaggio pensato non come realtà definitiva e irrefutabile, ma come evento sempre intriso di possibilità» (p. 228).
Tra queste possibilità del linguaggio la più pervasiva è il silenzio. La lunga meditazione heideggeriana sullo Schweigen e la chiusa del Tractatus su questa parola fanno sì che «in Heidegger il silenzio porta dei frutti che il filosofo deve essere capace di cogliere. In Wittgenstein il silenzio porta dei frutti che non è assolutamente compito del filosofo tentare di cogliere» (p. 203). E tuttavia, per entrambi, «a cambiare non è l’istanza di rigore, ma la filosofia stessa, che diventa una vera e propria filosofia del silenzio. Che il filosofo tedesco ha ritenuto doveroso tautologicamente scrivere, e che il filosofo austriaco ha ritenuto doveroso tautologicamente tacere. Entrambi, tuttavia, hanno compreso che se è vero che la filosofia troppo spesso tradisce il silenzio, il silenzio non può mai tradire la filosofia» (p. 207). Nel linguaggio che tace e nel silenzio che parla prendono ancora una volta voce e corpo l’identità e la differenza, l’immobilità e il mutamento, l’essere e il divenire.
Questo plesso – che qui ho tentato semplicemente di riassumere, ma la cui ricchezza soltanto il libro può restituire – abita sempre nel dire ma specialmente nel dire poetico, sul quale coerentemente l’opera si chiude. La «lontananza aperta alla misura» del Sentimento del tempo di Ungaretti condensa e squaderna il significato delle sei parole che danno titolo al libro. Al di là delle pur inevitabili ma soltanto consolanti certezze della vicinanza, il dire e l’essere sono radicati nella lontananza, che per noi è «l’essenziale finitezza che mostra l’autentica misura dell’agire e del pensare umani, una misura che non definisce e non rinchiude, ma che indica e che apre» (p. 229).

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