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117. Recensione a: Filippo Mancini, Massimiliano Carrara (a cura di), Sul dialeteismo. Lezioni padovane di Graham Priest ed altri saggi sul dialeteismo, Padova University Press, Padova 2021, pp. 266. (Marco Bonutto)

Tra il 14 e il 17 giugno del 2016, presso il dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova, il logico e filosofo britannico Graham Priest tenne un ciclo di lezioni dottorali dedicate all’esposizione dei lineamenti fondamentali del dialeteismo, dottrina logica paraconsistente in cui si sostiene l’esistenza di contraddizioni vere, e della quale egli, assieme a Richard Routley, può rivendicare a buon diritto la paternità. Queste vengono oggi pubblicate dall’ateneo padovano su iniziativa di Filippo Mancini e Massimiliano Carrara, assieme ad alcuni altri saggi dedicati al confronto con la filosofia di Priest e la sua interpretazione dei classici del pensiero.
Pur di taglio introduttivo, il volume si contraddistingue per una serie di contributi originali e d’interesse: oltre che per il confronto con alcuni autori cardine della storia della filosofia occidentale – quali Hegel, Frege e Wittgenstein – sul tema della contraddizione, per il maggiore approfondimento circa lo statuto delle antinomie kantiane (saggio di D. Della Rosa), del movimento eracliteo (saggio di F. Perelda) e dell’ontologia heideggeriana (lezione di F. Casati). Che sia possibile avvicinare in tal modo gli elementi più oscuri della tradizione metafisica è ciò che rende da subito manifesto il valore dell’approccio priestiano: anziché arrendersi dinanzi alla constatazione della contraddizione, anziché dedurre da essa la necessità di un errore epistemico o denunciare la ritirata nell’ineffabilità e nel silenzio, il dialeteismo tenta di farsi strada lungo il sentiero del paradosso, con l’intenzione di domarlo. Il rischio è alto: come notano Carrara, Mancini e Strollo (DLEAC e il paradosso del diniego, pp. 155-189) i paradossi della vendetta sull’esercizio del diniego minacciano la ricaduta nel trivialismo (la dottrina per cui tutti gli enunciati sono veri); ma lo è anche il premio, e l’incentivo ad arrischiarsi nelle acque della contraddizione è dato tanto dal valore euristico che la sua legittimazione dischiude – l’opportunità, ad esempio, di sviluppare processi inferenziali sulla base di informazioni contraddittorie (p. 31) –, quanto dallo schiudersi della stessa possibilità di oltrepassare i confini ordinari della tradizione filosofica, dacché, nota Priest (p. 44) sulla scia di Łukasiewicz, l’elenchos aristotelico non costituisce condizione sufficiente per dimostrare la falsità del modello dialeteista, ma, al contrario, si inscrive in esso sottoforma di verità logica – poiché, nelle logiche paraconsistenti, ¬(a ∧ ¬a) è una proposizione sempre vera.
Così, l’adozione di un paradigma per il quale la contraddizione non va ricusata, bensì piuttosto guidata, potrebbe indurre a trattare dell’Essere di Heidegger come di una verità paradossale, inconsistente ma non per questo insussistente: il suo non essere ente (o essere ni-ente) al contempo risultandolo in quanto soggetto della predicazione (p. 101), non condurrebbe a un aut aut indifferibile, non imporrebbe la coazione di una scelta, ma costituirebbe piuttosto la prova della possibilità di «decidere di non decidere» (p. 110), la testimonianza di una libertà fondamentale della quale solamente chi «pensa troppo corto» pare privarsene. Similmente, l’impronunciabilità kantiana del soggetto sui noumeni, notoriamente tradita per l’esigenza di riferirvisi anche solo negativamente, così come gli argomenti della Dialettica trascendentale, addotti al fine di decretare l’imprescindibilità delle intuizioni empiriche, risulterebbero non già in contraddizioni inammissibili, quanto in verità non ostracizzabili, e dunque insufficienti a definire perentoriamente i limiti epistemologici costitutivi dell’uomo. Dialeteista inconsapevole, Kant sarebbe così primo testimone di una realtà ontologica, e non segnalatore di mere impossibilità epistemiche.
