Lo studio di Radu Motoca, Sentire la vita. Fenomenologia e religione in Michel Henry, pubblicato dall’editore Stamen di Roma e sapientemente prefato da Draga Rocchi, ricostruisce, con padronanza dialettica e profondità d’analisi, il percorso seguito dal filosofo francese Michel Henry (1922-2002) nel suo tentativo di ripensare radicalmente la nozione di vita con gli strumenti interpretativi offerti dalla fenomenologia iletica.
Se la fenomenologia classica descrive la soggettività in termini di intenzionalità, come uscita fuori di sé, apertura “ek-statica” al suo oggetto trascendente, la fenomenologia materiale di Michel Henry indaga piuttosto il fondamento di questa stessa soggettività, ovvero le condizioni di possibilità e le modalità che consentono alla soggettività di fare esperienza del mondo, cercando di mostrare innanzitutto che l’essere del corpo è il vero luogo della dimensione conoscitiva dell’Io. Anticipando le conclusioni della scrupolosa disamina che Motoca svolge in quattro densi capitoli – che hanno tra gli altri il pregio di cogliere il pensiero di Henry in dialogo con i suoi referenti polemici, Aristotele, Cartesio e Husserl, e con i suoi interlocutori privilegiati, Maine de Biran e Merleau Ponty – questa forma di conoscenza, patica, precede la riflessione e dunque la rappresentazione che il soggetto fa di sé e del mondo che lo circonda. In termini che ricordano per certi versi il vitalismo bergsoniano, Henry pone alla base delle relazioni tra soggetto e mondo l’auto-movimento della vita come possibilità primordiale di ogni sentire. La fenomenologia materiale conduce da ultimo a una fenomenologia dell’Incarnazione, quale donazione originale della vita a se stessa, che l’individuo sembra però obliare nel suo agire quotidiano. I concetti di Archi-Vita, o Vita assoluta, e di Primo Vivente, schiudono l’orizzonte religioso e cristocentrico della riflessione di Henry e rappresentano il punto di incontro tra la fenomenologia materiale e la teologia cristiana. Al Logos greco, di cui la fenomenologia husserliana è l’estremo e più conseguente degli esiti, Henry è portato a preferire il Verbo della Vita; al pensiero, uno dei modi della vita, incapace in quanto tale di cogliere la fonte invisibile da cui esso procede e perciò anche di rappresentarla, la parousia «del continuum immanente dell’auto-movimento della vita assoluta nel suo venire a sé» (p. 283).
Nel primo capitolo, La critica della tradizione filosofica, Motoca illustra la critica che Henry muove alla metafisica tradizionale a partire dal presupposto fenomenologico dell’evidenza apodittica dell’ego, della sua pura immanenza e auto-rivelazione. Porre l’ego come verità originaria significa escludere il ruolo della trascendenza nella costituzione della soggettività e proporre una fenomenologia non-intenzionale. Ogni trascendenza infatti è avvertita dal filosofo francese, per usare le parole di Motoca, «come pericolo dell’alienazione della vita» (p. 40). L’approfondimento dell’istanza fenomenologica porta Henry, sul solco dalla lezione husserliana e heideggeriana, ad assumere come compito quello di chiarire non tanto «che cosa si dà come fenomeno», il contenuto del fenomeno, quanto piuttosto «cosa sia la fenomenalità», il phainesthai, l’apparire stesso del fenomeno, la sua struttura intrinseca. Tanto in Husserl quanto in Heidegger questa indagine portava al riconoscimento di una trascendenza tra coscienza e cosa nell’uno, tra essere ed ente nell’altro. Alla base di entrambe queste posizioni, e da ultimo di tutto il pensiero occidentale, sta il “monismo ontologico”, secondo cui la manifestazione si riduce all’apparire del mondo, alla sua visibilità. Diversamente, l’ontologia henryana della soggettività postula, sulla scorta delle intuizioni di Maine de Biran, una equazione io = corpo, inteso quest’ultimo come potere di agire. «Vita immanente, soggettività assoluta, corporeità soggettiva, carne», sostituiscono il concetto di intenzionalità nella definizione che Henry elabora della soggettività. Come tale, la soggettività non può diventare oggetto a se stessa, al contrario «il nostro accesso ad essa è dato dalla sua auto-donazione e auto-rivelazione» (p. 48).
Nel secondo capitolo, Corpo e carne, Motoca presenta la fenomenologia materiale di Henry, a partire dall’esigenza di riconoscere il corpo nella sua corporeità, sottraendolo «alla semplice categoria di mediatore, tra l’io e il mondo» (p. 68). Il concetto di corpo ereditato dalla tradizione fenomenologica, viziata da un pregiudizio intellettualista e dualista, viene ripensato da Henry a partire dalla nozione di “soggetto incarnato” proposta da Merleau-Ponty. Mentre per quest’ultimo, però, il chiasma – il punto di indiscernibilità tra soggetto e oggetto – assume la forma di un “cogito tacito”, ossia di una coscienza implicita, di un’interiorità che si esteriorizza e di un’esteriorità che si interiorizza, «per Henry, la soggettività, rivelata nel corpo, è trasparenza assoluta, autoaffezione» (p. 72). Ogni intenzionalità che il corpo possa agire rimanda infatti, secondo Henry, quale sua condizione di esistenza, a una possibilità più profonda e originaria, che è l’auto-affezione della vita, la quale «in ogni atto […] sente prima di tutto se stessa» (p. 88). Si tratta anche in questo caso di sottrarre il corpo trascendentale al ricatto della “visibilità”, a cui l’Occidente ha ceduto, risolvendo il phainesthai nella trascendenza ek-statica dell’apparire. In Philosophie et phénoménologie du corps (1965), Henry elabora la propria fenomenologia del corpo e della carne a partire dall’analisi dell’opera di Maine de Biran (1766-1824). In accordo con il filosofo sensista francese, il quale aveva sostituito l’“io penso” cartesiano con l’“io posso”, per Henry la soggettività incarnata o corpo soggettivo è potere di movimento. «L’Ego» scrive Henry «agisce direttamente sul mondo. Esso non agisce per l’intermediazione di un corpo, non ricorre nel compimento dei suoi movimenti a nessun mezzo. Ego, corpo, movimento non sono che una sola e stessa cosa» (p. 94).
