È giocoforza che quando si legge un libro teoretico venga il desiderio di confrontarvisi direttamente. Ma non per vanità o spirito di superiorità, bensì con l’umiltà di chi recepisce un finissimo esercizio di pensiero – come indica appunto il sottotitolo – e si incammina a pensare sulla scorta di ciò che la lettura ha sollecitato e suggerito. Soprattutto in considerazione del tema, il più caro, il più vicino e il più matematico. È infatti dell’essere dell’uomo che Mazzarella discute in queste brevi ma profonde pagine, che si approssimano al cuore pulsante dell’esistenza e allo stesso tempo cercano di distaccarvisi per riflettere su di esso. Un esercizio sull’origine e insieme originario, poiché è da uno dei miti fondativi dell’Occidente che il filosofo napoletano tesse la sua trama teoretica. L’essere dell’uomo è tempo, è venire al mondo come tempo che dura e che è destinato alla fine, ed è, con uno scarto che Heidegger avrebbe chiamato il filosofico par excellence, metafisico in quanto consapevole del suo nulla e del suo morire, e cioè coscienza del suo stesso essere, del suo esser-così. Tale, per Mazzarella, è la dinamica esistenziale della colpa, l’essere venuti al mondo, condannati alla finitudine, percepire un debito non voluto ma di cui la volontà di sapere e di conoscere si appropria, e per cui cercare un riscatto, appunto l’esercizio filosofico che medita sulle vie d’uscita.
L’esperienza della colpa consiste già nell’essere al mondo, nell’essere emersi dalla physis, come la indica Mazzarella richiamandosi ai Greci e a un loro riscrittore filosofico, forse il maggiore del Novecento, e cioè nuovamente Heidegger. Il fatto che siamo venuti alla physis, come essere, e alla totalità dell’ente, come mondo, relega l’essere dell’uomo alla colpa. Colpa che è, naturalmente, anche lo sforzo che opponiamo all’inerzia altrimenti divorante del mondo per mantenerci nella forma che siamo. Siamo colpa poiché siamo venuti alla forma, perché nati; siamo colpa, in maniera forse più gravosa e per ciò stesso più dolorosa e radicalmente sofferente, poiché resistiamo al mondo, perché vi siamo radicati volendo ancora essere purché la vita sia. La colpa è l’esperienza continua e quotidiana dell’esserci che, per conservare sé nella forma finita che abita e che è, trovandosi nella physis «vi contrasta e in questo contrasto con le sue radici, che è un farsi da sé dalle sue radici, si regge» (p. 11). Tale è il fondamento, un fondamento che però si tiene a sé, e che, ricorda Mazzarella, è cartesiano nell’auto-certezza del cogito e della coscienza, ma che in senso ancora più profondo è adamitico. Il fondamento della colpa è la sua stessa insorgenza che si abbarbica a sé nella coscienza, cioè nel sapersi di sé come colpa dell’uomo, e che nella coscienza si ritrova ancora come colpa.
Secondo la Schuld heideggeriana, a cui Mazzarella si richiama fortemente, siamo esseri-in-colpa, ma anche – nella traduzione suggerita da Marini – esseri-in-debito, per aver ricevuto la vita da altri, per essere immersi nella rete di relazioni in cui veniamo a situarci, per aver prelevato, assecondando un punto di vista materialista ma non nichilista, la materia che siamo per esserci costituiti, per crescere, per continuare a essere: durata che è colposa nel debito costante che contraiamo con il mondo per la nostra stessa sopravvivenza, per la permanenza formale in cui ci siamo specificati in esso.
Con una bellissima formula, Mazzarella scolpisce questo concetto: «Come esperienza di questo essere in debito, di un imprestito che non si può restituire, perché restituirlo vorrebbe dire estinguersi, restituirsi al lato ctonio dell’integrità numinosa da cui si è venuti fuori – e questo la “cosa che pensa”, lo può fare solo come corpo morto; non più cioè “cosa che pensa”, ma solo più cosa, cenere e polvere di un “essere stato” –, l’esperienza umana è alla sua origine esperienza di questo debito creaturale e insieme terrifico, in cui si costituisce la sua colpa, il suo essere-in-colpa» (pp. 12-13). Una delle tensioni che percorrono queste riflessioni, nonché l’umano stare al mondo, è proprio questa, la lacerazione del sentirsi colpa e portatori di un debito sanabile solo con la dissoluzione della forma che ci appartiene, con la morte, con il cedere, come sottintende Mazzarella, il pensiero alla morte, trapassando da cogitans a mortuus. Percepire, cioè, la ferita della vita-colpa che è desiderio di estinzione ma allo stesso tempo di voler essere ancora, volontà di potenza più forte del richiamo del debito e della rimozione della colpa definitiva, e con essa della matrice dolorosa. Eppure, se così fosse, il pensiero, riferendoci a Spinoza, più che meditazione della vita sarebbe un voltare le spalle alla redenzione, un accecamento per il troppo buio che non cerca, nel proprio essere e nella vita che gli appartiene come cosa in fondo la più intima, il quid della sua salvezza. Fare in modo, dunque, che il sapersi di sé della colpa che è la coscienza non sia, come scrive Mazzarella, l’essere di un «finito che non trova in sé la salvezza» (p. 15).