Lo stesso vale, allora, per il problema del moto e, in particolare, del paradosso della freccia di Zenone (a patto, come nota Perelda, che ci si disponga in un’ottica presentista, secondo la quale «la realtà è confinata al presente»; cfr. Il paradosso della freccia di Zenone nella considerazione di Priest, tra presentismo ed eternismo, p. 251), per cui diviene ammissibile che un oggetto in movimento si trovi in più di una posizione al medesimo tempo, realizzando una contraddizione; e non fanno ugualmente eccezione i paradossi dell’autoriferimento, forse anzi i casi di dialeteia più discussi in assoluto: che si asserisca che questo enunciato è falso, o che il cretese Epimenide dica che tutti i cretesi sono bugiardi, significa, sì, che si enuncino degli argomenti paradossali e contraddittori, ma cionondimeno corretti, che stabiliscono conclusioni vere. Se, affermando una doppia verità, il paradosso del mentitore non costituisce un problema irrisolvibile, è perché, secondo Priest, «semplicemente […] il problema non c’è» (p. 50).
È tuttavia rivolgendo lo sguardo all’interpretazione priestiana della filosofia di Hegel che l’ermeneutica dialeteista persuade maggiormente del proprio potenziale e valore. Non aveva finora interamente premiato tentare di operare una formalizzazione della dialettica, e ciò a ragione dell’assunzione esegeticamente indebita di un coerentismo difficilmente individuabile entro le strette maglie del testo hegeliano. Che invece Priest si avvicini a quest’ultimo ammettendo preventivamente che una violazione del principio di non contraddizione possa darsi, è ciò che permette di superare, o forse almeno eludere, l’incomunicabilità storicamente costituitasi fra la filosofia hegeliana propriamente pensata e la logica classica di matrice aristotelica. Nei fatti, è dato in tal modo al filosofo britannico di individuare nel momento speculativo e razionale della dialettica non già – e necessariamente – una sintesi pacificatrice che risolva la contraddizione soffocandola, bensì, piuttosto, un inveramento di essa, una sua affermazione concreta nell’alveo del fondamento come nella pura forma dell’Assoluto. Usando la semantica paraconsistente, il movimento dello spirito (g) procede oscillando fra l’estensione e l’antiestensione delle sue determinazioni (rispettivamente Ԑ(B) e A(B)); realizza in tal modo una contraddizione intersecandole nella negazione della negazione (Bg ∧ ¬Bg), determinando da qui un nuovo concetto (Dg). «La contraddizione precedente […] non è svanita, ma viene espressa [da quest’ultimo] in modo consistente. In questo senso la contraddizione è preservata e rimossa ad un tempo, ovvero è aufgehoben» (p. 73). A ben vedere, si può aggiungere che essa non solo non è tolta, ma anzi è, per certi versi, raddoppiata: alla verità preservata della proposizione Bg ∧ ¬Bg si somma il suo essere al contempo asserita nel concetto Dg in modo consistente, ovvero si somma l’inferenza di per sé contraddittoria dell’Aufhebung. L’intensione non contraddittoria della contraddizione realizza infatti, a sua volta, una contraddizione, quantomeno nella misura in cui non si intende dimenticarne il contenuto sopprimendolo nella semplicità di un nuovo asserto (Dg), bensì lo si mantiene in esso, lo si eleva, e dunque lo si rimuove, certamente, ma solo a patto di preservarlo.