Il terzo capitolo, Sensibilità e affezione, mette a fuoco distinzione operata da Henry tra sensibilità e affezione, che prende forma dall’analisi dell’opera merleau-pontyana Fenomenologia della percezione. Mentre Merleau-Ponty considera ancora, in ossequio a una concezione intellettualistica del processo percettivo, la sensibilità come qualcosa di anonimo e pre-personale, Henry riconosce alla base della ricettività umana un atto originario, pre-intenzionale, di auto-donazione: l’auto-affezione della soggettività stessa. «Ogni sensazione è incessantemente vissuta dal soggetto come una forma di auto-affezione. In questo senso», precisa Motoca «l’auto-impressionalità è una facoltà primordiale della soggettività stessa» (p. 140). La fenomenologia materiale subordina l’apparire del mondo a quello soggettivo e vitale, abolendo ogni distinzione tra componente affettiva e componente intuitiva, con tutte le aporie che da questa posizione discendono e che Motoca puntualmente non manca di evidenziare: «Il rosso in quanto rosso, consiste solo nel sentimento d’intensità, o di violenza della qualità sensibile? Questa qualità sensibile stessa non è nulla oltre l’affetto interno che produce?» (p. 145). La posizione di Henry esclude di principio la possibilità di riconoscere “ek-staticamente” in un oggetto fuori di noi la causa dell’impressione, il che lo porta da ultimo ad affermare che ogni elemento sensibile si traduce in realtà in un elemento affettivo, ogni impressione si risolve nella semplice modificazione di sé, ogni qualità corrisponde a un sentimento di piacere o di dolore. Il principio dell’auto-affezione immanente della vita è il fondamento stesso di ogni apparire, la condizione stessa di possibilità di ogni etero-affezione. Da ciò la distinzione tra affettività, sempre immanente, e sensibilità, sempre ek-statica, basata cioè sempre su un “fuori”, sulla percezione sensoriale di un oggetto.
Il quarto ed ultimo capitolo La possibilità fenomenologica radicale vede Motoca impegnato a fare un bilancio dell’incidenza di Maine de Biran sul pensiero di Michel Henry. Il biranismo di Henry appare riconoscibile nell’idea che la prima e fondamentale conoscenza di sé implica sempre una conoscenza simultanea del corpo e soprattutto nell’idea di un sentimento assoluto dell’esistenza che precede la nostra stessa capacità di percepire questa o quella sensazione, in quanto ne costituisce, per così dire, l’a priori materiale. Mentre però Biran vede nell’attività, nell’“Io posso” il carattere fondamentale della soggettività e nel corpo il principio polarmente contrario e passivo che oppone ad esso una certa resistenza, Michel Henry «propende per l’idea di una passività originale della soggettività, caratterizzata dal coappartenersi originario di attività e passività» (p. 189). Così, il tatto, a cui Biran riconosce un primato sugli altri sensi in quanto fa conoscere all’Io che il mondo esiste, e che Merleau-Ponty pone alla base di ogni percezione, persino del vedere, inteso come un “toccare a distanza”, viene ripensato da Henry a partire dal chiasmo tra toccante e toccato, il quale pare al filosofo francese occultare la possibilità che sta a fondamento del sentire stesso e che la riduzione fenomenologica dovrebbe invece portare alla luce. È il “poter toccare”, come possibilità radicale del corpo, ciò che interessa a Henry e che egli fa corrispondere alla carne, «coincidendo, essa stessa, con la venuta a sé della vita, che è la condizione di ogni possibilità» (p. 229). Ma al di là del corpo, dell’“io posso”, e al di là della carne sta l’Incarnazione, l’impotenza radicale e assoluta di ogni potere, nel senso che «nessuno di essi, neppure la carne, può trarre il proprio potere da sé, ma solo da una donazione verso cui non ha nessun potere» (p. 252), una possibilità più originaria rispetto alla quale nulla può. Una pura possibilità di potere che, kierkegaardianamente, giustifica l’angoscia che accompagna come un’ombra la nostra libertà.
Mercé la prosa inappuntabile e la solida trama concettuale che sostanziano questo pregevole studio, Motoca ha saputo guidare il lettore lungo uno dei sentieri più originali di cui la filosofia contemporanea ci abbia fatto dono: «La grande novità offerta dalla fenomenologia materiale, prima ancora dell’essere una revisione profonda dei presupposti del pensiero di Husserl e di Heidegger, è proprio essere stata questo radicale lavoro di scavo all’interno delle categorie metafisiche tradizionali, operato alla luce della necessità, impellente dopo Cartesio e Spinoza, di ricollegare tali questioni ad una soggettività, che, forse, con troppa violenza il pensiero moderno sembra aver spazzato via o ridotto a mero termine di confronto con l’oggetto da conoscere» (p. 301).