Il prendere coscienza di sé come colpa è la storia tra le più antiche dell’umanità, è il mito originario in cui si fonda il suo stesso fondamento, ed è collocato da Mazzarella in un’acuta dissertazione sul Genesi, sulla colpa che viene alla luce come coscienza di sé e che però, nel Dio che pur ci ha creati, può, nella vita che si pensa come sostanza posizionata nel Sacro e in contatto con Esso, aspirare comunque a un riscatto, che nella concezione dell’autore ha nome e figura nel Salvatore, in Cristo. La colpa è il salto, il modo in cui l’uomo accede a se stesso come essere colposo, è il prendere coscienza di sé che dall’indistinzione afferra il suo finire necessario come morente, e dunque il suo comprendersi come tempo, come cosa-che-finisce. È per questo, spingendoci sulla scorta di Mazzarella oltre il testo, che la colpa è prendere consapevolezza del tempo come cifra della finitudine esistenziale. Sapere il tempo è sapere la morte, che altro non vuol dire, operando un altro salto, sapere il nulla. Il nulla, in quest’ottica, è l’altro nome del tempo saputo nella coscienza che sa se stessa come ente finito e venuto al mondo nella resistenza alla physis.
In questo ad-venire alla consapevolezza di sé, l’umano, con la formula credo più bella, esatta e descrittiva del libro circa la sua essenza, è «contingenza avveduta» (p. 18). Ma avveduta di cosa? Del proprio inevitabile finire, del tempo che è e che poteva non essere e che non sarà più, dell’essere che ha sottratto la sostanza per essere al Tutto che è la physis per diventare se stesso, per mantenersi nel divenire resistendo alla maestà del cosmo.
Lo dice chiaramente Mazzarella, insistendo ancora nel concetto: «Al più una contingenza avveduta, il cui primo avvedersi di sé è un vedersi consegnato, per stare in se stesso, a qualcosa di altro da sé; a qualcosa di altro da sé sia in se stesso che fuori di sé, alla fluttuazione che lo circonda e lo traversa di un pienamente stante in sé e per sé – il Sacro del mondo – che lo concede a se stesso per il tempo che gli è proprio; per il tempo debito e di cui resta di debito» (p. 18). Siamo consegnati al mondo da cui traiamo nutrimento e raramente anche gioia, alle cure di chi ci fa venire alla luce, alla collettività storica in cui ci troviamo a essere, semplicemente all’hic et nunc del nostro esser-situati. Ma siamo rimessi al Sacro, a ciò che sta indipendentemente da noi e da cui abbiamo tolto la materia, non voluta, del nostro essere, del nostro, lo si ripete, esserci fatti forma. Il Sacro è anche l’Aperto di Rilke a cui Mazzarella fa riferimento, lo spazio in cui non solo agisce la colpa come consapevolezza ma anche ciò a cui ci appelliamo affinché la colpa non sia più tale, l’affidarci all’altro da sé come totalmente altro, la parola fatta volare alta verso il redentore, il quale solamente può riparare l’offesa della vita che nasce nella colpa e nell’irrefutabile prospettiva del durare nel dolore e della morte. Colui, insomma, che richiami la colpa a sé e lenisca la ferita di tale contraddizione. Sulla scia del Qohelet: «Il filo dell’“illogico”, l’alogos, l’algos, il dolore per eccellenza del pensiero, è tirato dall’altra parte. Nella sapienza non c’è analgesico per questo. La morte è la normalità, l’universo è freddo, o quanto meno ha il freddo dell’indifferenza nell’alzarsi e nello spegnersi dei suoi soli; l’enigma è la vita, un insulto logico visto che si nasce non solo per morire, che già basterebbe, ma bisogna pure saperlo – uno sfregio, in buona sostanza. Intollerabile» (p. 23). Avevano ragione, a turno, Schopenhauer e Pirandello nel dire che gli animali – per loro era il cavallo – sono più fortunati poiché non sono consapevoli di dover morire. Privi di metafisica, per dirla ancora con Heidegger, ma anche liberi dall’angoscia, di quella che l’umano si addossa una volta divenuto coscienza-tempo.