A permettere questo tipo di aderenza al dettato hegeliano vi è la considerazione preliminare, invero da tempo condivisa (solo in Italia lo notano Berti, Marconi, D’Agostini e, recentemente, Coltelluccio), che confutare la dialettica facendo valere il principio dello pseudo-Scoto – come notoriamente tentò di fare Popper in Congetture e confutazioni – non conduce agli esiti sperati, in quanto la legge dell’ex falso quodlibet implica la banalizzazione degli asserti dedotti solo nell’ammissione dell’aristotelico principium firmissimum. Cionondimeno, è altresì opportuno notare come il modello proposto da Priest presenti comunque delle potenziali fragilità; le quali emergono osservando che lo schema piramidale dell’edificio filosofico hegeliano, dacché presuppone la sussunzione dell’Intero nell’affermazione finale dell’Assoluto – o, meglio, la finale coincidenza immanente dell’Assoluto e dell’Intero –, induce alla conclusione che tutto sia contraddittorio, e che quindi il rischio della trivializzazione non sia affatto evitato. Se, infatti, l’esercizio dell’Aufhebung non coincide con la mera soppressione della contraddizione, quanto piuttosto col suo mantenimento nell’incontraddittorietà di un nuovo enunciato, e se ancora l’ultimo approdo del percorso logico è l’Idea Assoluta, intesa come il «metodo» declinato sulla totalità delle proprie determinazioni, ne consegue, allora, che una finale coincidenza di Idea e contraddizione porti a dipingere il Sistema come una dialeteia universale, hegelianamente un che è al contempo altro da sé. Forse più prossima alla dialettica negativa di Adorno che a ciò che è qui in esame, una tale immagine della filosofia hegeliana risulta lontana dal ritratto che ne intendeva il suo genio, come anche distante dal disegno che lo stesso Priest avrebbe voluto tracciare.
Per quel che ancora attiene a Hegel, ci si permette di segnalare un’ulteriore appunto: l’invito ad esprimere il disaccordo del dialeteista facendo appello alla teoria pragmatica degli atti linguistici (p. 57), e in particolare la proposta di far uso di operatori che simulino la contrarietà e l’opposizione reale trendelenburghiana di contro alla mera negazione logica esclusiva (cfr. il saggio di Berto, Contraddizione assoluta, dialeteismo e vendetta, pp. 142-145), non pare essere compatibile con una lettura non coerentista della dialettica hegeliana. Laddove infatti il diniego del logico paraconsistente si differenzia dalla semplice negazione booleana perché determinato e non dialeteico (o meglio, non dialeteizzabile), l’opposizione hegeliana, la quale presenta gli stessi tratti di contrarietà (come già notava Landucci), genera piuttosto una contraddizione, e nello specifico la contraddizione dialettica utile a stimolare la processione dello spirito. Quanto è potenzialmente utile a consolidare il paradigma logico priestiano, lo è perciò meno a renderlo realmente compatibile con le proposte filosofiche che ne hanno preceduto la formulazione, e permette, forse, di sollevare dei dubbi circa la sua funzione di strumento-guida per indagini di natura eminentemente ermeneutica.
Se ci si limita alla considerazione di quanto Priest sostiene in questo testo, e non si estende l’attenzione agli altri contributi dell’autore (quali ad esempio i più volte citati Beyond the limits of the thought e il recente One), è poi difficile evitare che i dubbi summenzionati non vengano esacerbati da una certa superficialità nell’approccio esegetico, che può effettivamente stupire, nonché generare insoddisfazione nel lettore più esigente. L’andamento corrivo dell’esposizione è giustificabile parzialmente considerando il carattere introduttivo delle lezioni, ma non completamente, se si osserva che l’intervento di Mancini, ugualmente introduttivo, presenta, per il solo Heidegger, ben più citazioni e rimandi testuali di quanti Priest non ne riporti per tutti gli autori da lui menzionati – oltre che, in generale, una ben più estesa bibliografia.
Beninteso, quest’ultimo rilievo non incide in alcun modo sul valore generale della pubblicazione: è quantomai doveroso riconoscere che il testo di Priest si presenta come uno strumento di studio ottimo per chi, anche privo delle conoscenze logiche propedeutiche, volesse avvicinarsi al complesso tema del dialeteismo. L’ampio ed esaustivo quadro col quale avvierebbe il proprio confronto lo interesserebbero di certo, e a quel punto gli altri saggi riportati nel volume, più specifici e di taglio espressamente accademico, lo accompagnerebbero, almeno per un primo tratto, lungo la strada della ricerca e del necessario approfondimento.

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