Ma è in questa infausta ironia, in quello che Mazzarella ha chiamato sfregio, che bisogna far crescere la forza del riscatto, nel ludibrium materiae che è la vita, il cui male allora si spiegherebbe da sé essendo l’errore alla sua stessa radice, l’essersi fatta spontaneamente dal Tutto (cfr. p. 24). Non essere come Don Chisciotte che, nell’epoca della morte di Dio, lotta inutilmente contro l’affermazione della vita come tossicità alla radice, la stessa che, con Svevo, ha solo l’annichilazione totale come unico scenario possibile di salute, di salvezza.
Il crinale del discorso mazzarelliano, il punto di svolta nell’argomentazione, viene dunque dalla definizione più circostanziata e rigorosa che l’autore dà della colpa, la cui ultima parte gioca un ruolo decisivo in vista del prosieguo del libro, così come della speculazione su questo tema: «La colpa è il tempo che si affatica nella cura di sé, tempo che si affanna per tornare, ma non può essere redento da sé» (p. 26). La colpa, che in fondo abbiamo capito essere il carattere più proprio dell’essere dell’umano, la riformulazione che Mazzarella fa della Sorge heideggeriana ricalibrandola sulla centralità della Schuld, è vita che si estenua a durare nei modi che le sono dati e che si crea, e che nostalgicamente vorrebbe ritornare al sacro da cui è emersa, ma che è frenata dall’angoscia per il proprio finire. La vita per Mazzarella – e qui sta il punctum della sua concezione cristiana – non può avere redenzione da sé, ma solo in un altro, quell’altro che è il Salvatore, che è Dio, che è colui che «non toglie lo stato di peccato dal nostro esserci, ma toglie e regge il nostro esserne colpevoli» (p. 42). Ciò che toglie l’esser-colpevole dall’uomo, che condona la colpa sollevandolo, è la grazia. L’uomo non può redimersi da sé, «può aver grazia da Dio, perché la carità è più grande» (p. 43), la carità paolina che edifica e che fa la comunità, l’incontro più caldo tra uomini e donne all’insegna del dolore da placare. La vita illuminata dalla grazia dice dunque sì a se stessa, dice sì alla colpa, è una vita redenta che ha fede nel fatto che non tornerà nel Tutto da cui è provenuta ma che verrà redenta nel sussistere della sua forma in un’altra vita, che continuerà a essere, nonostante tutto, benedicendo se stessa. La quaestio dell’altrove si gioca completamente nel tutto o niente dell’intero che siamo: tutto l’uomo dovrà salvarsi, nella carne, nello spirito e nell’unione di questi due elementi che costituisce la vita come l’abbiamo conosciuta e vissuta.
Il libro inizia con un’epigrafe per me bellissima tolta da uno dei maggiori poeti del Novecento, Dylan Thomas, per di più da una delle sue poesie più famose, Do not go gentle into that good night. Thomas pensa questa poesia per il padre morente: è l’imperativo, benché la vita sia al suo finire, di urlare, di far valere ancora il proprio diritto al mondo, di non andarsene docili nell’ora del trapasso. È soprattutto sulla natura di questo non poter essere redenti da sé che credo che il libro di Mazzarella induca alla riflessione, se ci si possa salvare da soli, se per necessità dobbiamo pensare a un riscatto e alla conservazione della forma che siamo, al condono della colpa preservando le condizioni di corpo, di spazio e di tempo. L’esercizio filosofico del libro ritengo sia anche dedicato a renderci più saggi, come i wise men di Thomas, i quali sanno, alla fine, che dark is right, che il congedo della vita da sé con il morire è un atto dovuto, inscritto nell’equilibrio del cosmo.
Mi domando, allora, se sia necessaria la gnosi, se ci debba appellare alla grazia, se invece il solo sapere di colpa, tempo e coscienza avveduta di ciò debba per forza preludere a un ancora. Se invece, ribaltando i versi del poeta, non ci si debba infuriare per il morire della tenebra, la tenebra che è la vita rispetto alla luce della Materia di cui abbiamo preso, pagandone il prezzo, alcune schegge, affinché una volta spente si plachino nella non-più-coscienza, nella perfetta serenità dell’inconsapevole in cui non ci sono né colpa e né tempo.
(27 settembre 2022)